"Più ci si addentra
nella vicenda intellettuale di Caterina, più si è rapiti dalla sua
indecifrabilità. Dietro il segreto della sua scrittura, così ben
custodito dai suoi seguaci, ce n’è forse un altro: l’ermetismo,
l’alchimia".
Silvia Ronchey
Caterina, la santa che
inventò l’italiano
Come svelano nuovi studi,
il vero miracolo della mistica di Siena è la sua scrittura
innovativa “Più luce!”, furono le ultime parole di Goethe.
“Sangue! Sangue!”, furono le ultime parole di Caterina da Siena,
con Dante il primo genio, come scrisse Tommaseo, della lingua
italiana. Le sue opere – il “Libro”, in seguito reintitolato
“Dialogo della divina provvidenza”, e le trecentottantuno Lettere
– furono scritte col sangue, quasi letteralmente. Scrivo “nel
prezioso sangue di Cristo”, spiegava di continuo Caterina.
Non era solo una
metafora. Il più attendibile dei suoi biografi, Tommaso Caffarini,
narra di come un giorno, trovando in una stanza della rocca di
Tentennano un vasetto di cinabro di quelli usati dai copisti per
vergare i capilettera, lei lo afferrasse insieme al calamo e alla
pergamena e prendesse a scrivere rapidamente, “con tratto leggibile
e netto”.
Caterina, ed era forse
questo uno dei suoi molti segreti, scriveva in inchiostro color
sangue, e lo faceva di suo pugno, per quanto reticenti o
deliberatamente svianti siano in proposito i suoi primi agiografi,
attenti a far credere all’autorità ecclesiastica che quelle opere
non nascessero dall’audacia di un carisma personale, bensì da
miracolosa ispirazione divina; che fossero da lei dettate in stato di
trance ai membri maschi della sua laica confraternita.
Furono capaci di
persuaderne i successivi studiosi, a loro volta inclini a credere
all’inevitabile analfabetismo di quella strana figlia della piccola
borghesia della buia contrada senese dell’Oca, adolescente
anoressica uscita dal mondo per sprofondare nella sua “cella
interiore”, fuggita dal corpo per costruirsi un “corpo
spirituale” nella perenne astensione dal cibo (un po’ d’acqua e
piccoli boli di erbe che subito rimetteva) e dal sonno (su una tavola
per terra e “non più di mezz’ora ogni due giorni”), nelle
piaghe delle catene e del cilicio, nelle penitenze, nei più
implacabili e disciplinati stenti dell’ascesi, nelle devastazioni
dell’estasi.
Come scriveva il suo amico William Flete all’indomani della morte, che la prese a trentatré anni, Caterina “abitava nella caverna del costato di Cristo”. Nel Dialogo confessava: “La vita mia non è passata altro che in tenebre; ma io mi nascondarò nelle piaghe di Cristo crocifixo e bagnarommi nel sangue suo”.
Vissuta in un tempo in
cui l’accesso alla scrittura era nominalmente vietato a qualsiasi
donna non fosse regina o principessa, la sua padronanza dello
scrivere era nascosta in quella caverna, nota solo a quell’entourage
di confessori in realtà segretari, direttori di coscienza in realtà
sottoposti, padri spirituali in realtà figli, che costituivano la
“bella brigata”, la comunità di cui Caterina, il volto brunito
come un capo indiano, indurito “come cuoio” dal sole della
Francigena, era l’irrivelabile maestra, “madre” e profetessa.
Un libro di André
Vauchez (Caterina da Siena. Una mistica trasgressiva, Laterza) cerca
oggi di contestualizzare la sua eversione spirituale e la sua
militanza politica nella lotta tra chiesa e impero, regni e stati
dello scacchiere trecentesco, ma anche fra ordini rivali e
contrapposti papati nel tempo dello scisma avignonese, della Crociata
contro l’Anticristo, della plurinvocata riforma della chiesa, al di
là della narrazione della propaganda ecclesiastica, che della sua
figura di outsider ha fatto prima una paladina del primato della sede
papale romana, poi una costruzione patriottica, tanto da trasformarla
in antesignana dell’unità d’Italia, e nel 1939, ad opera di Pio
XII, in copatrona d’Italia: in un Francesco femmina – per quanto
lei si considerasse uomo e per quanto meno scrittore, ancorché
sublime, fosse di lei Francesco. Ma accomunava certo entrambi la
simulata illetteratezza, la scelta del sermo humilis, l’esoterica
semplicità del volgare con cui vollero trasporre nella lingua umana
l’ineffabile.
Il Sangue, la passione, la tortura, è la scrittura. Perché “in sul cuore la pietra del diamante, se non si rompe col Sangue, non si può rompere”. La sua anima, come dichiara nel prologo del Dialogo, era “ansietata di grandissimo desiderio”, ed era “abituata e abitata nella cella del cognoscimento di sé”, perché “al cognoscimento seguita l’amore” e “amando cerca di seguitare e vestirsi di verità”.
Per Caterina l’opus
della scrittura era un corpo a corpo con quell’“ansietato
desiderio” di smarrire il proprio io in un amore non di questo
mondo. Influenzata dall’agostiniano William Flete, il peccato era
per lei solo mancanza d’amore: non realtà ma, scrive, “quella
cosa che non c’è”. E “l’attitudine dello scrivere”, come
confidò a Raimondo da Capua, era l’unica “con cui sfogare il
cuore, perché non scoppiasse”.
Come ha scritto
Michel de Certeau, il mistico è la persona che vuole “offrire un
corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla
verità”. “Affogata e annegata nel sangue” dell’inchiostro,
Caterina vi trovava “l’affocata sua verità”. Il discorso, il
Logos, si fece carne in quella sofferenza, da Caterina paragonata
alla passione di Cristo e assimilata al torchio dionisiaco da cui
cola la bevanda redentrice del dio sacrificato e spremuto.
Smembrata come Dioniso,
le sue reliquie saranno sparse in più templi del mondo cattolico, ma
la sua testa mummificata, oltre la grata del tabernacolo gotico,
presidia quell’insospettabile tempio pagano che è la basilica
senese dell’ordine cui fu più vicina, quello di San Domenico.
Se percorsa la navata
centrale in direzione della Sagrestia Vecchia, varcata la balaustra
di marmo, si accede alla Cappella del Testa, si verrà colpiti
anzitutto, ai due lati del sottarco, da due misteriosi personaggi
affrescati dal Sodoma, identificati oggi da Gioachino Chiarini ( Il
calice e lo specchio, Nerbini) con Platone e Aristotele; ma
soprattutto, al centro del pavimento policromo, da una figura tanto
anomala quanto inconfondibile, identificata da Bernard Berenson con
quella di un classico Orfeo che al posto della cetra regge uno
specchio.
Nella lettura di Chiarini
l’intero programma iconografico della cappella, progettato tra fine
Quattrocento e inizio Cinquecento dai seguaci senesi dei misteri
cateriniani, è la coerente illustrazione delle pagine finali del
Dialogo e l’Orfeo asessuato della tarsia marmorea è la chiave
della teoria cateriniana dell’anima. Una teoria ermetica, dove la
passione di Cristo è l’opus cui si rifà l’anima individuale nel
laboratorio alchemico della salvazione, attraverso quella sua
letterale e fisica imitazione che è l’opus della scrittura,
attuata nel bagno vermiglio del sangue.
Più ci si addentra nella
vicenda intellettuale di Caterina, più si è rapiti dalla sua
indecifrabilità. Anche se oggi la riconosciamo certo ben più
consapevole di quanto ogni versione ecclesiastica abbia voluto o
potuto in origine ammettere, non conosciamo le fonti filosofiche
dirette del suo Dialogo. Qualcuno ha evocato Agostino, qualcun altro
lo Pseudo-Dionigi, ma molto era occultato nella composita comunità
di cui Caterina era maestra, madre e profetessa.
Se le facce di Caterina
sono tante quanto le reliquie in cui il suo corpo è oggi smembrato,
se le ragioni della sua fortuna sono sotterranee, e anche per questo
confondono storici e biografi, se tra i miracoli di Caterina il più
grande è quello della scrittura, dietro il segreto della sua
scrittura, così ben custodito dai suoi seguaci, ce n’è forse un
altro: l’ermetismo, l’alchimia. Un segreto di cui solo i suoi più
tardi conoscitori e cultori, in quello spalancarsi del vaso di
Pandora del pensiero medievale che fu il Rinascimento, hanno voluto
fornirci, con le dovute precauzioni, la chiave.
La Repubblica – 7
giugno 2017
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