Riprendo da http://www.leparoleelecose.it alcune pagine tratte dal primo capitolo del libro Il senso del segreto. Benjamin, Bataille, Blanchot, Deleuze e Derrida sulle tracce di Proust, uscito alcuni mesi fa per la casa editrice Mimesis:
Infanzia e redenzione. Benjamin e Proust
di Daniele Garritano
Nel 1929, a soli due anni dalla pubblicazione dell’ultimo tomo della Recherche,
Walter Benjamin si pone una serie di domande filosofiche intorno allo
smisurato romanzo proustiano. Si tratta di un confronto filosofico senza
precedenti, se consideriamo che sul finire degli anni venti la fortuna
del romanzo è ancora molto lontana, soprattutto in campo filosofico.
Proprio in questo periodo, e per più di dieci anni – gli “anni
parigini”, anche gli ultimi della sua vita – Benjamin rivolgerà alla Recherche
un’attenzione costante, testimoniata dalla frequenza con cui il nome
Proust compare negli appunti del grande libro incompiuto del filosofo
berlinese, I «Passages» di Parigi[1].
Il confronto di Benjamin con il romanzo proustiano è segnato da una profonda affinità che riguarda in particolare la questione del tempo e della sua istantanea reversibilità. Nel saggio del 1939 “Di alcuni motivi in Baudelaire”[2] – il cui perno centrale è la questione dell’esperienza estetica nelle condizioni sociali e storico-economiche del XIX secolo – Benjamin riprende i punti salienti di una teoria dell’esperienza basata sulla «memoria involontaria». Secondo il filosofo berlinese, alle condizioni dell’epoca, non poteva esservi più esperienza se non della perdita dell’esperienza stessa. La sua opposizione tra Erlebnis ed Erfahrung si gioca esattamente su questo punto: l’esperienza senza la quale l’arte non potrebbe esistere è sul punto di perdersi, di svanire senza lasciare tracce sulla coscienza soggettiva. Tale esperienza è denominata Erfahrung. La «memoria involontaria» fa parte di questa galassia, dal momento che il suo rapporto con la perdita – nello specifico, con l’oblio – è la sua stessa condizione di possibilità. L’Erlebnis, al contrario, è l’«esperienza vissuta» che la coscienza registra e può richiamare a sé in qualsiasi momento. Essa è l’espressione di un rapporto con il tempo senza punti di rottura, che potremmo simbolizzare come una freccia che si muove a velocità costante verso il futuro[3].
La pista benjaminiana in cui s’inserisce la questione del segreto è chiaramente quella dell’Erfahrung. In particolare, al centro di questa dimensione, in cui la memoria è inseparabile dall’oblio, troviamo la questione dell’infanzia. […] Per l’adulto è come se il bambino non avesse la percezione del tempo o, in altre parole, vivesse fuori dal tempo. Ma Proust fu un adulto del tutto particolare, poiché capace di ribaltare la prospettiva ordinaria della relazione al tempo, riconoscendo all’infanzia un primato esperienziale sull’età adulta: «non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto»[4].
Il confronto di Benjamin con il romanzo proustiano è segnato da una profonda affinità che riguarda in particolare la questione del tempo e della sua istantanea reversibilità. Nel saggio del 1939 “Di alcuni motivi in Baudelaire”[2] – il cui perno centrale è la questione dell’esperienza estetica nelle condizioni sociali e storico-economiche del XIX secolo – Benjamin riprende i punti salienti di una teoria dell’esperienza basata sulla «memoria involontaria». Secondo il filosofo berlinese, alle condizioni dell’epoca, non poteva esservi più esperienza se non della perdita dell’esperienza stessa. La sua opposizione tra Erlebnis ed Erfahrung si gioca esattamente su questo punto: l’esperienza senza la quale l’arte non potrebbe esistere è sul punto di perdersi, di svanire senza lasciare tracce sulla coscienza soggettiva. Tale esperienza è denominata Erfahrung. La «memoria involontaria» fa parte di questa galassia, dal momento che il suo rapporto con la perdita – nello specifico, con l’oblio – è la sua stessa condizione di possibilità. L’Erlebnis, al contrario, è l’«esperienza vissuta» che la coscienza registra e può richiamare a sé in qualsiasi momento. Essa è l’espressione di un rapporto con il tempo senza punti di rottura, che potremmo simbolizzare come una freccia che si muove a velocità costante verso il futuro[3].
La pista benjaminiana in cui s’inserisce la questione del segreto è chiaramente quella dell’Erfahrung. In particolare, al centro di questa dimensione, in cui la memoria è inseparabile dall’oblio, troviamo la questione dell’infanzia. […] Per l’adulto è come se il bambino non avesse la percezione del tempo o, in altre parole, vivesse fuori dal tempo. Ma Proust fu un adulto del tutto particolare, poiché capace di ribaltare la prospettiva ordinaria della relazione al tempo, riconoscendo all’infanzia un primato esperienziale sull’età adulta: «non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto»[4].
Benjamin riconosce immediatamente il
carattere radicale dell’intuizione proustiana sull’infanzia, che sarà
sviluppata a pieno regime nella Recherche: «Proust ha
affrontato l’impresa con grandiosa coerenza. Egli si è imbattuto così,
fin dall’inizio, nel compito elementare di riferire della propria
infanzia; e ne ha misurato tutta la difficoltà nell’atto di presentare
come effetto del caso se la sua soluzione sia anche solo possibile»[1]. Ora, se il compito del narratore della Recherche
è elementare, ma al tempo stesso ed esposto al rischio di fallire,
occorre compiere uno sforzo di precisione e tentare di definire cosa
significhi «riferire della propria infanzia».
«Riferire» o «rendere conto» della
propria infanzia significa ricucire una distanza che si presenta come
incolmabile per l’adulto. Non si tratta soltanto di riconoscere
l’infanzia, di richiamarla alla memoria. L’operazione
rivoluzionaria della prosa proustiana è identificata con un tentativo di
dare ragione dell’infanzia, senza forzarla sugli schemi della
razionalità adulta. Non è un compito da poco e lo stesso Benjamin vi
ritorna a più riprese anche nel fascicolo K del libro sui «Passages»[2].
È il segreto dell’infanzia ad attirare Proust, come una lampadina
accesa farebbe con una falena. Rendere conto dell’infanzia significa
allora, essenzialmente, misurare la distanza che separa l’adulto dal
bambino che è stato e che adesso non è più. Come si può già immaginare,
non esistono strumenti prefabbricati per portare a termine questo
compito. Benjamin, in altre parole, riconosce a Proust il merito di aver
inventato degli strumenti capaci di misurarsi con questa sfida, che
consiste nel riportare alla luce «il passato nascosto fuori dal dominio
dell’intelligenza […] in qualche oggetto materiale che non sospettiamo»[3].
Come Combray per Proust, l’infanzia è
per Walter Benjamin una combinazione inestricabile di tempo e di spazi.
Si potrebbe abbozzare una definizione transitoria dell’infanzia come
luogo in cui l’adulto sente di essere stato, ma a cui non sa tornare,
perché ha dimenticato la strada.
“Quel bambino sarei io?”: la domanda
risuona nella mente dell’adulto, senza essere pronunciata apertamente,
poiché nel ricordo nulla prova che si tratti di un passato
effettivamente vissuto e non, per esempio, del materiale di un antico
sogno. Il confine mobile fra realtà ed elaborazione onirica è, nel
linguaggio di Benjamin, un segnale che qualcosa si sta muovendo al
livello dell’Erfahrung. Nonostante l’inquietante familiarità
che ha con essa, l’adulto quasi mai riesce a tracciare una mappa della
propria infanzia: l’incapacità di orientarsi seguendo le coordinate
dell’età adulta è la causa fondamentale dello spaesamento. Il segreto
dell’infanzia sfugge al ricordo cosciente poiché la sua immagine è stata
«sviluppata nella camera oscura dell’attimo vissuto»[4]. La stessa opposizione fra Erfahrung ed Erlebnis – esperienza
accumulata ed esperienza vissuta – si innesta proprio sulla questione
dello «sviluppo» dell’esperienza. Il vissuto che è stato sottoposto al
vaglio della coscienza è riproducibile in qualsiasi momento. Dell’altra
esperienza, invece, restano soltanto dei negativi accumulati in un
cassetto, di cui molto spesso il soggetto ha perso la chiave. L’Erfahrung si accumula, in definitiva, all’insaputa del soggetto stesso.
In questo senso, l’infanzia è la
situazione ideale per scrutare le pieghe di una relazione al tempo che
non contempla la successione cronologica tipica dell’età adulta. Il
tempo dell’infanzia è infatti scandito dal ritmo vivente delle scoperte e
delle cose nascoste[5].
Non è casuale che Benjamin, in una lettera inviata nel maggio 1940 a
Theodor Adorno, scriva queste parole: «perché dovrei naconderLe che
trovo la radice della mia “teoria dell’esperienza” in un ricordo della
mia infanzia?»[6].
Questa radice si trova precisamente nella relazione del bambino allo
spazio-tempo – relazione in cui la configurazione del segreto emerge in
modo evidente. Come il giovane protagonista della Recherche,
ogni bambino è affascinato dai contenitori, dalle scatole, dai
nascondigli: basterebbe rileggere le pagine proustiane sui pomeriggi di
lettura per ricostruire un paesaggio d’infanzia in cui l’alternanza tra
il chiuso e l’aperto definisce lo spazio di un segreto che riguarda il
tempo e che racchiude un mondo[7].
Questo mondo resterebbe sconosciuto all’adulto se egli non trovasse,
per caso, la chiave capace di schiudere il segreto e riportare in vita
una scintilla dell’antica relazione al tempo. Il più grande merito della
Recherche consiste, in effetti, nel mostrare come siano
soprattutto le circostanze casuali e quotidiane – in definitiva: non
ricercate – a schiudere per il soggetto adulto quel “tempo prima del
tempo”. I frammenti d’infanzia, residui di una “preistoria” soggettiva,
si conservano meglio nei luoghi in cui meno li si cerca. Luoghi non per
forza periferici né infrequentati. Talvolta, come ci ha insegnato Poe
con La lettera rubata, il luogo migliore per nascondere
qualcosa – al limite per nasconderla a se stessi – è di renderla
invisibile esponendola sotto gli occhi di tutti. Ogni sforzo volontario
per ricostruire questa “preistoria” è costretto a deporre le armi di
fronte all’enigma rappresentato dall’infanzia.
Un’altra breve nota di Benjamin su Proust, pubblicata nel 1930 sulla Literarische Welt,
introduce il tema della lettura nel campo di un’indagine sui «mondi
infantili». Si tratta della presentazione alla traduzione tedesca di Journées de lecture,
il cui carattere profetico non sfuggì al filosofo berlinese. È anche
grazie a questo testo proustiano “minore” che si fissa in Benjamin la
convinzione che la strada tracciata dal narratore della Recherche
conduca il lettore di fronte all’enigma dei ricordi d’infanzia. Fra i
motivi essenziali per il romanzo a venire, Benjamin si riferisce
espressamente a tre singoli punti:
1.La ricerca dell’essere dell’infanzia in tutti i meandri della sua dissimulazione;
2. La convinzione che l’amicizia non ha alcun valore;
3. La mistica della solitudine.
1.La ricerca dell’essere dell’infanzia in tutti i meandri della sua dissimulazione;
2. La convinzione che l’amicizia non ha alcun valore;
3. La mistica della solitudine.
È sul primo punto che occorre
soffermarsi, dal momento che la connessione infanzia-lettura si presenta
per Proust già dal 1905 come un nodo fondamentale dell’elaborazione di
una filosofia del tempo. Nella sua formulazione schematica del primo
punto, il filosofo dei Passages mostra un lato fondamentale della sua affinità elettiva
con Proust: la «dissimulazione» dell’infanzia «in tutti i meandri»
dell’esperienza. L’esperienza d’infanzia, per l’adulto che cerca di
ricordarsene, ha a che fare con una sorta di nascondino.
L’esperienza che Proust analizza nelle pagine del 1905, e che Benjamin
rilegge alla luce del suo interesse per la dimensione dell’infanzia, è
legata al rapporto con i libri. Gli elementi più interessanti, tanto per
Proust quanto per Benjamin, sono i tempi e gli spazi di lettura, cioè i
suoi «meandri». Se si vuole capire qualcosa del mondo dell’infanzia,
più importante dell’oggetto della lettura è ciò che è intorno alla
lettura, la sua cornice.
Se per Proust il nesso infanzia-lettura
rappresenta un pilone ineliminabile per la grande architettura del
romanzo, per Benjamin la configurazione spazio-temporale della lettura è
ancora più cruciale nelle pagine di alcuni scritti che non hanno a che
fare direttamente con l’autore della Recherche. Si tratta di
una costellazione di testi dalle collocazioni molto diverse, ma con un
tratto in comune che li rende attraversabili uno di seguito all’altro.
Il periodo della loro elaborazione è sempre molto vicino a quella fase
della vita in cui Benjamin si dedica lettura e alla traduzione
dell’opera di Proust, la stessa in cui mette a fuoco i lineamenti della
sua filosofia del tempo.
È ipotizzabile l’esistenza di qualche punto di passaggio fra questa serie di scritti sull’infanzia – alcuni dei quali fanno parte della collezione di note raccolte in Infanzia berlinese[1] – e la teoria dell’esperienza che il filosofo berlinese elabora parallelamente alla sua indagine su Proust. Una parte di questi scritti (come “Leggere”, “Letteratura per l’infanzia”, “Libri per ragazzi”, “Ingrandimenti”) affronta direttamente il nesso tra lettura ed infanzia. Altri articoli, forse i più significativi, compongono un mosaico che potremmo definire un’indagine sulle condizioni della lettura nel mondo infantile. Fra questi si può certamente citare “Armadi”, “Lo scrittoio”, “La febbre” e “Logge”.
Per quanto riguarda il primo gruppo, si dovrebbe partire da “Letteratura per l’infanzia”, un intervento che Benjamin preparò nel 1929 per un’emissione radio. «Egregi invisibili!» – con queste parole il filosofo si riferisce certamente al pubblico radiofonico, ma non senza strizzare l’occhio alla dimensione nascosta e segreta dell’infanzia. L’esperienza della lettura per il bambino è radicalmente distante tanto rispetto a quella del soggetto adulto, quanto rispetto a ciò che l’adulto può rappresentarsi come lettura d’infanzia. Benjamin esprime con efficacia quest’idea: «per i bambini i libri, come tutto il resto, rappresentano delle cose ben diverse da quello che appaiono agli adulti»[2]. Il bambino, infatti, non accresce il suo sapere leggendo; piuttosto gioca con un libro che suscita in lui la «pura gioia ludica». Giocando con il libro, il bambino gioca con se stesso: assimila il contenuto del libro non per accrescere il suo sapere, bensì per accrescere se stesso. A partire da questa differenza fondamentale con le pratiche di lettura degli adulti, Benjamin formalizza le due qualità della lettura infantile: la «crescita» e il «potere», opposte alla «formazione» e alla «conoscenza». Il fatto stesso di presentare la teoria della lettura come una teoria alimentare, basata cioè sull’assimilazione, permette al filosofo di precisare quale sia il «potere» infantile della lettura:
È ipotizzabile l’esistenza di qualche punto di passaggio fra questa serie di scritti sull’infanzia – alcuni dei quali fanno parte della collezione di note raccolte in Infanzia berlinese[1] – e la teoria dell’esperienza che il filosofo berlinese elabora parallelamente alla sua indagine su Proust. Una parte di questi scritti (come “Leggere”, “Letteratura per l’infanzia”, “Libri per ragazzi”, “Ingrandimenti”) affronta direttamente il nesso tra lettura ed infanzia. Altri articoli, forse i più significativi, compongono un mosaico che potremmo definire un’indagine sulle condizioni della lettura nel mondo infantile. Fra questi si può certamente citare “Armadi”, “Lo scrittoio”, “La febbre” e “Logge”.
Per quanto riguarda il primo gruppo, si dovrebbe partire da “Letteratura per l’infanzia”, un intervento che Benjamin preparò nel 1929 per un’emissione radio. «Egregi invisibili!» – con queste parole il filosofo si riferisce certamente al pubblico radiofonico, ma non senza strizzare l’occhio alla dimensione nascosta e segreta dell’infanzia. L’esperienza della lettura per il bambino è radicalmente distante tanto rispetto a quella del soggetto adulto, quanto rispetto a ciò che l’adulto può rappresentarsi come lettura d’infanzia. Benjamin esprime con efficacia quest’idea: «per i bambini i libri, come tutto il resto, rappresentano delle cose ben diverse da quello che appaiono agli adulti»[2]. Il bambino, infatti, non accresce il suo sapere leggendo; piuttosto gioca con un libro che suscita in lui la «pura gioia ludica». Giocando con il libro, il bambino gioca con se stesso: assimila il contenuto del libro non per accrescere il suo sapere, bensì per accrescere se stesso. A partire da questa differenza fondamentale con le pratiche di lettura degli adulti, Benjamin formalizza le due qualità della lettura infantile: la «crescita» e il «potere», opposte alla «formazione» e alla «conoscenza». Il fatto stesso di presentare la teoria della lettura come una teoria alimentare, basata cioè sull’assimilazione, permette al filosofo di precisare quale sia il «potere» infantile della lettura:
Leggiamo dunque non
per estendere la nostra esperienza, il nostro patrimonio di memoria e di
dati acquisiti […]. Noi non leggiamo per accrescere le nostre
esperienze, ma per accrescere noi stessi. In particolare i bambini, poi,
leggono non per empatia ma per assimilazione[3].
La particolarità del libro per bambini,
secondo Benjamin, è il suo presentarsi come un gioco, o piuttosto come
un invito a giocare. Il gioco preferito dal bambino che legge è, molto
spesso, il nascondino. Angoli poco illuminati, rifugi separati dal mondo
degli adulti, capanne improvvisate con le coperte: la dimensione del
segreto è al centro dell’«infanzia della lettura»[4].
[…] Per il bambino, non si tratta tanto di apprendere il contenuto del
libro che sta leggendo, bensì di entrare nel libro, di farne un luogo in
cui sia possibile giocare a nascondino. In un passaggio di
“Ingrandimenti”, Benjamin descrive la situazione-tipo del «bambino
nascosto»: «il bambino che sta dietro le tende diviene a sua volta
qualcosa di bianco e svolazzante, un fantasma»[5].
«Potere» e «crescita» significano essenzialmente la capacità del
bambino di trasformare se stesso e l’ambiente circostante […]. La
lettura allena così una capacità già presente nel mondo dell’infanzia:
uscire fuori di sé, sperimentare il piacere di trovarsi in mondi
sconosciuti, prendere parte alla vita misteriosa che anima questi
luoghi.
Il tema della lettura come viaggio iniziatico è anche al centro del brevissimo “Libri per ragazzi”, una tessera del mosaico di Infanzia berlinese:
Il libro giaceva
aperto sopra un tavolo troppo alto. Per leggere mi tappavo le orecchie.
Non c’era già stato un tempo in cui avevo sentito raccontare senza voce?
[…] I paesi lontani di cui facevo conoscenza danzavano amichevolmente
l’uno accanto all’altro come fiocchi di neve. E poiché, quando nevica,
la lontananza non ci guida più verso l’esterno ma verso l’interno,
Babilonia e Baghdad, Akko e l’Alaska, Tromsø e il Transvaal erano dentro
di me[1].
Questo passaggio completa idealmente la
tesi benjaminiana sulla lettura come crescita: il bambino, quando legge,
compie un’esperienza di distanziamento. Si può dire che egli parta, con
il richiamo della lettura, verso un paese lontano. L’andata-e-ritorno
di questo viaggio è precisamente l’Erfahrung di Benjamin: un’esperienza che si accumula all’insaputa del soggetto che la compie. Un’altra traduzione dell’Erfahrung
– alla luce della sua resistenza al sapere – potrebbe essere, a questo
punto, «esperienza segreta». In opposizione al «vissuto» dell’Erlebnis, il carattere «segreto» dell’Erfahrung
accentua il senso di un’accumulazione che si compie all’insaputa del
soggetto. Il bambino opera una sorta di trasfusione di se stesso nel
libro. […]
Nella breve nota intitolata “Leggere” è
in questione la relazione fra il libro e il luogo in cui è letto. Non si
tratta esclusivamente del libro d’infanzia, ma della lettura come
esperienza dell’infanzia. Anche in questo caso si percepisce sin da
subito l’assonanza con il Proust di Giornate di lettura e di Combray. La lettura, per entrambi, non è separabile dai luoghi in cui avviene. […]
Non c’è luogo in cui
le prime pagine di un libro nuovo si aprano meglio che in un ambiente
estraneo, per esempio nello scompartimento di un treno. […].
Le ultime pagine di un libro che già si conosce, invece, non si leggono mai come quando, la sera, si è nella propria stanza. Vi sono persone, e fra questi quelli che possiedono una libreria intera, che non riescono a comprendere appieno un libro perché non lo leggono una seconda volta. Eppure è soltanto allora che – come quando si batte con le nocche su una parete e si ottiene qua e là una cupa risonanza – ci si ferma e ci si imbatte in tesori che il precedente lettore, che in realtà siamo sempre noi, vi aveva sepolto[2].
Le ultime pagine di un libro che già si conosce, invece, non si leggono mai come quando, la sera, si è nella propria stanza. Vi sono persone, e fra questi quelli che possiedono una libreria intera, che non riescono a comprendere appieno un libro perché non lo leggono una seconda volta. Eppure è soltanto allora che – come quando si batte con le nocche su una parete e si ottiene qua e là una cupa risonanza – ci si ferma e ci si imbatte in tesori che il precedente lettore, che in realtà siamo sempre noi, vi aveva sepolto[2].
In questa nota non vi sono riferimenti
diretti all’infanzia della lettura, eppure essa può dirci molto di più
di un intero trattato sull’argomento. Basterebbe porsi una domanda
sull’identità del «precedente lettore» cui Benjamin si riferisce nel
finale del passaggio. La risposta è già nel testo, con il caratteristico
uso della prima persona plurale: «in realtà siamo sempre noi…». Questo
dettaglio dovrebbe riportare alla memoria il saggio proustiano del 1905,
in cui l’uso della prima persona plurale accentua la complicità fra
scrittore e lettore, in nome delle comuni esperienze di lettura. D’altro
canto, chi deve mai essere questo «precedente lettore» che, come un
avventuriero, ha sepolto un tesoro fra le pagine di un libro letto molto
tempo prima? Verrebbe da pensare: “il bambino!”. Ma la questione non è
così semplice. Al centro del problema vi è una particolare proprietà
della lettura che ha a che fare con l’infanzia, ma che non si esaurisce
con essa. È in questione il potere trasferenziale della lettura o, in altre parole, la lettura come transfert.
Il «precedente lettore» – meglio non sbilanciarsi sin da subito –
trasferisce una parte di sé nel libro che ha letto. Una serie di ricordi
saranno associati alla storia letta, al tempo in cui la si è letta,
allo spazio che ha accolto il lettore. Questi ricordi possono anche
andare perduti. Anzi, secondo Benjamin devono andare perduti.
Solo così, infatti, il lettore successivo – «che in realtà siamo sempre
noi» – potrà ritrovare fra le pagine del libro un ricettacolo di segni e
tracce: di città, di stanze, immagini di un mondo lontano che non
aspetta altro che di essere tirato fuori. Il giovanissimo protagonista
della Recherche, con il suo François le Champi lettogli dalla madre nelle notti insonni, è il paradigma letterario di questa logica trasferenziale.
Il ricorso alla parola psicoanalitica «tranfert» e al suo viaggio di ritorno («controtransfert»)
può rivelarsi utile per chiarire nel modo più esplicito il rapporto tra
infanzia e lettura. Il libro diventa, infatti, lo «spazio potenziale»
in cui ha luogo un’esperienza che Proust definì, senza l’aiuto della
psicoanalisi, come una «comunicazione in seno alla solitudine». Si
tratta, in termini più severi, di una tecnica di «comunicazione
indiretta», di ciò che lo psicoanalista inglese Donald W. Winnicott ha
definito «una capacità di ritirarsi senza perdere l’identificazione con
ciò da cui si è ritratti»[3].
Tale comunicazione può avvenire nello spazio chiuso dell’analisi, in
cui il silenzio dice a volte più della parola, ma anche nello spazio
chiuso della lettura, luogo di ritiro per eccellenza. In questo secondo
caso, il soggetto non fa che comunicare con se stesso per il tramite del
libro; ma per farlo è indispensabile che egli abbandoni se stesso. È
questo il significato del «miracolo fecondo di una comunicazione in seno
alla solitudine», di cui Proust parla nel saggio sulla lettura. È
questo il senso della dialettica fra infanzia e lettura di cui Benjamin
traccia un mosaico composito sul finire degli anni ‘20. Né il romanziere
né il filosofo seguono una traccia psicoanalitica, eppure il gesto di
rivolgere lo sguardo indietro, verso i territori sommersi dell’infanzia,
lega innegabilmente queste diverse esperienze intellettuali di scavo
archeologico a un passato divenuto estraneo alla memoria. Non è questo
il luogo per addentrarsi nelle profondità di questo tema, che
implicherebbe un allargamento del discorso ad altri testi ed autori[4].
Ma occorre riconoscere che, quanto meno sul tema dell’infanzia, alcuni
tratti in comune caratterizzano il percorso di queste tre discipline.
[…]
[1] Ivi, p. 77.
[2] Ivi, p. 134.
[3] Winnicott (1974), p. 243.
[4] Walter Benjamin si riferisce a Freud in un saggio sul gioco infantile (Giocattolo e gioco) e in Di alcuni motivi in Baudelaire
(1939). In questo testo, insieme a Baudelaire, Proust e Freud
compongono una linea teorica che Benjamin oppone alla linea del
vitalismo diltheyano di Esperienza vissuta e poesia e al concetto di «durata» introdotto da Bergson in Materia e memoria. È in Al di là del principio di piacere – saggio freudiano cui Benjamin si riferisce – che Freud espone, fra le altre cose, il meccanismo del «fort-da» nel gioco d’infanzia del piccolo Ernst, nei termini di presenza-assenza dell’oggetto del desiderio.
[1] Sulla relazione fra Infanzia berlinese
e gli studi benjaminiani su Proust si rimanda all’articolo di Peter
Szondi “Speranza nel passato” (1982). Pur riconoscendo l’«affinità
elettiva» fra Proust e Benjamin, Szondi tende ad inquadrare l’opera del
romanziere nella cornice di un tentativo di fuga dal tempo: «Proust
ascolta i suoni che provengono dal passato, Benjamin quelli che
anticipano un futuro che intanto è divenuto esso stesso passato» (p. 18).
[2] Benjamin (2012), p. 121.
[3] Ivi, pp. 129-30.
[4]
Su questo tema si rimanda all’articolo di Comolli “La tempesta di neve.
Infanzia della lettura e infanzia della metafora”: «non intendo quindi
parlare delle letture per l’infanzia, quanto piuttosto di un’infanzia della lettura, intesa come figura di un’esperienza a sé stante,
momento aurorale che segna il passaggio fra altre due esperienze
compiute: quella purissima e primordiale del non saper leggere libri, e
quella del saperlo fare, come abitudine ormai scontata. Lo ripeto: ciò
che m’interessa è un esperienza che avevamo, un’atmosfera che si sentiva:
raffigurare lo stile di quelle letture non è possibile senza
raffigurare anche le sensazioni, le impressioni che provavamo, leggendo
in tale maniera». Comolli (1982), p. 143.
[5] Benjamin (2012), p. 56.
[1] Benjamin (1981), p. 93.
[2]
Il frammento K I, 1 è particolarmente chiaro su questo punto: «Proust
poteva presentarsi come fenomeno senza precedenti solo in una
generazione che avesse perso tutti i rimedi corporei e naturali della
rammemorazione, e che, più povera di quelle che l’avevano preceduta,
fosse abbandonata a se stessa, e potesse dunque far propri solo in modo
isolato, frammentario e patologico i mondi infantili». Benjamin (2012),
p. 275. I curatori del testo insistono, nell’introduzione,
sull’impossibilità benjaminiana di aggirare la «saggezza»
dell’infanzia poiché in essa è racchiuso il nocciolo dell’esperienza:
«l’infanzia dev’essere interrogata a partire dal segreto che racchiude e
tale segreto riposa nei suoi frammenti, nella materia della sua
apparente decadenza, in quelle che Benjamin chiama “rovine”». Ivi, p. 22. Su questa linea di lettura del nesso infanzia-esperienza, i curatori rimandano al già citato testo di Giorgio Agamben (Infanzia e storia),
in cui si trovano frasi come la seguente: «esperire significa
necessariamente, in questo senso, riaccedere all’infanzia come patria
trascendentale della storia». Agamben (2001), p. 51.
[3] RTP I, p. 44; SW, p. 55.
[4] Benjamin (1993), p. 390-91.
[5]
Sigmund Freud ha osservato questo fenomeno guardando il suo nipotino
praticare il famoso «gioco del rocchetto». Il gesto del bambino che
lancia l’oggetto per farlo scomparire e poi lo tira a sé per farlo
riapparire di nuovo – insieme all’espressione verbale che accompagna
questo rituale («fort-da»: “via-qui”) – è diventato un luogo classico
non solo per gli studi di psicologia infantile. Vedi Freud (1977), pp.
200-203. Per una ricostruzione dei quesiti che Freud ha rivolto alla
dimensione dell’infanzia – quesiti essenziali, «che vertono su “dove” e
“quando” inizia la vita psichica» – si veda Vegetti Finzi (1982) pp. 71-91.
[6]
«Nelle località di villeggiatura in cui trascorrevamo l’estate, i
nostri genitori – come è naturale – facevano delle passeggiate con noi.
Noi fratelli eravamo in due o in tre. Qui io penso a mio fratello. Dopo
che, partendo da Freudenstadt, Wengen o Shreiberhau, avevamo visitato
delle mete d’obbligo delle nostre escursioni, mio fratello soleva dire: “Dunque saremmo stati qui”.
Questa formula mi si è impressa in modo indelebile nella memoria».
Benjamin (1978), p. 401. Sul rapporto fra esperienza, memoria e vita
quotidiana si veda il saggio sempre attuale di Paolo Jedlowski, Il tempo dell’esperienza (1986).
[7]
Basterebbe menzionare le pagine di Combray dedicate ai pomeriggi di
lettura, insieme al già citato “ritrovamento” della copia di François Le Champi nella biblioteca dei Guermantes nel Tempo ritrovato, per rendere conto del ruolo essenziale che l’infanzia della lettura gioca per tutta l’estensione della Recherche. RTP I, pp. 100-8; SW, pp. 101-8. RTP IV, pp. 562-68; TR, pp. 565-68.
[1]
Benjamin ha dedicato numerosi scritti ad argomenti proustiani, senza
considerare che nel novembre 1930 uscì – con il titolo fuorviante di La duchessa di Guermantes – la traduzione di Le côté de Guermantes
(conclusa insieme a Franz Hessel già nel 1926 e pubblicata per la casa
editrice R. Pieper). Il soggiorno parigino dal dicembre 1929 a febbraio
inoltrato dell’anno seguente offrì dunque al critico berlinese la
possibilità di approfondire le relazioni con il mondo intellettuale
della capitale francese e il frutto di queste nuove frequentazioni è
rappresentato da un serie di saggi (“Teste parigine”, “Serata con
Monsieur Albert”, “Diario parigino”) il cui interesse principale
consisteva nel raccogliere testimonianze dirette sul conto di Marcel
Proust. Benjamin (2002), pp. 20-23, pp. 66-84, pp. 24-30.
[2]
Il più celebre dei saggi dedicati al nesso esperienza-modernità, “Di
alcuni motivi in Baudelaire”, è strettamente legato alla fase della vita
di Benjamin trascorsa a Parigi e consacrata al progetto della grande
opera sui Passages. Ciò che qui interessa è avvertire che lo
scritto apparve originariamente nel 1940 sul numero 8 della “Zeitschrift
für Sozialforchung”, la rivista dell’Istituto per la ricerca sociale, con cui Benjamin intrattenne un importante rapporto di collaborazione.
[3]
Sulla critica benjaminiana dell’esperienza e sul suo rapporto con la
dimensione muta dell’infanzia si rimanda all’ormai classico Infanzia e storia di Agamben (2001).
[4] CSB, p. 160; GL, p. 29.
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