Brahmini a tavola
Caste indiane. Un libro, un problema
Alfonso M. Di Nola
Il libro di Dumont sulle
caste indiane, pubblicato in Francia nel 1966, poi in edizione
revisionata e arricchita nel 1979, è divenuto ormai un classico
delle analisi francesi vagamente oscillanti fra la sociologia,
l’antropologia e la storia. Diciamo subito che è un’opera di
notevole spessore dottrinario, che avanza ipotesi interpretative
nuove, e che tuttavia è principalmente destinato a lettori
specialistici che presumibilmente già conoscano tutta la storia del
sistema castale e siano disposti a rileggerla sulla base delle teorie
di Dumont: teorie nelle quali si fondono istanze fondamentali della
vecchia scuola sociologica francese (la memoria di Hertz e di Mauss è
apertamente dichiarata), suggerimenti dell’antropologia sociale
inglese e qualche influenza dello strutturalismo lévistraussiano in
una sintesi che dà vigore a particolari prospettive interpretative e
che, tuttavia, pesa talvolta negativamente sulla chiarezza del quadro
ricostruito.
Nuove ipotesi tra
vecchie dispute
In questo quadro, va
subito detto, la grande assente è una limpida dimensione storica che
viene respinta in secondo piano e sacrificata ai comandi del
sociologismo. Del tutto inutile per il lettore italiano (ma credo che
tale sia anche per il lettore francese) la lunga e noiosa
introduzione nella quale Dumont puntigliosamente anatomizza gli
interventi dei critici sulla prima edizione dell’opera, e
costruisce una sorta di lamentosa diatriba, di gusto seicentesco,
circa le opinioni che hanno accompagnato l’edizione del suo libro.
Si ha l’impressione,
inseguendo Dumont in una lettura non agevole, né suggestiva, che il
vigore dell’opera sia ben al di là di questa giostra polemica di
diverse opinioni. Sostanzialmente Dumont sembra respingere le più
antiche e diffuse teorie che tentavano di spiegare, già nel secolo
scorso, la formazione delle caste in India: l’ipotesi secondo la
quale nelle caste si consoliderebbero raggruppamenti parentali di
origine indoeuropea (forme, cioè, di strutture chiuse, fra di loro
separate e spesso opposte, simile al concetto germanico di Sippe
e a quello latino di Gens); e l’altra ipotesi che riconduce
l’origine delle formazioni castali al dominio che i gruppi
indoeuropei esercitarono sugli autoctoni dell’India prima delle
ondate di invasione (la casta segnerebbe, nelle sue molteplici
variazioni, il limite fra conquistati e conquistatori. Si insinua fra
queste consolidate ipotesi, genetiche, una terza proposta mediante,
che farebbe risalire la genesi del sistema castale al peso del
rapporto fra puro e impuro come stimolo ideologico-religioso della
diversità e dei divieti di contatto (prospettiva sulla quale pesa
notevolmente, in Dumont, la teoria su puro/impuro della signora
Douglas, oggi in crisi).
Dalla confluenza di
queste e di altre suggestioni teoriche, nasce l’estrema difficoltà
della stessa definizione terminologica e concettuale della nozione di
casta, quando, uscendo dalla concretezza dei dati storici, si voglia
erigere sopra i dati il castello della speculazione teorica. Dumont
si diletta di codeste escursioni nell’immaginario della
teorizzazione sociologica o forse sociologistica, con conseguente
calo della puntualizzazione del concreto storico. E così, anche per
diretta ispirazione weberiana, il punto focale dell’individuazione
del concetto di casta si sposta altrove; la casta sembrerebbe una
modalità della gerarchia (di qui il titolo dell’opera), ma subito
va detto che questa struttura gerarchica, fondata su modelli
religiosi e mitici, non si associa al potere, la quale compete,
nell’antica società indiana, al re.
Il brahmano rappresenta
il culmine dell’incorporazione ereditaria e fisica di un livello
supremo gerarchico che, tuttavia, non esercita un potere. Nello
sviluppo imponente della rete castale, nelle sue infinite
frammentazioni e varianti da area ad area, da villaggio a villaggio,
viene a costituirsi una struttura per noi difficilmente
comprensibile, nella quale i destini e le attività individuali
vengono ad essere predeterminati per nascita e assegnazione genetica,
in un’inesorabile negatività del quadro storico che Dumont,
intenzionalmente, non intende percepire. Gli interessa, invece - ed è
forse uno dei motivi portanti dell'intera opera - individuare il
presuntivo significato del sistema castale per la società moderna e
per il mondo occidentale. La casta, in una semplificazione ultima di
un problema intricato, gli sembra una categoria storica di società
olistiche: quelle nelle quali l’individuo, cancellato, è immesso
nella routine della totalità, laddove il superamento della casta è
l’affermazione dell’individualismo (anche qui c’è tutto il
peso delle suggestioni weberiane). Così, in questo tipo di
organizzazione, la totalità inglobante e dominante (il leviathan
hobbesiano) inserisce l’individuo in un sistema nel quale la casta
«è la nicchia di una vasta colombaia».
Dumont, al di fuori della
sua analisi delle caste, ha dovuto sciogliere il nodo problematico
emergente fra l’organizzazione castale e l’antica tesi postvedica
dei quattro stati o condizioni dell’uomo, che appaiono già nel
Codice di Manu. Le caste sono pressoché innumerabili, ma il Codice
di Manu, fissando in uno schema mitologico la vetusta violenza del
rapporto fra classi, proclamava che i diversi stati sociali umani
dipendono da una dignità ordinaria correlata alla parte del corpo
mitico dal quale gli uomini erano originati nella metastoria. Sono,
questi, i varna, gli «stati» simili a quelli che conobbe la
teoria feudale della società e sui quali si è formata la
speculazione irrazionalistica di Dumézil: i preti o Brahmani
dominano per diritto divino ed ereditario e a loro sono assoggettati,
in un progressivo decadimento gerarchico, i guerrieri (kshatriya),
i mercanti (vayshya), fino all’infima stratificazione dei
servi (shudra), al di là della quale pullula la verminosa
massa degli intoccabili (paria).
Un'opera distante
da ogni tragedia
La difficile relazione
fra le «categorie» o varna e le caste o jati viene
risolta da Dumont con alcune osservazioni di fondo: che ambedue i
sistemi, per quanto diversi, pongono al culmine della gerarchia i
preti (brahmani); che quello dei varna o categorie è un
sistema semplice e universale, mentre quello delle caste è un
sistema composito; e che, infine, sussiste una costante
interrelazione fra i due modelli.
Per giungere ad una
conclusione. dovremmo dire che la pubblicazione dell’opera di
Dumont da parte di Adelphi è impresa veramente coraggiosa e
meritevole poiché fornisce agli specialisti un ulteriore apporto
teorico, e che, tuttavia, si tratta di lavoro di ardua lettura, tutto
attraversato da preoccupazioni sociologiche, distante dalla
considerazione delle umane tragedie che la struttura castale tuttora
alimenta nel continente subindiano.
Recensione
di Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue
implicazioni di Louis Dumont trad. di Delia Frigessi Adelphi,
1991
“il manifesto la talpa
libri”, 8 febbraio 1991
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