Nella Cgil è in corso una guerra tra bande. Basse manovre da Lama...Quello di Bertinotti è un movimentismo senza obiettivi. Ha una meschina ambizione di protagonismo». Nei diari di Trentin il quadro desolante della sinistra, politica e sindacale, italiana degli anni Ottanta rappresentata come un insieme di arrivisti senza scrupoli, guitti da avanspettacolo e miserabili. Un libro prezioso per capire, dall'interno, come allora si posero le premesse della crisi di oggi, ma anche i motivi della resistibile ascesa di Silvio Berlusconi.
Marco Cianca
Trentin,
escono i diari segreti Critiche ai leader della sinistra: da Luciano
Lama a Fausto Bertinotti
Il dolore di Bruno
Trentin. Inaspettato e sconvolgente. «Avverto un’immensa fatica
fisica e intellettuale, affettiva, tanto che mi pare a momenti di
dovermi gettare ai margini di un sentiero e di morire, così, per
esaurimento, per incapacità di esprimermi, per disamore per la vita
e la lotta, e semplicemente perché non ho più voglia di battermi e
di farmi capire», scrive a metà agosto del 1992. Sono passati
quindici giorni da quel venerdì 31 luglio che ha segnato il momento
più tribolato della sua vita da sindacalista.
La paura del fallimento
La firma di un’intesa
nella quale non credeva, spinto dal timore che il fallimento della
trattativa con il governo avrebbe avuto «effetti incalcolabili sulla
situazione finanziaria del Paese». Aveva firmato, per «salvare la
Cgil», e si era dimesso. «Che cosa sarebbe successo rifiutando
l’accordo, con tutte le sue nefandezze? Nel mezzo di una catastrofe
finanziaria, a chi sarebbe stata attribuita la svalutazione della
lira?», annota. «Un inferno dentro di me», e intorno «tanti
opportunismi». «Miseria di Amato», «miseria di Del Turco»,
«miseria degli altri sindacati», «miseria delle reazioni
elettoralistiche di gran parte del Pds».
Il pubblico e il privato
Pubblico e privato Senso
di solitudine, incomprensione, sofferta alterità ma anche gioia di
vivere, voglia di scrivere, di leggere, di andare in montagna: questi
sentimenti permeano le cinquecento pagine dei diari, dal 1988 al
1994, che l’Ediesse sta mandando in libreria. Riflessioni culturali
e politiche si alternano ai giudizi sulle persone e alle notazioni di
vita quotidiana, la coltivazione di fiori ad Amelia, le suggestioni
alpine a San Candido, le passeggiate, le scalate, i tanti, tantissimi
libri, i viaggi, l’amore per Marcelle Padovani, chiamata
affettuosamente Marie. È lei a spiegare che la decisione di
pubblicare i diari non è stata facile, «testi nudi e crudi, molto
passionali ed unilaterali» ma che servono a «far capire meglio la
figura, la personalità e l’importanza di Trentin».
Iginio Ariemma, che da
tempo svolge un intenso lavoro di scoperta e divulgazione di testi
che riguardano l’ex segretario della Cgil, ha curato questa
sorprendente pubblicazione. Sette anni che sconvolsero l’Italia e
il mondo (la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dei regimi
comunisti, il cambio di nome del Pci, Tangentopoli, i bagliori di
guerra in Kuwait e Iraq, la caduta di Craxi, l’ascesa di
Berlusconi) visti con occhi attenti, impietosi e anche profetici.
Nato in Francia nel 1926, figlio di Silvio, professore universitario
che aveva scelto di andare in esilio per non sottostare al fascismo,
uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, Bruno fu subito ribelle.
Il padre organizzava la resistenza ma avrebbe voluto che il figlio
continuasse gli studi. Lui s’incise sulla coscia destra una croce
di Lorena come omaggio al generale De Gaulle e a France Libre, formò
una piccola banda e fu arrestato dalla polizia francese passando in
guardina il sedicesimo compleanno così come il diciassettesimo lo
trascorse in una cella italiana, dopo il ritorno in Patria con la
famiglia nel ’43.
La guerra partigiana, il
Partito d’Azione, la laurea, l’ufficio studi della Cgil chiamato
da Vittorio Foa, nel ’50 l’iscrizione al Pci, i metalmeccanici,
l’autunno caldo, i vertici della confederazione. E poi segretario
generale, dall’88 al ’94, appunto. Eccolo Bruno Trentin,
crogiuolo d’idee, di rigore, di sensibilità e di esperienze, un
eretico della sinistra, un libertario in mezzo a una folla di
«ometti». È indicativa una frase su Robespierre: «Lo sento
lontano culturalmente e anche psicologicamente e nello stesso tempo
vicino umanamente quando lo riscopro così solo, così tormentato,
così coerente (e incerto) nella sua ansia di vivere in accordo con
la sua morale e le sue speranze». E Trentin, con una ghigliottina
etica, politica e umana taglia tante teste. Giudizi sprezzanti,
definizioni impietose, conclamata estraneità.
La lista nera
Un elenco che farà
sobbalzare. Guido Carli, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Giuliano
Amato, Paolo Cirino Pomicino, Napoleone Colajanni, Gianni De
Michelis, Lucio Colletti, i dirigenti della Confindustria, Pierre
Carniti, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Giuliano Cazzola.
Disprezzo per gli «intellettuali a pagamento» e «i vecchi saccenti
senza vergogna e senza il minimo residuo di morale politica ed
intellettuale». A proposito della Cgil: «Guerra per bande», «basse
manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo congresso», «tragico
tramonto», «metastasi inestricabile», «miserabile scenario».
Quando nell’88 parte la contestazione ad Antonio Pizzinato,
evidenzia «un attacco torbido e cinico» ma rimarca «una reazione
debole, patetica e astiosa» da parte dell’allora segretario.
Il desiderio di scappare
La voglia di fuga: «Ho
maturato la mia intenzione di lasciare, non posso assistere a questo
scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella». Ma poi
è lui a essere designato e «comincia la nuova storia della mia
piccola vita». Si sente circondato: «tristi figuri», «satrapi»,
«ceto burocratico di intermediazione», «avventurieri da
strapazzo». Riaffiora, carsica, «la voglia tremenda di mollare
tutto» e il desiderio di gridare: «Non sono uno di questi». Nel
partito vede «anime morte che si incrociano senza comunicare». La
decisione annunciata da Occhetto di cambiare il nome del Pci è
ammantata di «improvvisazione e povertà culturale». Alle critiche,
«il segretario reagisce con la ciclotimia di sempre alternando
depressione e psicosi del tradimento con minacce e tentativi di
prepotenza». Più avanti gli attribuirà «un affanno camaleontico».
Il ricambio non gradito
D’Alema «appare più
lucido ed equilibrato di altri» ma «i progetti non lo interessano
se non sono la giustificazione di un agire politico», «ricorda in
caricatura il personaggio di Elikon nel Caligola di Camus». Nel ’94,
senza accennare al duello tra lo stesso D’Alema e Walter Veltroni,
guarda con tormentato distacco «alla penosa vicenda e al modo
isterico, personalistico e selvaggio con il quale si è svolto il
ricambio nella segreteria, con il patetico ma irresponsabile
comportamento di Occhetto».
I rapporti con le
sinistre
E l’altra sinistra?
«Un’armata Brancaleone piena di cinismo e di vittimismo». A
Bertinotti affibbia prima «un movimentismo senza obiettivi,
disperatamente parolaio», poi «una meschina ambizione di
protagonismo a qualsiasi costo», disceso nel «suo personale inferno
di degradazione morale», «triste guitto», «ospite giulivo del
Maurizio Costanzo show». A proposito di Rossana Rossanda annota «una
risposta delirante e ignorante» e «penosi balbettii indignati».
Parole di fuoco contro «i giovani rottami» del manifesto,
«estremisti estetizzanti». A tutto questo variegato mondo «tra
delirio estremista, gioco mondano e la lirica dannunziana» muove
l’accusa di «disonestà intellettuale» e di «narcisismo laido e
egocentrismo scatenato».
L’incomprensione
personale
Doloroso il rapporto con
Pietro Ingrao, con «la retorica della pace e del catastrofismo
cosmico», con «il suo rifugio in una sorta di profetismo
didascalico che lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il
presente». Un’incomprensione che lo farà piangere. Nausea e
disperazione. Denuncia «il machiavellismo volgare», «le ideologie
rinsecchite» che diventano «gli orpelli delle più spregiudicate
avventure personali e delle più invereconde forme di lotta
politica», «le idee come grimaldelli» per la conquista del potere,
«schieramenti senza programma». Malinconia, senso di stanchezza e
di precarietà: «È come se gridassi e non uscisse un suono». Ma
anche amicizie, affinità elettive e parole di elogio per figure, ad
esempio, come Ciampi e Baffi, o per il sindacalista Eraldo Crea.
La socializzazione dei
saperi
E nel tormento
dell’incomunicabilità e della diversità, a prevalere è il
desiderio di elaborare un progetto, di indicare una via d’uscita.
Superare il determinismo marxista e ripartire dalla rivoluzione
francese «che non è ancora conclusa», dalla battaglia per i
diritti, dalla società civile, da forme di autogoverno, dalla
dignità e creatività del lavoro. Rifiuto di ogni statolatria e di
soluzioni calate dall’alto, comprese tutte le strategie
redistributive della sinistra che non vanno al nocciolo del problema
e diventano l’alibi per governare. Contro la civiltà manageriale
bisogna battersi per la socializzazione dei saperi e dei poteri.
L’utopia del quotidiano
«Trasformare, qui ed
ora, questo mondo nel quale viviamo e combattiamo». L’utopia del
quotidiano, la chiama. La matrice è quella azionista ma la dicotomia
tra giustizia e libertà, l’ircocervo di Benedetto Croce, Trentin
la scioglie senza esitazione: la libertà viene prima. Nei diari c’è
in incubazione «La città del lavoro». È morto il 23 agosto 2007.
I conti con la sua eredità intellettuale sono ancora tutti da fare.
Il Corriere della sera –
8 giugno 2017
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