Michelangelo e San Pietro. Per sbarrare il passo all'eresia luterana (Giulio Carlo Argan)
Che cosa non dovette significare per un forte credente la responsabilità di costruire la chiesa-madre della cristianità in un momento in cui la comunità cristiana si frantumava, si confutavano i dogmi, si contestava l'autorità del pontefice e della Curia; e del conflitto era, se non vera causa, occasione e pretesto proprio la ricostruzione della basilica romana? Non soltanto aveva scatenato, e proprio in Germania, lo scandalo delle indulgenze vendute e riacceso ovunque la vecchia polemica sul lusso della Curia e la corruzione del clero, ma aveva aperto un delicato problema dottrinale: quello della legittimità dell'esistenza della Chiesa, del suo mandato, della sua presenza e della sua azione. La fede, fatta più combattiva dal giovanile ardore per l'apocalittica del Savonarola, a Roma l'aveva avvicinato ai fautori della riforma cattolica. Condannava l'immoralismo del clero, il fasto della Curia; a Giulio II, al tempo della volta Sistina, aveva detto che non avrebbe ornato d'oro le vesti degli antenati di Cristo, erano poveri. L'ordine di seguitare il nuovo San Pietro con il permesso di cambiare il già fatto (almeno entro certi limiti) significava anzitutto ridurre il vano trionfalismo del sontuoso e complicato progetto sangallesco, poi rendere visibile nella forma architettonica la vera dottrina, infine far della chiesa-Chiesa un'arma poderosa per la lotta contro l'eresia. È noto che di quell'incarico si fece uno scrupolo, fino all'ossessione: dall'esito del compito immane sarebbe dipesa la salvezza dell'anima. Ed era vecchio, la morte era vicina.
Il problema non era solo
la forma dell'edificio, implicava necessariamente tutta Roma: una
città civilmente non esemplare (già allora) ma scelta e destinata
da Dio al proprio culto. Era il periékon di cui la basilica
vaticana era il nucleo sacrale. E il maestro era ancora turbato dalla
tragedia fiorentina: Roma nel 1527 aveva sofferto lo stesso strazio e
il pericolo del sacrilegio ancora incombeva. S'immaginò di
difenderne con quella chiesa l'autorità religiosa come s'era illuso
di difendere con i disegnati bastioni fiorentini la libertà
repubblicana.
Non era un problema
nuovo: di restaurare o rinnovare la basilica costantiniana, e con
essa bonificare Roma, si parlava da cent'anni, da quando s'era chiuso
il grande scisma d'Occidente, il papa era tornato e la sua maggiore
autorità politica esigeva una sede degna. Con una cultura che
rivalorizzava l'antichità, Roma era la colonna del suo prestigio. Fu
Alberti, grande umanista, a predicare il restauro di quanto rimaneva
dell'antico; mezzo secolo dopo Bramante e Raffaello elaborarono un
piano organico di renovatio urbis. Bisognava rifarsi alle fonti, a
Vitruvio e ai resti dell'antica Roma; e affinché potessero servire
alla progettazione, uniformare i dati differenti e spesso
contraddittori dedurre dai documenti storici una regola, creare una
base culturale su cui potessero fondarsi i molti architetti che
convenivano a Roma. Una vera e propria categoria di abili
professionisti s'andava formando, che avrebbe dovuto operare secondo
il principio, che fu di Bramante e Raffaello, del vario
nell'uniforme. Era cominciato con il coro del Rossellino
l'ingrandimento di San Pietro; ma nel 1505 Giulio II decise di
demolire la vecchia basilica e costruirne una nuova: del progetto fu
incaricato Bramante. Giulio II mirava a un equilibrio delle signorie
italiane i cui dissidi erano fomentati da fuori, specialmente dalla
Francia; e c'era anche una diffusa inquietudine religiosa, basti
pensare a Savonarola. Come auspicio di una ritrovata, ma in realtà
irrecuperabile armonia, Bramante progettò la basilica vaticana come
un'immagine di perfetto e chiaro equilibrio: una croce greca e,
sull'incrocio dei bracci, poggiava una cupola emisferica grande
quanto quella del Pantheon. Evidente l'intento di contrapporre la
chiesa emblematica del cristianesimo al tempio emblematico
dell'antico politeismo.
Allora dissentì
Michelangelo: avrebbe voluto nella basilica la tomba di Giulio II a
cui lavorava, un simbolo di concentrata potenza più che di superiore
armonia. Bramante cominciò con l'erigere i quattro piloni centrali,
ma non finirono gli studi, le ipotesi, le proposte. Nel 1520, morto
anche Raffaello, titolare della fabbrica fu Antonio da Sangallo il
Giovane; nel 1538 la costruzione fu energicamente ripresa secondo un
sontuoso progetto (poi se ne fece un modello) che avrebbe dovuto
essere replica e sfida al moralismo luterano. Quando morì Sangallo,
Paolo III estromise la «setta» dei suoi collaboratori e passò
l'incarico a Michelangelo dandogli carta bianca e perfino il permesso
di demolire, in parte, il già fatto. Perché? Evidentemente aveva
cambiato idea: aveva capito che l'arte di Michelangelo, pittura o
scultura o architettura che fosse, aveva un potenziale ideologico che
poteva essere un'arma nella guerra contro la riforma.
Del progetto di Sangallo,
Michelangelo disse e malignamente fece dire a Vasari tutto il male
possibile. Vasari, che pure aveva tanto lodato il modello intagliato
da Labacco per Sangallo, scrisse ch'era tutto un imbroglio, tutta una
fabbrica da far quattrini. Più signorilmente, Michelangelo criticò
le deficienze artistiche: la chiesa «era cieca di lumi» e «con
tanti risalti, aguglie, e tritume di membri, teneva molto più
dell'opera tedesca che del buon modo antico e della bella e vaga
maniera moderna». L'accusa di tedescheria, con l'aria che tirava,
era perfida, ma non senza un motivo. In una lettera al Ferratino
(1546-47) era anche più aspra la condanna del Sangallo, che cercava
l'oscurità perché non si vedessero le sue «ribalderie», perciò
s'era discostato dal vero confondendo la forma che Bramante aveva
voluta «chiara e schietta, luminosa e isolata a torno».
Di Bramante, come di
Raffaello, Michelangelo non era stato certamente amico, pure, nel
disegnare la pianta di San Pietro, si richiamò alla bramantesca allo
stesso modo che, nella cappella medicea, aveva ripreso e
risignificato la sagrestia vecchia di Brunelleschi: non era la sua
idea, ma era un'idea chiara rispetto alla quale poteva definire la
propria con altrettanta chiarezza. Tutto ciò che era equilibrio
divenne tensione, ciò che era proporzione divenne ritmo. Ma non era
cambiata allo stesso modo la figura ideale e storica della Chiesa, di
cui il nuovo San Pietro avrebbe dovuto essere l'immagine visibile?
Non soltanto per spirito
d'austerità Michelangelo ridusse o piuttosto contrasse i precedenti
progetti: minor forma e maggior grandezza, scrisse concisamente
Vasari per «forma» intendendo la realtà della costruzione e per
«grandezza» la vastità luminosa degli spazi. Perfino rispetto al
progetto di Bramante, di cui recuperava la chiara croce greca, il
nuovo progetto era più semplice: non più proporzionale declinazione
di spazi entro i grandi bracci della croce, ma un solo quadrato con
quattro corpi absidati che facevano croce. Non c'erano pareti piane,
non una logica correlazione del vuoto e del pieno: attorno ai quattro
pilastri centrali, costruiti da Bramante e che Michelangelo rinforzò,
era tutto un succedersi di pilastri alternativamente emergenti
all'interno e all'esterno; ed erano modellati come fasci di forze in
tensione. Già dalla pianta si vede come la semplificazione delle
strutture e la forzatura delle relazioni proporzionali mirassero a
una più immediata e intensa percezione visiva, la stessa che in
pittura era data dagli scorci e dal colore. Quel massimo d'intensità
visiva, dovuto anche al fatto che la grandezza favoriva le vedute
secondo diverse angolature prospettiche, aveva i suoi motivi
dottrinali: i protestanti credevano nella giustificazione per grazia,
era dunque superflua la mediazione della Chiesa, di cui contestavano
l'istituzione divina e la presenza concreta, visibile nel mondo.
L'edificio non poteva essere la materializzazione visibile
dell'essenza divina, ma la visualizzazione dell'impulso spirituale
che la Chiesa, per mandato divino, organizzava e orientava.
La chiesa di San Pietro
era dunque la materializzazione della Chiesa Visibile, e come tale
non doveva aver nulla di oscuro o di arcano: precisamente questa
ultra-visività Michelangelo pareva essersi proposto conciliando due
qualità apparentemente contrarie: la perspicuità dell'immagine e la
tensione delle forme. Il concetto chiave, che portava alla
contrazione delle membrature, era l'unità della natura umana e
divina di Cristo e l'essenza una e trina di Dio; ma assumeva in quel
frangente storico una ragione polemica: la protesta poteva aver
provocato delle defezioni, ma non aveva né avrebbe potuto incrinare
l'unità spirituale dell'ecumene cristiana. Ancora: l'unità era
l'essenza delle religiosità come amore: un amore che andava da Dio
all'uomo e dall'uomo a Dio, non voleva duplicità di cause ed
effetti, non portava a una conoscenza oggettiva ma a
un'immedesimazione finale. Perciò Michelangelo, come si vede anche
dalle Rime e dalle lettere, fuggiva da tutto ciò ch'era
pensiero deduttivo, logico, sillogistico: implicava infatti un
dualismo, un distacco e un giustapporsi di oggetto e soggetto che non
poteva accettare. Lo stesso fideismo a cui finalmente si riduceva il
suo intellettualismo non era logica conseguenza di una verità
rivelata e irrefutabile, non discendeva dal cielo, vi aspirava: e
l'ansia del conoscere Dio era altresì coscienza del proprio limite
umano. Anche questo spiega lo stato d'affanno per il difficile
compiersi dell'opera, la possibilità di morire prima d'averla
conclusa, il prevedibile e forse calcolato fraintendimento da parte
dei successori. Come infatti avvenne e non poteva non avvenire: lo
stesso Michelangelo aveva ricusato a priori ogni connotazione di
perpetuità, non aveva voluto costruire l'immagine d'una Chiesa
universale ed eterna, ma quella infinitamente più vivida d'una
Chiesa impegnata nella difesa delle proprie verità e nei conflitti
politici del momento. Non era possibile fondere in un'unica immagine
perennità e tempestività: Michelangelo scelse quest'ultima.
“il manifesto”, 2
dicembre 1990
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