Dall'Europa agli Stati
Uniti Marco Revelli analizza il fenomeno in crescita del populismo. Revelli omette di ricordare un concetto semplice e chiaro esposto recentemente dal filosofo tedesco J. Habermas: il populismo cresce perché la sinistra non lotta più contro le diseguaglianze.Il libro di Revelli, comunque, è interessante, la recensione un po' meno, soprattutto per
la fastidiosissima abitudine di
certi giornalisti di usare il nuovo latinorum (mood, stimmung,
ecc.) per stupire i semplici con lo sfoggio della propria erudizione.
Insomma, cialtronate che un giornale, attento
alla comunicazione, come il Manifesto, dovrebbe il più possibile evitare.
Marco Bascetta
Il contagioso virus
della società sfarinata
A cosa può servire una
categoria, o una definizione, che comprenda una molteplicità
talmente vasta ed eterogenea di fenomeni ed esperienze che si
accavallano e si contraddicono, si assomigliano e si distinguono
attraversando realtà geografiche e tempi storici diversi e
difficilmente paragonabili? È la domanda che siamo costretti a porci
non appena capiti di mettere le mani sul termine forse più
infestante del dibattito pubblico contemporaneo: populismo. Se lo si
maneggia da un punto di vista denigratorio o apologetico i contorni
si fanno certo più precisi.
Per l’establishment,
ossia le élites dominanti e i molti che ne dipendono, si tratta di
una demagogia distruttiva delle regole e delle forme della «civile
convivenza» in regime di libero mercato. Per quanti si proclamano
orgogliosamente populisti si tratta invece di un ritorno alla fonte
prima e legittima della sovranità, il popolo appunto, usurpata da
caste, oligarchie e poteri opachi e imperscrutabili. Sono però
enunciati, questi, che permangono in pieno regime di falsa coscienza.
La convivenza difesa dai primi è infatti tanto poco «civile»
quanto il popolo dei secondi è ben lontano dalla pratica di una
democrazia che possa dirsi diretta.
Che fare dunque? Si può
tentare di passare dal singolare al plurale, ma comunque l’album di
famiglia dei populismi resta alquanto confuso. Non si capisce bene
chi debba esservi incluso né a quali condizioni. Si può ricorrere
allo schema che più di ogni altro i populisti respingono: la
partizione tra destra e sinistra, distinguendo tra populismi di
stampo egualitario e populismi di ispirazione organicistica, ma anche
qui le linee finiscono col confondersi o col perdere ogni senso
comparativo.
Si può, infine,
tracciare confini temporali. Tanto per chiarire che se Masaniello e
Donald Trump ce l’hanno entrambi con le tasse, per il resto hanno
poco a che spartire tra loro. Distinguere tra un populismo classico
otto e primo novecentesco e un neopopulismo contemporaneo è, del
resto, assolutamente sensato.
Marco Revelli nel suo
ultimo lavoro (Populismo 2.0, Einaudi, pp.155, euro 12) si affaccia
brevemente su tutte queste possibilità senza, peraltro, affidarsi
interamente a nessuna. Ma ha poi davvero senso cercare un minimo
denominatore comune o un insieme di caratteristiche tali da conferire
alla nozione di populismo sufficiente rigore? O non è forse un
tempo, una fase, un passaggio storico (la crisi permanente in cui
viviamo nel nostro caso) piuttosto che una forma politica, una
ideologia, una dottrina o una precisa costellazione di soggetti a
sviluppare un certo senso comune, determinati umori e comportamenti?
Revelli coglie, a questo
proposito, un punto importante: il populismo – scrive – non è un
«ismo» come gli altri ma qualcosa di molto più impalpabile e
indefinito: «È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe
che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società
sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale».
Ed è precisamente questo
mood che Revelli insegue e cartografa attraverso le mappe elettorali
dei successi di Donald Trump negli Usa e di Marine Le Pen in Francia,
attraverso le affermazioni del Leave in Gran Bretagna e gli exploit
della destra xenofoba di Afd in Germania. Mappe che indicano la
«cattura» da parte di questi personaggi e schieramenti politici,
degli esclusi e dei «fregati», dei perdenti e dei passeggeri di un
ascensore sociale in continua e precipitosa discesa. In realtà
l’identikit sociologico di questo popolo del populismo è alquanto
incerto e precario. Vi si possono rintracciare tratti della classica
contrapposizione tra città e campagna, centro e periferia, ma questo
genere di polarità sembrano tutt’altro che esaurienti. I soggetti
che le popolano sono sottoposti a evidente instabilità e coltivano
labili convinzioni.
Ora, se assumiamo
effettivamente il termine populismo come la diffusione di
una Stimmung, una «tonalità emotiva», alimentata dagli
effetti della crisi e dalla prepotente arroganza del suo governo
oligarchico ne dobbiamo altresì registrare l’ambivalenza.
Convivono in questo stato d’animo nostalgie e volontà di
cambiamento, desiderio di autodeterminazione e bisogni di
affidamento, disincanto e credulità. Questo significa che «il
disagio e i conati di protesta» possono prendere strade diverse e
antitetiche. In altre parole, se il populismo non è un «ismo» come
gli altri lo si può considerare come uno stadio preliminare che
tende però rapidamente a diventarlo, traducendosi in nomi che
corrispondono a tradizioni e politiche tristemente identificate:
nazionalismo, razzismo, autoritarismo.
O, al contrario, in
esperimenti di democrazia partecipata che si sporgono oltre la crisi
della rappresentanza. Che la Francia incantata da Le Pen, l’America
di Trump, l’Ungheria di Orban, la Polonia, l’Inghilterra del
Brexit abbiano sciolto gran parte delle ambiguità sotto il segno del
nazionalismo (con tassi variabili di xenofobia) è fuori di dubbio.
Che vi prevalgano contenuti sociali o subalternità alle leggi del
neoliberismo non cambia molto quanto alla minaccia che rappresentano
per le libertà individuali e collettive.
Revelli prende in esame i
tre fattori che nell’analisi di Christa Deiwks costituirebbero
l’elemento comune a tutti i populismi. In primo luogo il popolo,
considerato come unità inscindibile e naturale, si contrappone, da
un lato, alla élite privilegiata che lo sovrasta e lo espropria,
dall’altro al corpo estraneo dei migranti che ne minerebbe
abitudini, sicurezze identità.
Il secondo fattore è la
convinzione di avere subito un torto, di essere caduti vittime di un
complotto di corrotti e lestofanti. Il che spiega anche il ruolo
salvifico attribuito al potere giudiziario. Il terzo momento chiama
in causa un potere «buono», vicino al sentire della «gente», cui
si affida il compito di cacciare gli usurpatori e ristabilire l’etica
popolare. Non è difficile riconoscere in questi tre fattori le
caratteristiche proprie del risentimento: l’assunzione del punto di
vista della vittima come criterio di verità e l’invocazione di un
redentore chiamato a ristabilire la giustizia «in nome del popolo».
Possiamo ora considerare
questi tratti comuni, non a una ideologia, a una proposta politica o
a un soggetto sociale, bensì a un’epoca, quella che ha visto la
controrivoluzione neoliberale affermarsi come governo della crisi.
L’unitarietà organica del popolo non è forse figlia di quella
messa al bando del conflitto dalla vita sociale e di quell’idea di
competitività che è la versione economicista del nazionalismo? E
l’idea di un salvatore che faccia «il bene del popolo» non è,
per caso, imparentata con la concezione postdemocratica delle élites
che «fanno il bene dell’economia»?
Il populismo
contemporaneo, allora, può considerarsi la forma, prescelta perché
ritenuta più manipolabile, verso la quale il paradigma dominante ha
cercato di sospingere le contraddizioni che andava generando
(Berlusconi e Trump ne sono gli esempi più illuminanti). Il che non
vuol dire che non possa sfuggire di mano, come accadde negli anni
Trenta.
La Stimmung di
cui parlavamo, tuttavia, non è affatto campata in aria o frutto di
un puro e semplice accecamento ideologico. La percezione
dell’espropriazione subita, il carattere parassitario del comando
capitalistico, le mostruose diseguaglianze, lo sfruttamento sempre
più intenso di una vita impoverita sono ben reali e radicate nelle
condizioni del presente. Miscelarle in un popolo cui far dire quel
che si vuole e cui sacrificare le nostre molteplici ragioni è la
premessa sicura di una qualche forma postmoderna di fascismo. Ma a
partire da queste contraddizioni si può prendere tutt’altra strada
quella lungo la quale le intelligenze produttive dei molti
costruiscano autonomia, autorganizzazione, potere.
Il manifesto – 3 maggio 2017
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