01 giugno 2017

R. MINORE SUL RITORNO DI SANDRO PENNA





QUALCOSA SU SANDRO PENNA
(in attesa del Meridiano)
di  Renato Minore
 
IL PRIMO atto di fortuna per la poesia di Sandro Penna fu il riconoscimento fulmineo di Umberto Saba che così scriveva a Eugenio Montale: «Trovato turbante poeta rimando arrivo di un giorno». Perduto dietro i suoi ragazzi di vita numinosi e irraggiungibili, il "turbante poeta" degli anni Trenta appariva come un miracolo di perfezione, di grazia luminosa e spontanea: in modo misteriosamente diretto e allusivo in sintonia con la sua storia di “eterno fanciullo", goloso dei suoi elementari piaceri, fermo al meccanismo che li riproduceva all'infinito, come capita a un disco sempre bloccato sullo stesso acuto o alla bambola di un carillon ingentilita dal medesimo, meccanico inchino.
Ora, a quasi un secolo di distanza dalla sorpresa della scoperta montaliana, quel poeta è stato, secondo Pier Paolo Pasolini e Cesare Garboli, il maggiore del nostro Novecento. Ora quel poeta arriva alla gloria editoriale di un Meridiano finalmente dedicato a lui dove sono raccolti tutti i versi che scriveva sui bordi dei giornali, su fogli a quadretti strappati da notes, sui biglietti del tram. Ora quel poeta è, continua ad essere, un vero e proprio mito che si irradia intorno a lui e alla sua poesia, spoglia di storie, di situazioni di singolarità, di nomi, di relazioni. Come un continuo "adagio singhiozzante", sempre attratto dall'attimo, con quel travaso di tempo, di sperpero, di stupore e d'incanto dove già tutto è predisposto al rimpianto, dove l'azzurro, il vento, il treno all'alba, l'ombra della cattedrale sono l'allucinazione, la radice misteriosa dell'eros, lo sguardo della parola, la figura del tempo e della sua fatalità.
Quella fatalità che sembra come raccolta «nel cupo silenzio di uno sguardo estraneo che non può partecipare veramente alle cose, che sa che tutto ciò che vede non è che l'effetto di un fragilissimo artificio». Così ha scritto Elio Pecora, poeta, critico letterario e biografo, grazie alla cui amorevole ricerca conosciamo moltissime cose della vita di Penna e abbiamo recuperato molte delle sue carte. disordinate e disperse. E lo stesso Pecora, insieme a Roberto Deidier, (anch’egli poeta e critico che ha sondato con competente passione l’universo penniano) è il curatore del Meridiano: un volume che, mettendo insieme i parchi libri già editi, i diari, le prose, gli inediti, le lettere arriva a ben milleseicento pagine. Davvero un “monumento” dove l'amabile castità, la vocale immediatezza, l'istintività sognante di un "poeta felice perché diverso" e "antico nell'essenza della parola", rappresentano la grana della sua voce. Appaiono come siglate nella leggendaria leggerezza che scivola sulle cose e le lascia dietro di sé.
E' il timbro di quella voce di poeta risuona nella straordinaria intervista “Umano non umano! che fece a Penna Mario Schifano.
Penna, seduto anzi quasi abbandonato sul letto della sua casa romana, al quarto piano di via della Mole de' Fiorentini ( dove viveva dal 1939 e dove Pecora lo trovò morto il 21 gennaio del 1977) parla ininterrottamente, sommessamente, dolorosamente di sé, tra carte, farmaci, panni, dischi, scatole, la bilancia da farmacista, il vaso da notte, autentico sovrano nello spazio dove s'ammucchiano disegni, acqueforti, incisioni firmate da De Chirico, Viani, Mafai, Fazzini, Vespignani.
Parla con cantilena dolce, allude ai minimi eventi della propria esistenza che l'hanno illuminata e, poi, si sono spenti per sempre. I dolori dell'adolescenza, i tanti mestieri esercitati (dal boomaker al mercante di quadri), la folgorazione che gli ha fatto scrivere i versi più famosi: "La vita... è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all'alba: aver veduto/ fuori la luce incerta: aver sentito/ nel corpo rotto la malinconia/ vergine e aspra dell'aria pungente".
Dinnanzi alla macchina immobile che lo inquadra, Penna veste gli stracci di una nobiltà poetica da non barattare con niente e con nessuno. Ha coscienza che il suo valore è nel punto essenziale dove non batte il vento di alcuna modernità posticcia e le parole suonano antiche e maniacalmente intente a intonare sempre la stessa nota. Sa di offrire il teatrino della propria nevrosi, la sua cattiveria proverbiale nel giudicare i colleghi scrittori, un modo misteriosamente diretto e allusivo di essere in sintonia con la sua storia di eterno fanciullo, Dalla sua "incantata prigione", ai margini di tutto è il candido e smaliziato coboldo che si offre ai posteri come irriducibile a ogni definizione.
Il ritratto è perfetto, rappresenta l’uomo, il narciso occupato da sé, introduce a quel poeta che di quel narciso ha raccontato la gloria e gli scoramenti, le esaltanti ed effimere vittorie, le cadute vertiginose. Penna o della sua difficile, insuperabile semplicità che si scioglie appena cerchi di spiegarla: il poeta la spiega offrendo in pegno la sua deliziosa e “superflua” persona. Si pensa alle incantevoli figurine di Robert Walser che, con un solo gesto, sembrano catturare l’infinita meraviglia dell’esistenza, il tremore dell’innamoramento, la pena del distacco, il lutto che scende nell’anima quando eros è per sempre tramontato.

Renato Minore sul MESSAGGERO di oggi, 1 giugno 2017.

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