Una nuova biografia di
Umberto Saba ricostruisce il rapporto difficile che il poeta ebbe con
la sua città. Una fatica del vivere che Saba cercò di contenere
grazie alla psicoanalisi e al rifugio nel mito.
Paolo Di Stefano
Saba, un Ulisse
incompreso a Trieste
A sessant’anni
dalla morte, Umberto Saba rimane un poeta per tanti aspetti
misterioso e incompreso, per non dire sottovalutato. Come se il suo
progetto di una «poesia onesta», piana, autobiografica e domestica,
per di più proveniente da una zona di frontiera («arretrata»)
com’è Trieste, lo avesse penalizzato. Tanto più rimane in ombra
il suo valore di scrittore in prosa, nelle forme variegate del
saggista, del narratore autocritico, dello scrittore d’invenzione o
sapienziale.
Ora, la nuova monografia
su Umberto Saba, scritta da Stefano Carrai ( Saba , Salerno Editrice
), studioso di letteratura medievale e rinascimentale oltre che di
Novecento (Montale, Sereni, Fortini, Raboni…), si sofferma su
diversi luoghi ancora oscuri della sua biografia, della sua opera e
della relazione tra la «calda vita» con i suoi traumi, il contesto
storico e l’opera. Su questa via, Carrai si avvale delle
acquisizioni filologiche, dei materiali epistolari, di puntuali
analisi metrico-stilistiche.
«L’infanzia per i poeti — dice Carrai — è quasi sempre un affioramento che provoca dolore, ma nel caso di Saba equivale a una serie di nodi irrisolti che diventano un vero e proprio groviglio esistenziale. I contrasti in mezzo ai quali la sua infanzia e la sua adolescenza si dipanarono rimasero fino all’ultimo vivi e cocenti anche nell’adulto, come traumi e ferite insanabili. Il ragazzo infatti apparteneva a una famiglia dimidiata perché il padre l’aveva abbandonata ancor prima che lui nascesse. L’acrimonia e le recriminazioni della madre nei confronti dell’assente furono una costante angosciosa. Inoltre Umberto si sentiva estraneo alla cultura chiusa e ottusa del ghetto ebraico in cui crebbe. Questi elementi di disagio sarebbero bastati a far maturare in lui la sensazione di essere un diverso e un originale».
E poi si aggiunge il complicato rapporto con l’amata Peppa, la contadina slovena che gli fece da nutrice e che scatenò la gelosia della madre…
«La presenza della balia ha contribuito a complicare ulteriormente il quadro psicologico: un rapporto in parte letteraturizzato per l’influenza di una poesia dedicata alla nutrice da d’Annunzio, ma fondato su un affetto vero e profondo, perdurato fino all’età matura, in contrapposizione alla anaffettività della madre naturale. E naturalmente va messa in conto anche la scoperta del sesso, l’esperienza dell’omosessualità o della bisessualità descritta in Ernesto , che sottintende una incertezza nella definizione della propria identità anche sessuale appunto. Sono tutti temi che tornano, spesso come sofferenza, in ogni stagione della poesia di Saba».
In che forma si presenta l’«ulissismo» di Saba?
«Ulisse è un eroe molto caro all’inquietudine novecentesca. Nella poetica di Saba il suo mito serve a trasfigurare la sensazione di non essere di casa in nessun luogo, con l’eccezione certo dell’amata Trieste, che ha costituito sempre un rifugio, specie dopo l’acquisizione della sua libreria antiquaria. Però anche qui l’umoralità e la suscettibilità esasperate di Saba facevano sì che fosse spesso ferito e urtato dagli altri, persino dai suoi amici più cari, come se anche negli affetti fosse costretto ad una peregrinazione continua. Dai circoli letterari fiorentini e romani nei quali ambiva a essere accolto, poi, non si è mai sentito accettato. Ecco, anche questo è stato vissuto da Saba come una sindrome di Ulisse».
Si ha continuamente l’impressione di un pendolarismo intimo tra marginalità (Trieste) e centro (il rapporto difficile con Firenze, e poi Milano, Parigi). Saba sembra un uomo profondamente solo ma circondato da tantissimi amici sempre pronti ad aiutarlo (non soltanto Montale).
«Sì, anche per il suo narcisismo estremo Saba ha sofferto di non essere adeguatamente considerato e riconosciuto come poeta, specie agli inizi, quando Slataper, con un vero e proprio equivoco critico, pensò di fare di lui un semplice emulo di Gozzano. Poi con gli anni Venti, grazie soprattutto a Debenedetti, Solmi, Montale, le cose cambiarono e tra le due guerre la sua fama si consolidò. Certo però rimaneva sempre un poeta appartato nella sua Trieste, dove era al centro di un cenacolo artistico numeroso e dove molti giovani andavano per conoscerlo, ma pur sempre un poeta che solo ogni tanto si faceva vedere negli ambienti che contavano. Tuttavia quanto fosse stimato e amato si vide dopo le leggi razziali e soprattutto dopo l’otto settembre del ’43, quando sarebbe certo finito in una camera a gas se non avesse potuto contare sull’aiuto di amici come Montale, Vittorini e altri».
Nonostante la
depressione che lo coglie in tarda età, e nonostante i messaggi
ultimativi (minacce di suicidio e minaccia di smettere precocemente
di scrivere), Saba lavora fino all’ultimo o quasi. Da cosa nasce
l’idea di tornare sul «Canzoniere» e di commentarlo?
«Storia e cronistoria del Canzoniere è uno straordinario esempio di autocommento, nato dalla convinzione di essere incompreso dalla critica del Dopoguerra e dagli alfieri dell’ermetismo. Si potrebbe perfino dire che un’opera straordinaria come questa, che più che spiegare il senso delle poesie costruisce un autoritratto dell’autore fra versi e prosa, sia nata inizialmente per impulso del complesso di persecuzione di Saba. E poi fino all’ultimo Saba ha scritto anche poesie: da “Mediterranee” a “ Sei poesie della vecchiaia” le appendici al Canzoniere vero e proprio regalano al lettore gli estremi gioielli della poetica sabiana».
L’opera di scarnificazione e di semplificazione è solo reazione alla retorica fascista?
«L’avversione al fascismo (dopo un’iniziale, momentanea simpatia) fu costante in Saba, anche se nel 1938 fu costretto al gesto umiliante di supplicare Mussolini perché risparmiasse lui e la sua famiglia, per meriti poetici, dall’applicazione delle leggi razziali. Una vera ossessione, da comunicare solo agli amici più stretti, fu la roboante propaganda del regime, odiatissima per l’invadenza ma anche per la tronfia retorica. E penso di sì, che non sia un caso se proprio negli anni Trenta la sua poesia prende la strada di una concisione linguistica, che tuttavia risentiva dichiaratamente del fascino esercitato da modelli come Ungaretti e Montale, in parte anche il giovane Penna».
Saba fu il primo poeta a confrontarsi con l’inconscio: quali conseguenze ebbe la «scoperta» della psicoanalisi?
«La psicoanalisi fu per Saba una scoperta totalizzante, cui si abbandonò con un’adesione quasi fideistica, al punto da interpretare ogni fatto della vita alla luce delle teorie di Freud. Dopo la cura intrapresa, tra il ’29 e il ’30, con lo psicanalista triestino Edoardo Weiss, che era stato allievo di Freud a Vienna, Saba accordò ancor più importanza ai traumi infantili che fin dalla prima giovinezza aveva ritenuto responsabili della propria inguaribile infelicità. Le poesie dei primi anni Trenta, raccolte nella sezione “Il piccolo Berto” del Canzoniere , sono incentrate proprio sulla scoperta dell’inconscio e del ritorno del rimosso, perciò pongono al centro la drammatica rappresentazione di uno strappo: la madre naturale che per gelosia lo sottrae con violenza, all’età di tre anni, all’amore di una madre più vera, cioè della balia, che il ragazzo tornerà a cercare nell’adolescenza. Ecco, la psicoanalisi ebbe, in fondo, l’effetto di convincerlo definitivamente che a causa delle ferite subite nella prima infanzia era destinato a scontare un’infelicità senza rimedio».
Come mai il
romanzo, quel tipo di romanzo che è «Ernesto», arriva solo alla
fine?
« Ernesto non è
soltanto la struggente confessione di una iniziazione sessuale
anomala, ma è anche la rievocazione di una stagione della vita e di
un’epoca tramontata, inimitabile, all’alba del Novecento. Saba
non poteva arrivare a scriverlo che con la libertà e col disincanto
della senilità: è un piccolo capolavoro e c’è da rammaricarsi
del fatto che oltre che anziano egli fosse allora troppo provato
dalla malattia nervosa e minato nel fisico dall’eccesso di farmaci
per riuscire a condurlo a termine».
Come si colloca la «funzione Saba» all’interno della poesia novecentesca? E con quali peculiarità?
«È vero, c’è nella poesia del Novecento una funzione Saba che si tende forse a sottovalutare. Un certo sabismo è evidente in poeti come Penna, Caproni, Bertolucci, Giudici, ma anche in Sereni è forte. Direi che se mettiamo insieme cantabilità del verso e fuga dall’enfasi del poetichese abbiamo già una tonalità in qualche misura sabiana».
Quando si pensa al meglio della poesia novecentesca, purtroppo pochi pensano a Saba. Nonostante la sua «leggibilità» e il notevole successo critico, qualcosa gli ha impedito (e ancora gli impedisce) di ottenere quel che meriterebbe. Come si spiega?
«Questa è la domanda più difficile di tutte. D’istinto direi che Saba non è mai stato, a differenza di altri poeti, un buon manager di se stesso. Una vera consacrazione l’ha ottenuta solo col premio Viareggio nel 1946 (peraltro ex aequo con un narratore viareggino come Silvio Micheli che oggi nessuno ricorda più), cioè quando aveva già sessantatré anni. Gli undici anni che gli restavano da vivere furono segnati dalla dipendenza dalla morfina e dai ripetuti ricoveri per crisi depressive. Quando ero ragazzo Saba era considerato uno dei classici della poesia del Novecento al pari di Ungaretti e Montale. Poi, è vero, la sua fortuna editoriale è un po’ calata, la sua fortuna critica è scesa ancora di più. Spero che il mio libro contribuisca a rendere giustizia a uno tra i massimi poeti italiani della modernità».
Il Corriere della sera – 20 giugno 2017
Nessun commento:
Posta un commento