03 novembre 2018

LABIRINTO: un archetipo della condizione umana


Figura archetipale il simbolo del labirinto si ritrova in tutte le culture dalle incisioni rupestri a Borges, passando per Dante e Nietzsche.
Alberto Manguel
Dacci oggi il labirinto quotidiano

Possiamo incolpare Pitagora e i suoi discepoli per la nostra concezione manichea del mondo in cui tutto deve essere in coppia, come gli animali nell’arca. Su e giù, sinistra e destra, giusto e sbagliato, maschio e femmina: siamo incapaci di concepire qualsiasi cosa senza il suo contrario. È inutile che gli astrofisici ci dicano che l’universo contiene non quattro ma undici dimensioni, che il tempo non scorre convenientemente dal passato al futuro e che tutti i punti nello spazio (e nel tempo) esistono simultaneamente. Noi insistiamo a credere, a dispetto di Zenone, in una linea retta che va dal punto A al punto Z, e che se la seguiamo con risolutezza raggiungeremo la nostra destinazione.
Sant’Agostino, nella Città di Dio,contrapponeva all’ordinata croce di Cristo il labirinto circolare degli stoici. L’immagine implica una configurazione chiara e lineare del mondo, ma al contempo nasconde il riconoscimento inconscio della sopravvivenza del labirinto pagano. Se la croce, con la sua segnaletica simmetrica, risponde al bisogno d’ordine nel mondo della veglia, il labirinto rispecchia il caos creativo che ci è concesso nei sogni.
L’esempio arcinoto di labirinto è quello di Creta, costruito da Dedalo per il re Minosse per metterci dentro il suo mostro taurino, ma gli esempi abbondano in altre antiche civiltà. Erodoto, nel secondo libro delle sue Storie, allude a un labirinto egiziano che descrive come «un’opera di grandezza più che umana».
L’Egitto era per Erodoto la terra di tutte le meraviglie: sembra appropriato quindi che contenesse una casa diversa da ogni altra, apparentemente infinita e senza scopo, porte o finestre. Per gli egiziani, forse, il labirinto era un accesso idoneo all’aldilà; un poema anglosassone del XII secolo condensa il luogo intricato e descrive con le stesse parole non un labirinto ma una tomba, «una casa senza porte e oscura al suo interno».
Applicato alle sale d’ingresso della Morte, il labirinto appare un’invenzione appropriata. Applicato alla vita, appare orribile. In tempi più vicini ai nostri, Chesterton criticò la poesia di Swinburne e disse che «non è nemmeno uno schema concentrico chiaro come un labirinto; è piuttosto un labirinto senza un centro». Questa immagine terrificante, se applicata alle nostre peregrinazioni terrene, implicherebbe che il mondo di cui il labirinto è l’emblema in sostanza non ha uno scopo e nemmeno un nucleo visibile, o almeno non uno che noi mortali siamo in grado di discernere.
Di fronte alla visione finale, come dice Dante, «a l’alta fantasia qui mancò possa»: noi umani non siamo capaci di un potere di discernimento tanto acuto. Forse perché il labirinto riflette cupamente questa intuizione dell’inconoscibile, il cristianesimo decise (con buona pace di Sant’Agostino) di recuperare il simbolo pagano. Il primo esempio di labirinto cristiano appare in un pavimento del quarto secolo nella basilica di San Reparato, in Algeria; seicento anni dopo, nella cattedrale di Chartres, fu posato sul pavimento un labirinto di pietra calcarea e marmo nero notte, per concedere ai pellegrini un’alternativa all’oneroso viaggio a Gerusalemme. Per i fedeli, camminare su questo labirinto un numero prestabilito di volte divenne equivalente al pellegrinaggio di miglia e miglia verso la Terra Santa: per questo motivo, nel XVIII secolo, i labirinti di Sens, Arras, Reims, Saint-Quentin e altri erano noti come chemins de Jérusalem.
La maggior parte di questi labirinti cristiani ha undici percorsi circolari, forse perché Sant’Agostino aveva lasciato intendere che il numero undici era imperfetto (non essendo né il tre della Trinità né il dodici degli apostoli) e quindi costituiva un richiamo appropriato alla natura peccatrice dell’uomo e alla redenzione promessa. Seguendo un numero imperfetto di sentieriverso un ineffabile centro, il pellegrino può essere mondato dai peccati del mondo prima di entrare alla presenza del Signore.
Il caos del mondo, visto come un labirinto nel quale siamo costretti a perderci, assomiglia per molti versi all’architettura dei sogni. Gérard de Nerval, in Viaggio in Oriente, descriveva la vita nelle città dell’Oriente come un labirinto confuso e paragonava il vagabondarci attraverso all’essere trasportati in una città in rovina di un lontano passato, popolata solo da fantasmi che la abitano senza darle vita. Se la vita è un sogno, è un sogno in cui girovaghiamo per corridoi infiniti, girando a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, verso una meta destinata a rimanere sempre sconosciuta.
Borges naturalmente, e il suo maestro Chesterton, ma anche, in secoli precedenti, Ronsard, Juan de Mena, La Fontaine, e più tardi Joyce, D’Annunzio, Umberto Eco, hanno fatto ricorso al labirinto per descrivere le circonlocuzioni non solo della vita, ma anche dell’amore, del terrore, dell’esplorazione e dello smarrimento. Franco Maria Ricci, editore, mecenate e amico di Borges, costruì in suo onore il più grande labirinto del mondo contemporaneo, composto da oltre 200.000 alberi di bambù, onorando allo stesso tempo uno dei simboli principali dell’opera di Borges e il bambù di cui è fatta la canoa del mago del sogno nelle Rovine circolari. Borges stesso, sempre smanioso di cimentarsi con il punto di vista opposto, nella Morte e la bussola fa tessere all’assassino un labirinto di quattro angoli per la sua vittima, il detective Erik Lönnrot, e poi, prima di sparargli, gli promette che dopo la morte di Lönnrot, nel loro prossimo incontro, costruirà un labirinto che sarà composto soltanto di una linea, «invisibile e incessante».
Un labirinto può essere convenzionalmente circolare (il classico labirinto di Dedalo), inscritto in un quadrato o in un ottaedro (nella tradizione cristiana), privo di qualsiasi forma distinguibile (come la via che porta al Castello di Kafka), esteso nel tempo piuttosto che nello spazio (nelle opere di Stanislaw Lem e Ursula K. Le Guin), o che segue una linea retta (in Zenone e in Borges). Qualunque sia la sua natura, un labirinto è un simbolo che riconosciamo come necessariamente vero.
Nietszche, nella Gaia scienza, tentò di spiegare l’inevitabilità del labirinto: «Chi scruta entro se stesso come in un immenso spazio cosmico e porta in sé vie lattee sa anche come siano irregolari tutte le vie lattee: esse conducono dentro al caos e al labirinto dell’esistenza».
Traduzione di Fabio Galimberti
La Repubblica – 4 ottobre 2018

Nessun commento:

Posta un commento