Una delle ultime foto di Amadeo Bordiga
Nonostante negli
ultimi anni ci sia stata una ripresa di interesse, quasi una scoperta
verrebbe di dire, nei confronti di Amadeo Bordiga, la figura del
fondatore del Partito comunista resta ancora poco conosciuta al di
fuori della piccola cerchia degli studiosi e dei militanti d'area. Il
mai abbastanza rimpianto Sandro Saggioro aveva cercato di ovviare a
questa mancanza aprendo un blog (“Avanti barbari”) in cui
raccogliere materiali altrimenti introvabili. Un lavoro prezioso che,
dopo la sua prematura scomparsa e il recente oscuramento del sito,
rischia di andare del tutto perduto. Siamo riusciti a salvare gran
parte di quei materiali che intendiamo ripubblicare perchè
continuino ad essere reperibili in rete. Iniziamo da un'intervista
concessa a Giuseppe Fiori (giornalista allora conosciutissimo e
autore tra l'altro di una bella biografia di Antonio Gramsci) apparsa
su La Stampa nel maggio 1970. E' con quella rilasciata negli stessi
giorni ad Edek Osser l'ultima intervista di Bordiga che morirà due
mesi più tardi.
Giuseppe
Fiori
Il
vecchio Bordiga, oggi
Ha compiuto
ottant'anni, Gramsci gli tolse nel '26 la direzione del partito, ne
fu espulso da Togliatti; eppure non cede. Grida: «Sono stato io a
buttarli fuori» e rifiuta di riconoscere i "riformisti"
del pci. Afferma che l'unico movimento rivoluzionario è il suo
partito comunista internazionale, con mille seguaci. L'incontro con
Lenin dopo la marcia su Roma.
Napoli,
maggio (Dal nostro inviato speciale)
Vicino
agli ottantun anni e afflitto da disturbi circolatori, Amadeo Bordiga
è costretto quasi all'inattività. Riesce a star seduto, ma la
posizione l'affatica. E' un corpaccione afflosciato. Poggia i piedi
gonfi su un cuscino e l'ampio torace alle mani annodate
sull'impugnatura di un bastone che gli fa da puntello. Ci vede poco,
le figure sono filtrate da lenti molto spesse.
«Tu»,
subito il tu che invita al rapporto confidenziale, «hai scritto un
mucchio di ...», e qui un'espressione plebea, «ma non sei una
carogna».
Contro
Terracini
Come
accoglienza non è poi tanto male. Ci avevano avvertito. Da
venticinque anni Bordiga rifiuta le interviste, non ama i
giornalisti, li giudica tutti «mercenari». Che abbia acconsentito a
vederci, è quindi un fatto già di per sé incoraggiante.
D'origine
piemontese, figlio d'un professore d'economia rurale a Portici ed
anch'egli, dopo la laurea in ingegneria, assistente a Portici di
meccanica agraria, ebbe un ruolo preponderante nella fondazione del
partito comunista d'Italia e lo diresse, capo incontrastato, sino al
ritorno di Gramsci da Mosca e Vienna nel '24. Un po' tutti ne
subivano il fascino, compresi gli uomini dell' Ordine Nuovo, di
formazione culturale assai diversa.
Il primo a
staccarsene fu Gramsci, che però del leader napoletano ammirava la
«personalità vigorosa», l'ingegno, l'intraprendenza e il carattere
«tenace ed inflessibile». Quando il Comintern gli propose di
prenderne il posto alla guida del partito, ebbe inizialmente forti
esitazioni: «Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisogna
avere più di un elemento perchè Amadeo, effettivamente, come
capacità generale di lavoro, vale almeno tre». Più lenti a
respingere le posizioni schematiche e settarie di Bordiga furono
altri «ordinovisti» e Gramsci, una volta fatta la sua scelta sulla
linea dell'Internazionale, non mancò di dolersene: «Togliatti non
sa decidersi, com'era un po' sempre nelle sue abitudini; la
personalità di Amadeo lo ha fortemente colpito e lo trattiene a
mezza via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli
puramente giuridici». Ancora più duro Gramsci fu con Terracini: «E'
fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perchè ne ha
sorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il
senso pratico e la capacità organizzativa».
Poco più
che trentenne, Bordiga era stato il primo dirigente comunista
italiano a conoscere e a scontrarsi con Lenin, il quale tuttavia ne
aveva grande stima. Si videro per l'ultima volta pochi giorni dopo
l'ascesa di Mussolini al potere. Di quest'incontro abbiamo adesso la
testimonianza diretta.
«Si
svolgeva a Mosca» ci racconta il vecchio capo, «il IV Congresso
dell'Internazionale. Gli altri della delegazione italiana avevano
lasciato l'Italia prima della "marcia" su Roma. Io fui
l'ultimo a partire, e questo avvenne dopo il 28 ottobre. Lenin era
malato: si diceva che non ce l'avrebbe fatta a venire al congresso.
Preoccupato, chiesi di vederlo. Non era facile, perchè i medici gli
avevano sconsigliato i colloqui prolungati e le discussioni
politiche. Ma all'improvviso mi fu concesso di fargli visita, Lenin
voleva conoscere da me gli avvenimenti italiani, e proposi a Camilla
Ravera di accompagnarmi. Vennero anche D'Onofrio e Silone. Non
poterono salire e s'accontentarono di aspettare giù in attesa.
Ricordo che Lenin ci accolse non a letto ma nel suo studio. Ce
l'aveva, scherzosamente si capisce, con i medici, molto severi nel
controllargli la durata dei colloqui coi compagni».
Umberto Terracini
I
tre nemici
Parla
torrentizio, mangiandosi le parole, e si fatica a seguirlo: «Subito
mi chiese un rapporto sui fatti d'Italia. Gli dissi della "marcia"
su Roma, dell'incarico dato dal re a Mussolini di formare il governo
eccetera; poi aggiunsi la mia interpretazione degli avvenimenti».
Secondo il
capo del pcd'I, fascisti e liberali andavano messi nello stesso
mucchio, tutti nemici di classe, tutti ugualmente difensori
dell'ordine capitalistico: Mussolini valeva Giolitto o Turati, e
dunque dov'era il fatto nuovo se un partito borghese, quello
fascista, prendeva il posto d'altri partiti borghesi alla guida del
governo? Del resto, in ciò Bordiga era seguito da Terracini, che
giudicava la "marcia" su Roma e l'affidamento del potere a
Mussolini «una crisi ministeriale un po' mossa», e da Togliatti,
per il quale il «tiranno bieco» da combattere aveva «un solo
aspetto e un triplice nome: Turati, don Sturzo e Mussolini».
Non
riusciamo a sapere da Bordiga se Lenin ebbe qualcosa da obiettare a
simile interpretazione. «Mi chiese come avessero reagito gli operai.
Gli raccontai i molti episodi di lotta avvenuti in luoghi diversi per
respingere le violenze fasciste. Allora Lenin ci esortò a mantenere,
ed anzi ad accrescere, i contatti con le masse. Prevedeva che saremmo
andati incontro a momenti difficili. Si parlava appunto di questo,
quando entrò la moglie. Dovevamo accomiatarci: il tempo concesso dai
medici per il colloquio era scaduto».
Ebbe
inizio il declino di Bordiga, sino alla definitiva sconfitta nel
congresso di Lione (gennaio del '26). Poi l'arresto, il 10 ottobre
del '27, l'assoluzione due anni dopo e l'invio a Ponza, confinato.
«Ripresi
a fare l'ingegnere» ricorda.. «I ponzesi erano piuttosto causidici,
litigavano per questioni di confine dei terreni, e se una famiglia si
affidava per la perizia a Peppino Romita, altro ingegnere confinato,
la controparte veniva da me. Facevo anche progetti di case. Ma un
giorno ci chiamano in Comune: "I vostri progetti non potranno
più essere approvati". E perchè mai? Il confinato ha l'obbligo
di lavorare. Deve mettersi forse in un mestiere che non sa?
Inoltrammo ricorso al ministero dell'Interno. La risposta: picche.
Liberato nel '30 tornai a Napoli. Vita difficile: i clienti per paura
s'allontanavano».
Trotsky in Messico poco prima di essere assassinato
L'esule
Trockij
Intanto
Bordiga, sempre più in contrasto col nuovo gruppo dirigente guidato
da Togliatti, era stato espulso dal pci. E qui cade opportuna una
domanda. A quel tempo, Trockij viveva a Royan, nei pressi di
St-Palais (Gironda). Alfonso Leonetti, altro dirigente espulso, era
andato a trovarlo. Sentì chiedersi: «Perchè Bordiga non viene a
darci una mano?». «Trasmisi l'appello all'ex capo del partito», ci
ha testimoniato Leonetti, «ma non ne ebbi risposta». Chiediamo
dunque: «Come mai, dopo che foste espulso...».
Non ci
lascia terminare, «Io», esplode, «non sono mai stato espulso». Lo
grida con tutta la sua antica vigoria, è squassato da un impeto
d'ira. Ha sollevato il bastone, lo agita a mulinello davanti al
nostro viso, tutto il corpo vibra «Sono stato io a buttarli fuori
quei...» e giù una tempesta di parole triviali.
Emerge
infine un lato insospettabile della sua personalità. Le nuove
generazioni quasi ne ignorano il nome. Sino a pochi anni fa, le
storie ufficiali tacevano la parte dominante da lui avuta nella
formazione del partito. Chissà quanti lo credono morto, tanto a
lungo s'è fatto silenzio intorno alla sua figura. In ogni caso,
un Bordiga direttamente impegnato nella lotta politica quarant'anni
dopo il suo ritiro dalla milizia di partito chi poteva immaginarselo?
Eppure è
così. Il fondatore del partito comunista d'Italia si considera ancor
oggi il capo dell'unico vero partito comunista operante nel paese. Ha
«buttato fuori» Togliatti e soci, i cui eredi gestiscono «un
partito riformista». («Gli avvenimenti storici hanno dimostrato che
avevo ragione io», sostiene) e dopo «l'espulsione» dei «traditori»
ecco, depurato della frangia «opportunista», il solo partito
rivoluzionario d'Italia, il suo, quello più seriamente ispirato ai
testi classici del marxismo, il «partito comunista internazionale».
Ha un migliaio di seguaci («il numero non m'interessa», dice), in
generale vecchi emigrati politici che gli sono rimasti fedeli.
Pubblica un quindicinale, «il programma comunista», un mensile di
lingua francese, «Le proletaire» ed un periodico in lingua danese
«Kommunistik Program». Le tesi attuali del «Partito comunista
internazionale»? Esattamente quelle del 1921-22.
Tifo
sportivo
Ripensiamo
ad una battuta riferitaci in apertura di colloquio; di Zinoviev che
diceva, per definire l'ostinato dirigente napoletano: «E' un palo
telegrafico. Dov'è piantato, dopo dieci anni lì lo trovate». Lo
abbiamo ritrovato lì dopo cinquant'anni. E ancora non s'arrende. «Al
lavoro di partito non rinunzio anche se mi dicessero che dopo
due ore muoio».
L'assiste,
leggendogli i giornali e scrivendo sotto dettatura lettere e
articoli, Antonietta De Meo, che ha sposato cinque anni fa, dopo la
morte della prima moglie Ortensia, sorella di Antonietta. Oltre la
politica, ha una sola passione, rivelata da questo episodio. Gli
telefona Sergio Zavoli, chiedendogli un'intervista per la
televisione. Il vecchio rivoluzionario, puntigliosamente sfuggito per
decenni a fotografi e cineprese, risponde immediatamente di sì; ma
non all'intervistatore di Von Braun, Schweitzer, Follerau, accetta di
ricevere l'animatore del «Processo alla tappa», ritrattista di
ciclisti. I campioni della bicicletta hanno in Bordiga un ammiratore
fervido. «Prima che si iniziassero le riprese» sappiamo da Zavoli,
«a lungo mi ha parlato di Lenin, Gimondi, Stalin, Trotckij e Motta».
La Stampa,
16 maggio 1970
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