03 giugno 2017

LA TENEREZZA DI GIANNI AMELIO AL CINEMA

Scrivere di cinema: La tenerezza

di Marco Castelli

I film  sulle relazioni umane sono come una matassa di storie, che viene fatta srotolare da un gatto su un tappeto. Ne “La tenerezza” il giocoliere è il regista Gianni Amelio, il tappeto sono i vicoli di Napoli ed il colore della matassa è un rosso tra lo stinto di una rosa sfiorita, il cupo del sangue rappreso, ed il colore acceso della giacca a vento del protagonista, Lorenzo, avvocato in pensione.
Un anziano “principe del foro” (interpretato da Renato Carpentieri), ritornando a casa dopo un periodo in ospedale, incontra i suoi nuovi vicini: una famiglia appena trasferitasi in città, composta dal padre, ingegnere navale (Elio Germano), dalla madre (Micaela Ramazzotti) e da due bambini. Affezionatosi ai nuovi inquilini del palazzo, Lorenzo comincia a frequentarli, dandogli il tempo e l’affetto che invece nega ai suoi due figli: Elena (Giovanna Mezzogiorno), interprete al tribunale, e Saverio (Arturo Muselli), musicista squattrinato. Una nuova famiglia per elezione che, soprattutto grazie alla straordinaria gentilezza e naturalezza di Michela, sembra riempire i vuoti lasciati dalla separazione con la famiglia naturale, allontanata a seguito della morte della moglie di Lorenzo. Un idillio che si romperà drammaticamente, costringendo l’avvocato a tornare dalle persone che aveva provato a dimenticare.
La scenografia dei vicoli di Napoli e delle vecchie case del suo centro storico, valorizzata da un’ottima fotografia, permette di definire gli stati d’animo dei personaggi, che spesso si perdono tra gli affollati vicoli e i loro pensieri. Anche la sceneggiatura, come il quartiere spagnolo partenopeo, è in alcuni momenti cacofonica, soprattutto quando, nella sua necessità di aumentare il numero dei personaggi, è costretta a ricorrere agli stereotipi ed ad alcune scene narrative troppo false. Tuttavia, nonostante queste fragilità della struttura, i dialoghi sono calibrati, tendono all’essenziale, ed acquistano la loro forza soprattutto grazie alla bravura degli attori a non dare le frasi per scontate ed a reggere con energia gli sguardi ed i primi piani.
La trama nel suo dipanarsi riesce a disegnare i personaggi con degli affreschi più o meno riusciti e naturali, ma comunque tutti di grande impatto.
Fabio, anzitutto, ingegnere del Nord Italia, che sembra non sapere come reagire al tempo che passa: “nella vita tutto quello che facciamo è una scusa per farci volere bene” sostiene, come se Elio Germano forse memore del “vorrei solo essere amato” leopardiano. Ma purtroppo Fabio non dà l’aria, a differenza di Lorenzo, di dedicarsi alla poesia, e finisce per trovarsi schiacciato, una notte di pioggia, dalla ferrea meccanica degli anni, dai nervosismi, dal difficile rapporto con i figli che crescono ed ai quali non sa cosa dire, con i quali non riesce più a comunicare. La sua è una figura non chiaramente tratteggiata, ambigui sono anche i racconti sulla sua giovinezza, ma, nonostante tutto, nei suoi confronti non si ha un momento di accusa, la condanna definitiva è implicita, ma non c’è un giudice (se non lo spettatore) per pronunciarla. Senza scoppi d’ira la vicenda viene lasciata sfumare e, parafrasando Marc Bloch, il regista sembra un giudice istruttore, costretto a raccogliere storie e prospettive di verità, senza assumere i poteri decisori del tribunale, capace di pronunciare la condanna definitiva. Davanti all’inconsulto si prova solo a recuperare ciò che resta, i frammenti di storia e di verità.  Chiamato a ciò è il più anziano, Lorenzo, a provare a parlare a chi non può ascoltare.
Ed è proprio lo stesso vecchio avvocato che, pur loquace con il nipotino ed i vicini, davanti alla figlia si arroga la facoltà di non rispondere, immaginandosi come davanti ad un giudice al quale deve rendere conto della sua vita, dei suoi tradimenti. La sua scelta è quella di rendersi contumace alla sua stessa famiglia, chiudendosi in un silenzio da vittima, tra i libri della sua casa.
Elena invece, interprete, cercherebbe nella sua professione, come nella sua vita, di andare più a fondo nei rapporti umani, pensando che “si dovrebbe tradurre il tono della voce, il fiato, gli occhi, quello che hanno nella testa”. Con questa sua attitudine vorrebbe riavvicinarsi anche al padre, tentando di tradurre i suoi gesti, di riscoprire l’umanità nascosta dietro al cinismo che l’ha formato nella sua professione. Una traduzione che sembra completarsi solo con l’identificazione finale del padre nell’Altro, nell’Ulisse che ritorna da lontano, che ha le sue colpe ed i suoi difetti, il più grande dei quali è stato non aver mai voluto ritornare alla sua casa che come la misera Itaca della poesia di Kavafis era stata invece il motivo del viaggio.
“Non l’amavo o forse l’amavo, ma è troppo tardi per ritrattare”: Lorenzo sa che i termini ormai scaduti non si possono, nella vita, recuperare, ma ha capito anche che ciò non deve nemmeno essere occasione di amarezza e di rimpianto. È  l’ultima accettazione del fatto che “l’amore che strappa i capelli è perduto ormai,/non resta che qualche svogliata carezza/e un po’ di tenerezza.”

Da   http://www.minimaetmoralia.it/wp/scrivere-cinema-la-tenerezza/

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