L'Iliade. Il rumore della guerra nei versi di Omero (Jolanda Insana)
Tra i ritagli ritrovati
prezioso mi pare questo saggio sull'Iliade di Jolanda Insana,
scritto in occasione di una nuova traduzione. La poetessa e
scrittrice messinese da poco scomparsa non ha ancora trovato un posto
di primo piano nelle storie letterarie. Lo merita anche per il grande
acume con cui legge i classici, premessa indispensabile di una
scrittura che non di rado affonda nella realtà la lama della parola
con un vigore paragonabile alla grande poesia antica. (S.L.L.)
Jolanda Insana |
Allo stesso modo che su
un atto di tradimento, vendetta e lite ha la sua fondazione una città
o civiltà o religione (da Caino e Abele, a Romolo e Remo, Giuda e
Cristo), così la letteratura greca ha fondamento e principio a
partire da un gesto di prevaricazione: l’offesa di Agamennone che
sottrae ad Achille la bella Briseide. L'Iliade, infatti, si
apre sul conflitto tra i due eroi dentro il più vasto conflitto di
popoli, ed è il racconto di una guerra dentro il racconto della
guerra di Troia al suo decimo anno. E non solo. È anche
moltiplicazione della contesa: contesa tra uomini, contesa tra uomini
e dei, contesa tra dei, contesa intorno al corpo di Patroclo, contesa
intorno al corpo di Ettore: éris e néikos, contesa e
discordia, sono le parole più ricorrenti, per quanto siano
controbilanciate da parole di philòtes, di amore. È
discordia di affetti e di linguaggio, ferinità di parole: «divorare
il fegato a morsi» - dice Ecuba imprecando contro Achille, «fare a
pezzi e divorare la carne cruda» (di Ettore) dice Achille.
Scrittura e male
Sempre oltraggio e
dolore. Priamo denuncia così la sua più grande sventura: «ho osato
portare alle labbra le mani dell’uomo che ha ucciso mio figlio». E
se da una parte domina l’opposizione tra lyssa e sophrosyne,
furia e controllo di sé, rabbia e padronanza, dall’altra si
impone l’affermazione dei valori di forza e bellezza che fanno la
grandezza morale dell’eroe: il nesso tra bellezza e valore morale -
che include anche la Philophrosyne. la disponibilità ad amare - è
così radicato nel pensiero greco che passerà anche nella lirica
(«chi è bello/ è bello a vedersi/ ma chi vale / di colpo è anche
bello» si legge in un frammento di Saffo).
Ma perché la letteratura
greca comincia con la guerra e il mondo greco si riconosce in questo
epos in funzione di memoria collettiva? Si tratta di un movimento
mimetico della scrittura verso la realtà e la storia, anche se
l’Iliade non è un diario di guerra e neppure un’invenzione
fantastica sciolta da ogni legame di storicità? Può essere, e
allora ci si domanda se è perché la discordia (al contrario di
quanto credeva Empedocle) funziona come elemento combinatorio e
generatore che muove il mondo e rinsalda le relazioni in modo che sul
caos si ricomponga l’ordine e dalla perdita nasca il desiderio, o
nostalgia delle cose perdute - onore e affetti, città e oggetti
materiali; o invece la parola muove dall’offesa, dalla rissa,
perché scrittura e male si stringono inesorabilmente, generando poi
dal suo corpo originario altri corpi letterari, altri generi, altri
versi? Ma allora davvero la pace sarebbe non-evento, tempo di stasi
contrario alla scrittura che stasi non è ma conflittuale energia che
si dispiega per maschere armamentari e sonnacchiamenti?
Traduttori a
orecchio
Fra quattro anni cade il
bicentenario della Morte di Ettore, il rifacimento in versi
che Melchiorre Cesarotti in chiave piuttosto patetica trasse dalla
sua precedente traduzione in prosa dell’Iliade. In quegli
stessi anni il giovane Foscolo comincia i suoi «Esperimenti di
traduzione dell’Iliade» e nel 1803 pubblica i primi
frammenti. Le vicende di Foscolo traduttore formano un capitolo a
parte, una particolare appendice alla sua attività letteraria non
soltanto per le curiosità linguistiche e le sfide stilistiche
suscitate, come succede alla maggioranza dei poeti traduttori. E del
resto Foscolo è letto come poeta e sperimentatore in proprio, e non
come traduttore che affida il suo nome al nome di un altro, la sua
voce a un’altra voce.
Diversa la sua posizione
rispetto al Monti, il «traduttore dei traduttori». Tradurre è per
lui un appassionato e disperante esercizio (fondamentale peraltro
alla costruzione del suo proprio linguaggio, dai sonetti alle
Grazie), ma è anche tensione interpretativa delle umane
vicende, del mito che dà senso al mondo ricucendo le lacerazioni
drammatiche. In grado di sentire la sostanza fonica e di percepire
ogni possibile estensione semantica o espansione temporale del greco,
Foscolo è spinto a rendere «le minime idee concomitanti d’ogni
parola che solo danno tinta e movimento al significato primitivo».
Ma è un impegno che non favorisce un lavoro sistematico, la
traduzione di un’opera intera, per impossibilità di tempo, di
energie.
Di lì a poco, nel 1810,
esce la traduzione di tutti i 24 canti dell’Iliade a opera
del Monti, dopo quattro anni di lavoro. Paradossalmente la fortuna di
Monti si deve all’ignoranza del greco (la sua conoscenza è
insufficiente alla comprensione di passi e passaggi), sicché aggira
e raggira il problema di trasportare le parole da una lingua
all’altra, ricorrendo alle traduzioni di Cesarotti e ad altre in
latino. Interessato più al quadro che al dettaglio, al racconto più
che alla parola, e utilizzando come calco ritmico-tonale l’Eneide
di Annibai Caro (ma anche alte movenze bibliche), scrive la partitura
di una musica pittoresca, fascino di risonanti emozioni; e poeta più
dell’orecchio che del cuore (secondo la definizione leopardiana)
mette a frutto le sue capacità e senza sforzo riesco a coniugare
epos e pathos: non deve inventare, la materia è bell’e
pronta, fissata per sempre. Dimostrando, indirettamente, che la
letteratura gira su se stessa in un vortice auto-proliferante, che le
parole figliano parole e da sorelline minori nascono sorelline
maggiori o viceversa, ma creando così uno iato profondo tra
l’originale e la copia, sicché l’Iliade che un tempo si
leggeva a scuola non era tanto Omero quanto Monti. Purtroppo oggi non
si legge quasi più, nonostante l’accessibilità delle traduzioni
novecentesche di Romagnoli, Calzecchi Onesti, Vitali o Tonna. Fino
all’ultima di Maria Grazia Ciani (marsilio, 1990), con un commento
straordinario e un ricco apparato bibliografico diviso per temi, a
cura di Elisa Avezzù.
Sono, e sono state,
traduzioni tutte necessarie. Infatti, mentre l’originale non
invecchia ma resiste e vive nella sua lingua e nello svolgimento
della sua storia, la traduzione (o parafrasi, volgarizzamento,
rifacimento o adattamento) è sempre effimera, epocale o stagionale,
nel rispecchiamento di lessico e umore delle varie temperie
culturali, - e dunque destinata a deperimento, a insostenibile
leggibilità.
Perciò questa nuova
traduzione è opportuna e necessaria, ma anche diversa da tutte le
altre: perché se l’Iliade greca è una e unica, sempre uguale a se
stessa (indipendentemente dal problema della trasmissione per
possibili interpolazioni e aggiunte successive, fino alla vulgata
pisistratea), le traduzioni invece sono costituzionalmente tutte
diverse tra loro per la molteplice alterità di autori e tempi,
lingua e stile. Maria Grazia Ciani ha fatto una traduzione in prosa,
piana e scorrevole, che poggia però su un sottofondo metrico, su
un’eco di ritmo non immediatamente percepibile come se per rischio
di cantabilità fosse frenato o camuffato; ma in una lettura
scandita, dentro la riga continua si avvertono numerosi i blocchi
sonori endecasillabici (che è il movimento tipico dell’italiano),
oltre a certe lontanissime risonanze da cantare popolare.
Risvolti buffi
nella tragedia
Per assecondare questo
ritmo nascosto come corrente dentro un fiume, la traduttrice crea
minimi e significativi spostamenti, senza nulla sacrificare né
oltraggiare, sempre inseguendo nella nostra lingua la pregnanza del
nesso originale. La lingua assolutamente priva di enfasi si adagia in
pienezza di senso e di suono, senza falsi accorciamenti, senza
superflue aggiunte, e soprattutto non tende mai a spiegare:
semplicemente racconta, dice, ricreando fin dove è possibile il giro
della frase, paratattico più che ipotattico, e restituendo sapore
arcaico alla leggenda di un mondo arcaico.
Leggendo l’Iliade
come un antico copione di guerra, capita di scordare l’orrore dei
«mucchi di morti» o il clamore delle armi, e di provare invece un
senso di liberazione fino alla risata, davanti alla rappresentazione,
a tratti comica, della guerra guerreggiata. Pare proprio un gran
copione, non privo di risvolti buffi nel crescendo di trucchi beffe e
travestimenti, come se un intento caustico e corrosivo della forza e
del coraggio stravolgesse il pianto in riso, la tragedia in commedia,
uomini e dei in pupi o manichini a molla. A partire dalla
considerazione che i mortali «simili a foglie, ora rigogliosi
fioriscono e dei frutti della terra si nutrono, ora appassiscono e
muoiono», è un continuo balletto, un accelerato movimento teatrale
al limite della spettacolarità, con suoni e luci, masse e comparse,
primi attori e prime donne, eroi e deboli combattenti male armati, da
tutti maltrattati, anche dagli dei.
Nel palcoscenico chiuso
tra i fiumi Scamandro e Simoenta, la città con le mura (palco degli
spettatori troiani e di Elena che indica per nome gli attori in
campo) e la barriera delle navi - scenario archetipo di tutte le
guerre! -, si succedono quadri e scene con fondali di finta nebbia,
piogge di sangue, tempeste di polvere, ventri squarciati e ventraglie
rovesciate a terra, teste tagliate insieme con l’elmo, parusìe
divine e disvelamenti, cavalli che piangono «brucianti lacrime» o
predicono la sorte, la morte. E non manca né il lancio di frecce e
sassi, né il rancio dei soldati, né il sadismo coniugale di Zeus
che minacciando Era di frustate aggiunge: «Non ricordi quando ti
sospesi in alto, con due incudini ai piedi e intorno ai polsi una
catena d’oro, indistruttibile, e tu pendevi in aria, tra le nuvole;
erano sdegnati gli dei del vasto Olimpo, ma non potevano venirti
vicino e liberarti; se ne coglievo uno, lo scagliavo oltre la soglia
finché toccava il suolo senza respiro».
Tra inseguiti e
inseguitori c’è chi corre ad attaccare e chi corre a salvare, ma
«è difficile salvare tutti gli eroi»; e ci sono eroi ingigantiti e
fiumi incendiati; e vola il bellissimo carro con cui Era e Atena,
sfrenate guerriere, atterrano sul campo di battaglia. Feriti dai
mortali negli scontri cruenti, gli dei tornano a casa a farsi
consolare e medicare: in rapida successione Diomede ferisce Afrodite
al braccio, sul polso, si volge contro Apollo ma atterrito dal dio si
ritira e invece ferisce al ventre addirittura Ares, il dio della
guerra. Come i mortali anche gli dei ricorrono agli infami colpi
bassi: Apollo colpisce alle spalle Patroclo così che agevolmente
Ettore può trafiggerlo con la sua lancia. E poi c’è lo Scamandro
«pieno di morti» che non può riversare nel mare divino le sue
acque bellissime, e prende umane sembianze e parla e impreca, e
rovescia cadaveri sulla riva, e corre e insegue Achille, finché non
è divorato dal fuoco. E succede che sul più grande scompiglio la
tenebra cali come un sipario per il sabotaggio di Era che accorcia la
giornata affrettando il corso del sole.
Generali
sull’Olimpo
Il comando militare,
insediato sull’Olimpo, è saldo in mano a Zeus che decide il quando
e il come di manovre e interventi, duelli e anonimi combattimenti. La
vita dei mortali però non è in mano sua. Tutto è predeterminato, a
ognuno tocca la sua parte, il suo pezzo di sorte, la moira, e
nascere significa andare incontro alla propria sorte per darle
compimento, mentre morire significa «lasciare la luce del sole»,
non potere più né vedere né essere visti: vista e vita si
equivalgono, così come vedere coincide etimologicamente con sapere
(oida «so» ha la radice id di horao «vedo»). La
luce è anche luce metafisica, luce della ragione. Così prega Aiace:
«Padre Zeus, libera da questa nebbia i figli degli Achei, fa chiaro,
fa che i nostri occhi vedano; e poi, se così ti piace, facci morire,
sì, ma nella luce»; nell’Aiace di Sofocle risulta
chiaramente come la tenebra, l’omerica «notte cupa che scende
sugli occhi», non sia soltanto morte ma follia, perdita della luce
della ragione. E come non ricordare che anche Zeus-Diòs ha nome
nella luce, il dies latino?
Dunque, non ci sono paure
irrazionali, gli dei non hanno spaventosa forma animale. Sono come
gli uomini ma un po’ più grandi, e come gli uomini patiscono e
piangono, sono gelosi bizzosi e litigiosi: mediatore Efesto, litigano
Era e Zeus, come in terra litigano Agamennone e Achille, mediatore
Nestore. Zeus, padrone e signore come un Basilèus miceneo, ha
le sue umane debolezze di cui approfitta Era tramando inganni; e
quando senza spiegazioni vieta la partecipazione degli dei alle
azioni militari, Era si fa prestare da Afrodite la magica cintura
«ricamata e variopinta dov’erano racchiusi tutti gli incanti,
amore, desiderio, dolci parole e la seduzione che rapisce la mente
dell’uomo più saggio»; lo raggiunge «sulla vetta più alta
dell’Ida» da dove spia e controlla il movimento di truppe e mezzi;
lo seduce e lo addormenta con l’aiuto di Hypnos, il Sonno,
presentato come fratello di Thànatos, la Morte. Così, con subdola
arte femminile, Era mette momentaneamente fuori del gioco della
guerra, della polemoscopia, il dispotico comandante supremo, e torna
ad aiutare gli Achei incalzati dai Troiani.
Più tardi però «ride
di gioia il cuore di Zeus quando vede entrare in conflitto gli dei»:
è lui che ha tolto il divieto e scatena dèi contro dèi nella
violenta battaglia del canto 21, dove insulti e colpi vanno in
accelerata: «Cagna sfrontata, perché semini discordia?» urla Ares
ad Atena, colpendo con la sua lunga lancia «l’egida a frange»
della dea che non ha paura e afferrato un macigno colpisce al collo
il dio «mai sazio di guerra» e l’atterra, ma arriva Afrodite e lo
prende per mano e lo rincuora e lo porta via; Atena implacata li
insegue, «con la forte mano colpì la dea al petto», e i due
finiscono a terra; mentre in un altro punto del campo Era aggrediva
Artemide e le strappava l’arco dalle spalle, e «con questo,
ridendo, la colpiva sulle orecchie»; in lacrime fugge la «leonessa
dei monti», corre da Zeus, sulle ginocchia del padre siede piangendo
(e le trema il peplo divino) e fa la sua denuncia: «La tua sposa,
padre, mi ha maltrattata, Era dalle candide braccia, che fra gli dei
porta discordia e contesa». Dunque, éris e néikos,
discordia e contesa, sono in cielo e in terra.
Lo spazio scenico è
potentemente illuminato dalle armi che riflettono la luce del sole e
dell’eroe sempre riconoscibile nella sua tipologia e nei topos
linguistici, nelle formule ricorrenti per lo più nella stessa sede
dell’esametro. Simile a un lampo è la lunga spada impugnata da
Poseidone; mandano bagliori i mozzi d’argento e il giogo d’oro
del carro divino; «splendido come il sole» è Achille in armi;
«splendente» è la fiamma che invade il fiume e la riva, e bruciano
le acque belle, bruciano gli olmi, i salici e i tamerischi, e
soffrono anguille e pesci che nei gorghi guizzano stremati dal soffio
del fuoco. «Fuoco arde sulla testa di Achille», fiamme sprigiona il
suo corpo, quando compare sul fossato e atterrisce i Troiani tanto
che lasciano la presa del corpo di Patroclo morto. L’apparenza vale
essenza, l’eroe morto non va oltraggiato, anzi rimarginando le
ferite uomini e dei ne preservano la bellezza; non si indossano
impunemente le armi di un altro perché è come appropriarsi della
sua identità, ma Ettore lo fa con le armi di Achille, segnando così
la propria sorte.
Leggende di guerra
Oltre alla luce dominano
i suoni: il rimbombo della terra, lo zoccolìo dei cavalli, lo
scalpiccìo dei piedi, il sibilo, delle frecce, il frastuono del
fiume irato o del vasto Ellesponto che si solleva verso le tende e le
navi, l’urlo di uomini e dei, e più potente di tutti è l’urlo
di Achille replicato da Atena: nell’urlo prende forma e corpo il
dolore, nel dolore-àchos ha il suo nome l’eroe, nel dolore
riconosce la guerra; e il dolore per la morte di Patroclo lo trascina
sulla scena.
Nel silenzio campale lo
spettatore assiste all'ultima scena su cui cala il sipario: la grande
riconciliazione tra Priamo e Achille che, congiunti nel pianto nel
ricordo e nel dolore, «a lungo si contemplano», contemplando l’uno
nell’altro l’umana fragilità, e chiudono nell'animo l'angoscia,
e scelgono la vita con le sue ragioni e i suoi riti, e dopo tanto
digiuno mangiano e bevono. Per Achille che finalmente dorme con
Briséide si compiono le parole di Teti: «E’ bello unirsi a una
donna, in amore».
Al lettore, risucchiato
nei gorghi dell'immaginario collettivo e sollevato da qualche risata,
non resta che sciogliere le tensioni, liberandosi da aggressività
ossessioni e fobie. E si svuota secondo quella nozione di catarsi
genialmente introdotta da Aristotele, che figlio di un medico,
conosceva bene le parole di uso terapeutico, e usa catarsi nel senso
proprio di purgarsi: metaforicamente lo spettatore si libera del peso
del ventre. E ci si domanda se è la stessa la catarsi del
telespettatore che in questi giorni orrendi segue la guerra sul
video, passando da un canale all’altro. Ma la guerra è altra cosa
dalla leggenda di guerra, altra cosa i traccianti luminosi sul video
dalla vertigine di chi li ha sulla testa.
L’effetto
liberatorio
L’effetto liberatorio
dell'Iliade che in ampi giri leggendari è affidato a tecniche
di spiazzamento interruzione e spostamento, non appare casuale ma
controllatissimo per rimandi e corrispondenze puntuali, a conferma
che a tracciare il percorso c’è la regia di un solo autore - si
chiami o non si chiami Omero. Il quale ama il gioco di specchi, di
leggende dentro leggende, di guerre dentro altre guerre, fino a una
precedente guerra contro Troia a opera di Eracle che «con sei sole
navi e un pugno di uomini, davastò la città di Ilio, ne fece
deserte le strade», per l'offesa di Laomedonte che gli aveva negato
i cavalli, - il compenso pattuito per liberare la città da un
terribile mostro marino.
"il manifesto - la talpa libri", 8 febbraio 1991
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