16 giugno 2017

G. C. ARGAN, Michelangelo e San Pietro


Michelangelo e San Pietro. Per sbarrare il passo all'eresia luterana (Giulio Carlo Argan)


    Che cosa non dovette significare per un forte credente la responsabilità di costruire la chiesa-madre della cristianità in un momento in cui la comunità cristiana si frantumava, si confutavano i dogmi, si contestava l'autorità del pontefice e della Curia; e del conflitto era, se non vera causa, occasione e pretesto proprio la ricostruzione della basilica romana? Non soltanto aveva scatenato, e proprio in Germania, lo scandalo delle indulgenze vendute e riacceso ovunque la vecchia polemica sul lusso della Curia e la corruzione del clero, ma aveva aperto un delicato problema dottrinale: quello della legittimità dell'esistenza della Chiesa, del suo mandato, della sua presenza e della sua azione. La fede, fatta più combattiva dal giovanile ardore per l'apocalittica del Savonarola, a Roma l'aveva avvicinato ai fautori della riforma cattolica. Condannava l'immoralismo del clero, il fasto della Curia; a Giulio II, al tempo della volta Sistina, aveva detto che non avrebbe ornato d'oro le vesti degli antenati di Cristo, erano poveri. L'ordine di seguitare il nuovo San Pietro con il permesso di cambiare il già fatto (almeno entro certi limiti) significava anzitutto ridurre il vano trionfalismo del sontuoso e complicato progetto sangallesco, poi rendere visibile nella forma architettonica la vera dottrina, infine far della chiesa-Chiesa un'arma poderosa per la lotta contro l'eresia. È noto che di quell'incarico si fece uno scrupolo, fino all'ossessione: dall'esito del compito immane sarebbe dipesa la salvezza dell'anima. Ed era vecchio, la morte era vicina.
Il problema non era solo la forma dell'edificio, implicava necessariamente tutta Roma: una città civilmente non esemplare (già allora) ma scelta e destinata da Dio al proprio culto. Era il periékon di cui la basilica vaticana era il nucleo sacrale. E il maestro era ancora turbato dalla tragedia fiorentina: Roma nel 1527 aveva sofferto lo stesso strazio e il pericolo del sacrilegio ancora incombeva. S'immaginò di difenderne con quella chiesa l'autorità religiosa come s'era illuso di difendere con i disegnati bastioni fiorentini la libertà repubblicana.
Non era un problema nuovo: di restaurare o rinnovare la basilica costantiniana, e con essa bonificare Roma, si parlava da cent'anni, da quando s'era chiuso il grande scisma d'Occidente, il papa era tornato e la sua maggiore autorità politica esigeva una sede degna. Con una cultura che rivalorizzava l'antichità, Roma era la colonna del suo prestigio. Fu Alberti, grande umanista, a predicare il restauro di quanto rimaneva dell'antico; mezzo secolo dopo Bramante e Raffaello elaborarono un piano organico di renovatio urbis. Bisognava rifarsi alle fonti, a Vitruvio e ai resti dell'antica Roma; e affinché potessero servire alla progettazione, uniformare i dati differenti e spesso contraddittori dedurre dai documenti storici una regola, creare una base culturale su cui potessero fondarsi i molti architetti che convenivano a Roma. Una vera e propria categoria di abili professionisti s'andava formando, che avrebbe dovuto operare secondo il principio, che fu di Bramante e Raffaello, del vario nell'uniforme. Era cominciato con il coro del Rossellino l'ingrandimento di San Pietro; ma nel 1505 Giulio II decise di demolire la vecchia basilica e costruirne una nuova: del progetto fu incaricato Bramante. Giulio II mirava a un equilibrio delle signorie italiane i cui dissidi erano fomentati da fuori, specialmente dalla Francia; e c'era anche una diffusa inquietudine religiosa, basti pensare a Savonarola. Come auspicio di una ritrovata, ma in realtà irrecuperabile armonia, Bramante progettò la basilica vaticana come un'immagine di perfetto e chiaro equilibrio: una croce greca e, sull'incrocio dei bracci, poggiava una cupola emisferica grande quanto quella del Pantheon. Evidente l'intento di contrapporre la chiesa emblematica del cristianesimo al tempio emblematico dell'antico politeismo.
Allora dissentì Michelangelo: avrebbe voluto nella basilica la tomba di Giulio II a cui lavorava, un simbolo di concentrata potenza più che di superiore armonia. Bramante cominciò con l'erigere i quattro piloni centrali, ma non finirono gli studi, le ipotesi, le proposte. Nel 1520, morto anche Raffaello, titolare della fabbrica fu Antonio da Sangallo il Giovane; nel 1538 la costruzione fu energicamente ripresa secondo un sontuoso progetto (poi se ne fece un modello) che avrebbe dovuto essere replica e sfida al moralismo luterano. Quando morì Sangallo, Paolo III estromise la «setta» dei suoi collaboratori e passò l'incarico a Michelangelo dandogli carta bianca e perfino il permesso di demolire, in parte, il già fatto. Perché? Evidentemente aveva cambiato idea: aveva capito che l'arte di Michelangelo, pittura o scultura o architettura che fosse, aveva un potenziale ideologico che poteva essere un'arma nella guerra contro la riforma.
Del progetto di Sangallo, Michelangelo disse e malignamente fece dire a Vasari tutto il male possibile. Vasari, che pure aveva tanto lodato il modello intagliato da Labacco per Sangallo, scrisse ch'era tutto un imbroglio, tutta una fabbrica da far quattrini. Più signorilmente, Michelangelo criticò le deficienze artistiche: la chiesa «era cieca di lumi» e «con tanti risalti, aguglie, e tritume di membri, teneva molto più dell'opera tedesca che del buon modo antico e della bella e vaga maniera moderna». L'accusa di tedescheria, con l'aria che tirava, era perfida, ma non senza un motivo. In una lettera al Ferratino (1546-47) era anche più aspra la condanna del Sangallo, che cercava l'oscurità perché non si vedessero le sue «ribalderie», perciò s'era discostato dal vero confondendo la forma che Bramante aveva voluta «chiara e schietta, luminosa e isolata a torno».
Di Bramante, come di Raffaello, Michelangelo non era stato certamente amico, pure, nel disegnare la pianta di San Pietro, si richiamò alla bramantesca allo stesso modo che, nella cappella medicea, aveva ripreso e risignificato la sagrestia vecchia di Brunelleschi: non era la sua idea, ma era un'idea chiara rispetto alla quale poteva definire la propria con altrettanta chiarezza. Tutto ciò che era equilibrio divenne tensione, ciò che era proporzione divenne ritmo. Ma non era cambiata allo stesso modo la figura ideale e storica della Chiesa, di cui il nuovo San Pietro avrebbe dovuto essere l'immagine visibile?
Non soltanto per spirito d'austerità Michelangelo ridusse o piuttosto contrasse i precedenti progetti: minor forma e maggior grandezza, scrisse concisamente Vasari per «forma» intendendo la realtà della costruzione e per «grandezza» la vastità luminosa degli spazi. Perfino rispetto al progetto di Bramante, di cui recuperava la chiara croce greca, il nuovo progetto era più semplice: non più proporzionale declinazione di spazi entro i grandi bracci della croce, ma un solo quadrato con quattro corpi absidati che facevano croce. Non c'erano pareti piane, non una logica correlazione del vuoto e del pieno: attorno ai quattro pilastri centrali, costruiti da Bramante e che Michelangelo rinforzò, era tutto un succedersi di pilastri alternativamente emergenti all'interno e all'esterno; ed erano modellati come fasci di forze in tensione. Già dalla pianta si vede come la semplificazione delle strutture e la forzatura delle relazioni proporzionali mirassero a una più immediata e intensa percezione visiva, la stessa che in pittura era data dagli scorci e dal colore. Quel massimo d'intensità visiva, dovuto anche al fatto che la grandezza favoriva le vedute secondo diverse angolature prospettiche, aveva i suoi motivi dottrinali: i protestanti credevano nella giustificazione per grazia, era dunque superflua la mediazione della Chiesa, di cui contestavano l'istituzione divina e la presenza concreta, visibile nel mondo. L'edificio non poteva essere la materializzazione visibile dell'essenza divina, ma la visualizzazione dell'impulso spirituale che la Chiesa, per mandato divino, organizzava e orientava.
La chiesa di San Pietro era dunque la materializzazione della Chiesa Visibile, e come tale non doveva aver nulla di oscuro o di arcano: precisamente questa ultra-visività Michelangelo pareva essersi proposto conciliando due qualità apparentemente contrarie: la perspicuità dell'immagine e la tensione delle forme. Il concetto chiave, che portava alla contrazione delle membrature, era l'unità della natura umana e divina di Cristo e l'essenza una e trina di Dio; ma assumeva in quel frangente storico una ragione polemica: la protesta poteva aver provocato delle defezioni, ma non aveva né avrebbe potuto incrinare l'unità spirituale dell'ecumene cristiana. Ancora: l'unità era l'essenza delle religiosità come amore: un amore che andava da Dio all'uomo e dall'uomo a Dio, non voleva duplicità di cause ed effetti, non portava a una conoscenza oggettiva ma a un'immedesimazione finale. Perciò Michelangelo, come si vede anche dalle Rime e dalle lettere, fuggiva da tutto ciò ch'era pensiero deduttivo, logico, sillogistico: implicava infatti un dualismo, un distacco e un giustapporsi di oggetto e soggetto che non poteva accettare. Lo stesso fideismo a cui finalmente si riduceva il suo intellettualismo non era logica conseguenza di una verità rivelata e irrefutabile, non discendeva dal cielo, vi aspirava: e l'ansia del conoscere Dio era altresì coscienza del proprio limite umano. Anche questo spiega lo stato d'affanno per il difficile compiersi dell'opera, la possibilità di morire prima d'averla conclusa, il prevedibile e forse calcolato fraintendimento da parte dei successori. Come infatti avvenne e non poteva non avvenire: lo stesso Michelangelo aveva ricusato a priori ogni connotazione di perpetuità, non aveva voluto costruire l'immagine d'una Chiesa universale ed eterna, ma quella infinitamente più vivida d'una Chiesa impegnata nella difesa delle proprie verità e nei conflitti politici del momento. Non era possibile fondere in un'unica immagine perennità e tempestività: Michelangelo scelse quest'ultima.

“il manifesto”, 2 dicembre 1990

Nessun commento:

Posta un commento