10 giugno 2017

Sull'arte oratoria del tragi-comico Grillo


Riprendiamo un estratto dal nuovo libro di Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica. Ringraziamo editore (Laterza) e autore.

Un estratto da “Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica”

di Giuseppe Antonelli

Un messaggio pubblicato su Twitter il 4 febbraio 2013 ammoniva: «#Grillo parla nelle piazze un linguaggio semplice e comprensibile gli altri sono nella loro torre d’avorio il risveglio sarà amaro #M5S». Solo che la storia del linguaggio semplice l’avevamo già sentita più di vent’anni fa.
La sbandieravano prima Bossi e poi Berlusconi («Non più quel linguaggio da templari che nessuno capiva: si sentiva il bisogno di un linguaggio semplice, comprensibile, concreto »). La confermavano gli studi sul lessico berlusconiano, mettendo in luce – tra l’altro – l’alto tasso di comprensibilità del suo modo di parlare.
Anche sottoposto all’analisi informatizzata, il discorso di Berlusconi si conferma molto semplice: fondato in gran parte sul lessico di base e su una sintassi fatta di frasi brevi.
Studi simili confermano che anche la lingua di Grillo è composta dagli stessi ingredienti: frammentazione sintattica, semplificazione lessicale, insistenza su alcune parole (e parolacce, in questo caso) ricorrenti. Uno schema portato ai massimi livelli – di enfasi e di potere – dal nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Come ha notato il linguista George Lakoff, ancora una volta le elezioni sono state vinte da chi è stato in grado di imporre le proprie parole d’ordine – e dunque la propria visione del mondo, il proprio frame – indipendentemente e al di là di qualunque argomentazione.
Il modo di esprimersi di Trump è fatto di frasi molto brevi, spesso lasciate a metà, quasi sempre composte di parole mono o bisillabiche. Secondo le analisi dei linguisti, sintassi e vocabolario sono quelli di un bambino all’ultimo anno delle elementari. «Il nostro paese potrebbe funzionare molto meglio». «Abbiamo accordi commerciali pessimi». «Il nostro paese non funziona». «Tutti vincono tranne noi». «Abbiamo bisogno di vittorie». «Non abbiamo più vittorie». «Il nostro paese sarà grande di nuovo». Solo frasi ad effetto: slogan sparati a raffica e intervallati dai classici segnali discorsivi (I mean, you know) che accentuano l’impressione di una chiacchierata informale. E poi le parolacce, ovviamente.
E gli sprezzanti nomignoli per gli avversari politici: Low energy («bassa energia») per Jeb Bush, Lyin Ted («Ted il bugiardo») per Ted Cruz, piccolo Marco per Marco Rubio, Crooked Hillary («Hillary la corrotta») per la Clinton. Ma a colpire ancora di più sono le continue iperboli: tutto quello che Trump promette è meraviglioso, fantastico, incredibile. Come si legge nella sua autobiografia, «non tutti sanno pensare in grande, ma quasi tutti sono attratti da chi
lo fa. Ecco perché un po’ d’iperbole non fa mai male. […] Io la chiamo “iperbole veritiera”. È una forma innocente di esagerazione – e ancor più efficace di promozione».
Ne sa qualcosa Grillo, che nel suo discorso di fine anno 2016 non fa che ripetere espressioni iperboliche. Per farsi un’idea, bisogna leggerle tutte di seguito: «la cosa più straordinaria che sta succedendo», «questa è una cosa che passa l’immaginazione», «è straordinario questo abbinamento dove non ci credeva nessuno», «un vaffa straordinario», «la cosa più straordinaria che non esiste al mondo», «poter lasciare un segno della sua vita, della sua professione, nella realtà è straordinario», «fantastico: da quarant’anni funziona così», «fantastico!», «incredibile!», «questo meraviglioso sistema operativo che abbiamo», «sono tutti problemi pazzeschi», «ci aspetta una cosa strepitosa», «i cittadini cominciano a capire una cosa meravigliosa che è il Movimento 5 Stelle». Fin da quand’era un comico, d’altronde, il tormentone preferito di Grillo era «è una cosa pazzesca!».
Come notava Alexander Stille, «gli italiani, in particolare, dovrebbero capire la rivoluzione linguistico-politica del trumpismo. Il fascismo è stato preceduto e accompagnato da una simile rottura nei discorsi pubblici». Cambia la lingua, ma non il linguaggio. I programmi delle forze populiste tendono sempre a somigliarsi: niente di strano che si somigli anche la loro comunicazione. In Italia, sono state notate già da tempo le notevoli somiglianze tra Grillo e Salvini. Ma il modello si sta espandendo anche alle altre forze politiche, che ormai sembrano accettare questa sorta di supremazia a Cinque stelle.
Fino a poco tempo fa, questa posizione dominante era occupata dalla retorica berlusconiana. Era da lì che partivano le parole chiave, i frames che influenzavano il pensiero comune e indirizzavano il messaggio politico. Dire che le tasse equivalevano a mettere le mani nelle tasche degli italiani significava far passare l’idea che le tasse erano un furto perpetrato dallo Stato. Quando da sinistra ribattevano dicendo che anche loro non avrebbero messo le mani nelle tasche degli italiani, accettavano di rimanere all’interno di quel frame. Assumevano una posizione di sudditanza nei confronti dell’ideologia implicitamente espressa da quelle parole. E infatti perdevano.
Quando Renzi ha impostato la campagna referendaria su frasi come «non difendere i privilegi della politica» o «con il No difendete la casta», ha fatto sue parole d’ordine tipicamente populiste. Ha accettato il frame dei suoi avversari. E infatti ha perso.
Per dare un’idea dell’influenza che hanno sul cervello le parole che ascoltiamo – influenza che precede e prevarica il ragionamento – George Lakoff usa come esempio la frase «Non pensare a un elefante». Provate a ripeterla due o tre volte: «Non pensare a un elefante». Poi chiudete gli occhi. A cosa state pensando? È ovvio.
Adesso provate a ripetere: «Non pensare al Grillo». «Non pensare al Grillo». «Non pensare al Grillo»…

Nessun commento:

Posta un commento