Disegno di F. Kafka
I morti non hanno potere
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Rileggo alcune
lettere di Franz Kafka ai suoi amici, ai suoi genitori, alle sue donne, alla
sorella Ottla e mi rendo conto di come la discrezione, il pudore, la volontà di
restare dietro le quinte alimentino la tonalità maggiore dell’epistolario: il
suo stile pieno di humour, di sfumature malinconiche e bizzarre, di distacco
carico di comprensione per gli elementi apparentemente più infimi del mondo.
Ogni lettera sembra
trasformarsi in un tentativo di gettare ponti levatoi verso la vita degli
altri, di uscire dal castello dei propri fantasmi per partecipare alla guerra
dei fantasmi altrui, per poi, all’ultimo, sottrarsi allo scontro
decisivo.
La metafora della
guerra, del resto, è assai presente. A Max Brod, Kafka, già molto malato,
scrive:
Sì, è credibile
che la tubercolosi venga arginata, tutte le malattie finiscono con il venir
arginate. Lo stesso avviene nelle guerre, ciascuna è portata a termine e
nessuna finisce.
Non si tratta di
viltà o di disperazione. Che senso ha disperarsi se nessuna guerra, come
nessuna malattia, finisce, ma può essere solo «portata a termine»? Lo stesso si
potrebbe dire delle altre guerre che Kafka ha condotto nel corso della sua
esistenza: la guerra con il padre, la guerra con il mondo femminile, la guerra
con la letteratura… Tutte queste guerre l’autore de Il processo le ha
arginate e «portate a termine» grazie a un’ostinata strategia difensiva.
Adorno ha affermato
una volta che Kafka non predicava l’umiltà, bensì «l’astuzia». Kafka non era,
come il suo grande amico Max Brod sosteneva, «un santo del nostro tempo»: la
sua modestia «soprannaturale» non gli ha impedito di frequentare i bordelli e
neppure di scoprire nei suoi romanzi la sessualità – occultata per tutto il XIX
secolo – come parte integrante, perfino banale, dell’esistenza.
La sua umiltà è
un’astuzia per disertare il mondo al fine di meglio esplorarlo. Da qui si
comprende la tonalità maggiore delle lettere, quel suo distacco pieno di humour.
Ma allo stesso tempo
mi suggerisce la distanza che separa la sua biografia dalla sua opera:
l’immaginario erotico che produce il coito tra K. e Frieda sul pavimento
coperto di sporcizie e pozze di birra del Castello non traspare nelle
lettere alle sue amate. Per entrare nella fortezza dell’opera, Kafka ha bisogno
di sottrarsi in anticipo alla guerra dei fantasmi altrui.
In un racconto, Una
vecchia pagina, che fa parte della raccolta Un medico condotto,
un calzolaio, che ha il suo laboratorio nella piazza dove si erge il palazzo
dell’Imperatore, è impaurito dall’arrivo di un popolo nomade e barbaro. I
costumi e le usanze di quelle genti gli sono incomprensibili. Non sembrano
neppure possedere una lingua. Rubano e divorano tutto. Il calzolaio segue da
vicino quello che il macellaio di fronte è obbligato a compiere per salvarsi:
Ultimamente il
macellaio pensò di potersi risparmiare almeno la fatica di macellare, e al
mattino portò un bue vivo. Non deve assolutamente rifarlo. Per un’ora io rimasi
disteso sul pavimento in un angolo del mio laboratorio, e mi ammucchiai addosso
tutti i miei vestiti, le coperte e i guanciali pur di non sentire i muggiti di
quel bue che i nomadi assalivano da ogni parte per strappargli coi denti
brandelli di carne viva.
Nell’Altro
processo, Elias Canetti, commentando questo passaggio, si domanda: «Si può
dire davvero che il narratore si sottrasse all’intollerabile?».
Il calzolaio,
durante il massacro del bue, si stende al suolo come un morto e cerca di
sparire in un angolo sotto una montagna di vestiti, di coperte e di guanciali.
Desidera essere morto, o almeno di farsi piccolo per diminuire la sua massa
corporea e sottrarre così potere agli altri e a se stesso. I morti non
hanno potere. E spesso neppure gli animali, anche se sono vivi.
Per questa ragione,
afferma Canetti, nell’opera di Kafka l’uomo si trasforma spesso in un animale,
a volte in un piccolo animale inoffensivo. Kafka sa che cosa significa essere
un piccolo animale perché conosce bene ciò che egli stesso ha definito una
volta, in una lettera a Felice, «l’angoscia della posizione eretta», posizione
che è a fondamento di ogni potere dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sull’animale…
Non dobbiamo andare
troppo fieri della nostra posizione eretta, scrive Kafka a Felice. Perciò, per
cercare di sottrarsi ai diktat di ogni potere, foss’anche quello
dell’amata, e per vincere la sua guerra con la letteratura, Franz Kafka, che
per scrivere aveva bisogno di sentirsi «un uomo morto», si trasformò per sempre
nella nostra memoria in qualcosa di ancora più insignificante, senza peso, in
uno «scarabeo stercorario», se diamo ascolto all’entomologo Vladimir V.
Nabokov…
Il caso, questo
giudice infallibile delle nostre esistenze, ha voluto che, terminata la lettura
delle lettere di Kafka, mi capitasse tra le mani l’ultimo romanzo incompiuto di
Vladimir Nabokov, L’originale di Laura.
Nel libro c’è la
storia di Flora (Laura, FLaura), figlia di un fotografo suicida e di una
ballerina. La ragazza è sposata con Philip Wild, un neurologo benestante di
«straordinaria grassezza», che sta scrivendo un romanzo la cui «struttura
segreta» rimanda alla «mirabile struttura ossea» di Flora. Questa, fin dalla
sua età prepuberale, ha dovuto subire approcci dagli amanti della madre (fra i
quali quello, esilarante, di Hubert H. Hubert, un patetico charmeur),
per cui la sua strada è segnata. Tuttavia:
tutto riguardo a
lei è destinato a rimanere vago, persino il nome che sembra essere stato
concepito per riceverne un altro su di esso plasmato da un artista
straordinario.
Ma non solo il nome
della protagonista è vago: tutto lo è. Ovvero tutto è incerto. Cervantinamente
incerto. Al capitolo cinque scopro, ad esempio, che esiste un romanzo, La
mia Laura, il cui io narrante è «un uomo di lettere nevrotico che
distrugge la donna amata facendone il ritratto» (da un particolare si sospetta
che la Laura del romanzo sia Flora o FLaura). Philip Wild, che lo sta leggendo,
si riconosce (proprio come un personaggio di Cervantes) in uno dei personaggi:
Philidor Sauvage.
Il capitolo
successivo apre un altro scenario che durerà con alcune interferenze fino alla
fine: leggiamo gli appunti che Wild sta tenendo su alcuni suoi esperimenti
mentali lo scopo fondamentale dei quali è «imparare a usare il vigore del corpo
per un fine che è la sua stessa distruzione».
La sorpresa è sempre
stata alla base dello stile poetico del romanziere Nabokov! Scopo dell’arte non
è forse stato per lui produrre nel lettore quel reiterato vibrato estetico,
quel brivido lungo la colonna vertebrale che è una delle più grandi conquiste
di Homo sapiens? Solo che in questo caso il puzzle non è completo, per
cui la via maestra per entrare nel romanzo è ostruita.
Perché, mi domando,
pubblicare un libro incompiuto del maestro Nabokov, così allergico a ogni
improvvisazione e per il quale «solo le nullità ambiziose e le mediocrità
esuberanti mettono in mostra le loro brutte copie»?
Nell’introduzione al
volume, il figlio Dmitri, erede testamentario, espone le ragioni della sua
scelta. Dopo Cose trasparenti (1972), Intransigenze (1973) e Look
at the Arlequins! (1974), nel 1975, nel quattordicesimo anniversario del
suo soggiorno svizzero a Montreux, Nabokov inizia a scrivere un altro romanzo:
«Un capolavoro embrionale – riporta Dmitri – i cui bozzoli cominciavano a
trasformarsi in crisalide qua e là sulle sue onnipresenti schede».
La salute di
Nabokov, nel 1975, è malferma. E peggiora inspiegabilmente. Consulti, corse
all’ospedale. Poi, un’infreddatura, una bronchite e la morte improvvisa il 2
luglio del 1977.
Dmitri testimonia
che Nabokov lavora alla stesura del romanzo in modo febbrile fino alla fine,
indifferente al mondo esterno come al dolore. Un giorno, sentendo venir meno le
forze e l’ispirazione, ha un colloquio «molto serio» con la moglie: nel caso
fosse morto senza portare a termine il romanzo, il manoscritto di Laura avrebbe
dovuto essere bruciato. La moglie disobbedisce e chiude in cassaforte il
manoscritto.
La moglie Vera muore
nel 1991. Il tempo passa. Fino a quando Dmitri apre la scatola che contiene le
schede del padre. La prima lettura lo entusiasma. Il testo, «nonostante la sua
incompiutezza, appariva senza precedenti per struttura e stile, scritto in una
lingua nuova». Dmitri non pensa assolutamente di dare alle fiamme il
manoscritto. Anch’egli disobbedisce. Il figlio afferma che dopo aver convissuto
anni con l’ombra del padre, si è convinto che egli non si sarebbe opposto alla
pubblicazione. È una convinzione che va rispettata. Ma mi chiedo: se al figlio
riesce impossibile concepire la morte del padre tanto da sentirne ancora i
suggerimenti, perché non prolungarne la presenza restando fedele alla sua
volontà? Certo, restare fedeli alle ultime volontà di un morto è un atto
misterioso. I morti sono indifesi, fragili, non hanno nessun potere. Parlano in
una lingua incomprensibile, onirica, che solo l’amore dei vivi riesce a volte a
decifrare.
È per il suo affetto
smisurato nei confronti di Kafka che Max Brod non rimase fedele alle due
lettere dell’amico dove l’autore de Il Processo precisava ciò che alla
sua morte doveva essere distrutto. È per la venerazione nei suoi confronti che
l’opera di Danilo Kiš, l’ultimo scrittore jugoslavo, che si è sempre battuto
contro un’idea «etnica», «minoritaria» della letteratura, viene spacciata dai
suoi ammiratori serbi come un prodotto autoctono. È per amore della filologia
che i critici francesi frugano in archivi e biblioteche per resuscitare le
prime opere di Claude Simon, che egli in vita aveva rifiutato.
L’amore è cieco e i
morti non possono nulla, soprattutto gli autori la cui opera supera la loro
vita. Ma se l’opera supera la loro vita, ciò significa che le creazioni che non
hanno voluto pubblicare devono perseguitarli dopo la morte?
Il rischio insito
nella pubblicazione di opere non autorizzate dall’autore – incluso i diari, gli
epistolari, concepiti stranamente alla stregua delle opere – è un tradimento. E
inoltre riduce l’arte a un documento della biografia.
Le opere si
trasformano così in quelle pallottole di sterco per scarabei eruditi intenti a
trasportare il loro prezioso alimento il più lontano possibile dai lettori di
romanzi.
Testo ripreso da https://rebstein.wordpress.com/2018/11/16/i-morti-non-hanno-potere/
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