Antonio Lanza
Sabato scorso a Marsala ho scoperto un giovane poeta catanese, Antonio Lanza, che con i suoi versi rinnova un filone dimenticato della poesia italiana. Ripropongo di seguito la bella intervista, curata da Grazia Calanna, rilasciata a https://www.lestroverso.it/
La
parola, la madre del pensiero, direbbe Kraus. La parola corporea,
dialogica, inesauribile, luminosa, impudica, evocativa, inoppugnabile,
assertiva. La parola principale interprete del pensiero contemporaneo
serbato nel “XIII Quaderno di poesia italiana contemporanea”, edito da
“Marcos y Marcos”, animato dal verbo di sette autori (Agostino Cornali,
Claudia Crocco, Antonio Lanza, Franca Mancinelli, Daniele Orso, Stefano
Pini, Jacopo Ramonda) scelti dallo storico curatore Franco Buffoni,
ciascuno presente con una propria originale produzione (“Camera dei
confini”, “Il libro dei volti”, “Suite Etnapolis”, “Tasche finte”, “Muri
portanti”, “Sentimentale Jugend”, “L’inappetenza”).
«Etnapolis di
etnapolis, tutto / è etnapolis, dalla terrazza da cui solo mi sporgo /
lamento, finito il turno, la prova. / (C’è buio fitto adesso – e dorme
distesa / tutta sotto le stelle la colossale / Babilonia.) Balena
spiaggiata, Etnapolis, / colonia penale, Etnapolis, / pista di decollo,
navicella spaziale, Ecclesia – / piàcciati entrare intera nel mio canto,
/ le luci come l’immondo».
Quelli scelti sono versi di Antonio Lanza
(nella foto), unico siciliano presente nell’antologia, tratti da “Suite
Etnapolis”, opera prima di «straordinaria potenza drammatica che –
scrive Fabio Pusterla nella nota introduttiva -, rappresenta un bel
segnale circa la vitalità espressiva della giovane poesia italiana e la
sua capacità di affrontare con forza la realtà più concreta e meno
‘poetica’, allontanandosi dai territori più tradizionalmente ‘lirici’».
Un capolavoro ricco di attinenze, una poesia colta e ineccepibile (sia
sul piano stilistico che linguistico), una lente d’ingrandimento per
guardare all’uomo contemporaneo, alla contemporaneità,
all’individualismo sfrenato (e inappagabile) da un non-luogo che tutti
li rappresenta (un “campo di concentramento commerciale”, per usare la
calzante definizione di Alessio Annino) dal quale, sommando le
singolarità dei numerosi personaggi (attori/spettatori inconsci alla
stregua di “Manichini”), si erge – tagliente – l’idea chiara della
totalità. Rinvenuta nel baratro del mondo; la poesia è uno strumento di
conoscenza dichiara Lanza al quale abbiamo rivolto qualche domanda.
Qual è il ricordo legato alla tua prima poesia?
Scrivere
era un bisogno ineludibile. I miei primi tentativi assumevano forma di
imitazioni. Per poter dire di me, non disponendo ancora delle parole
esatte, prendevo in prestito i versi degli altri. Natale di
Ungaretti, per esempio, mi forniva, con qualche insignificante modifica,
le parole per dire la mia solitudine. Seguì poi una lunga fase di vera e
propria grafomania: scrivevo le poesie e gli appunti ovunque capitasse,
anche sui libri di testo liceali.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Devo
a una telefonata della poetessa calatina Maria Attanasio alla quale,
circa dieci anni fa, avevo inviato alcuni miei testi, se le mie letture,
fino ad allora bulimiche ma disordinate, si sono aperte alla
contemporaneità. Lessi allora, tra gli altri, Milo De Angelis: il suo Tema dell’addio era di una bellezza insostenibile. Vennero poi Gli strumenti umani di
Sereni, un libro imprescindibile per la mia formazione, e gli stessi
libri di Maria Attanasio, sempre più un faro per la nostra generazione
poetica. Fino a qui, quelli che amo chiamare “maestri verticali”. Ma nel
lungo apprendistato di poeta è determinante anche il confronto con i
poeti tuoi coetanei. Per cui ritengo “maestri orizzontali” poeti come
Vincenzo Galvagno (il suo Ablativi assoluti fu per me
determinante), Maurizio Giudice, Fernando Lena, Patrizia Sardisco, Maria
Grazia Insinga, Pietro Russo. Ci sono poi influssi inaspettati ma non
meno determinanti, come quello dei Pink Floyd, dai cui concept album ho
imparato il respiro lungo e la progettualità del lavoro creativo.
Qual è – nell’arco della giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia?
Tentando
di svincolarmi dalla tirannia e dai capricci della cosiddetta
ispirazione, configurandosi la mia poesia come il “frutto del lavoro
quotidiano”, espressione cara a Baudelaire, direi che il momento più
adatto per scrivere poesia è qualsiasi ora del giorno, quando si è
sciolti da ogni obbligo lavorativo e familiare. Suite Etnapolis, incluso adesso nel XIII Quaderno italiano di poesia contemporanea
appena pubblicato da Marcos y Marcos, è stato scritto nell’arco di due
anni grazie a sedute giornaliere di parecchie ore, talvolta mattutine a
volte pomeridiane.
In che misura una poesia ‘somiglia’ al poeta che l’ha scritta?
Se
è vero che la poesia è conoscenza, capacità cioè di presa di possesso e
interpretazione del mondo, essa, per assolvere questo compito, deve
farsi plurale, deve quindi assomigliare il meno possibile al poeta che
l’ha scritta. Se vi si riconosce troppo, può darsi che quel che il poeta
ha scritto sia solo espressione di sé e quello, a mio parere, non
interessa a nessuno.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Può
dirsi compiuta quando anche solo spostare una virgola può far cadere
l’intera impalcatura, ed è un processo lungo, perché quasi mai la prima
stesura restituisce un testo perfetto.
La poesia può (e se può, in che modo) restituire ‘purezza’ alla parola?
Il
concetto di ‘purezza’ della parola è paralizzante per un poeta, che
deve poter annettere alla sfera del ‘poetico’ tutto ciò che prima non
sembrava ammetterlo. Per far questo, occorre la massima libertà
espressiva. Tendere a una parola ‘pura’ rischierebbe di inficiare al
poeta la possibilità di restituirci il mondo, che per definizione puro
non è. Non alla purezza punta la parola poetica, ma alla complessità.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Alla
poesia non è consegnato nessun tipo di incarico. La gente comune, per
lo più, non sa neanche che esistano oggi i poeti. Tuttavia non mi
rassegno a credere che quella che facciamo sia la più interlocutoria e
onanistica delle arti. Mi piacerebbe che tra cent’anni chi avrà voglia
di sapere cos’erano il mondo e l’uomo agli inizi del XXI secolo possa
leggere Suite Etnapolis per trovare qualche risposta.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza trova rifugio/conforto?
Vado a insabbiarmi a dannarmi per anni, un endecasillabo di Vittorio Sereni che sento in questi mesi particolarmente vicino.
Per concludere, ti invito a scegliere una tua poesia per salutare i nostri lettori.
Scelgo i versi di apertura del mio poemetto, Suite Etnapolis:
“Vergine e pubica la domenica di Etnapolis / dieci minuti prima
dell’apertura / al pubblico, ma già la percorrono / i primi polpacci
pelosi e carrelli / Iperfamila che sferragliano vuoti. / Saracinesche
aperte a altezze variabili / come palpebre offese al sole / con fiamme
di logo al sommo delle porte.”
*
(la
versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è
apparsa sul quotidiano LA SICILIA di giorno 11.06.2017, pag. 14, rubrica
“Ridenti e Fuggitivi”, Cultura).
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