Figura archetipale il
simbolo del labirinto si ritrova in tutte le culture dalle incisioni
rupestri a Borges, passando per Dante e Nietzsche.
Alberto Manguel
Possiamo incolpare Pitagora e i suoi discepoli per la nostra
concezione manichea del mondo in cui tutto deve essere in coppia,
come gli animali nell’arca. Su e giù, sinistra e destra, giusto e
sbagliato, maschio e femmina: siamo incapaci di concepire qualsiasi
cosa senza il suo contrario. È inutile che gli astrofisici ci dicano
che l’universo contiene non quattro ma undici dimensioni, che il
tempo non scorre convenientemente dal passato al futuro e che tutti i
punti nello spazio (e nel tempo) esistono simultaneamente. Noi
insistiamo a credere, a dispetto di Zenone, in una linea retta che va
dal punto A al punto Z, e che se la seguiamo con risolutezza
raggiungeremo la nostra destinazione.
Sant’Agostino,
nella Città di Dio,contrapponeva all’ordinata croce di Cristo
il labirinto circolare degli stoici. L’immagine implica una
configurazione chiara e lineare del mondo, ma al contempo nasconde il
riconoscimento inconscio della sopravvivenza del labirinto pagano. Se
la croce, con la sua segnaletica simmetrica, risponde al bisogno
d’ordine nel mondo della veglia, il labirinto rispecchia il caos
creativo che ci è concesso nei sogni.
L’esempio arcinoto di
labirinto è quello di Creta, costruito da Dedalo per il re Minosse
per metterci dentro il suo mostro taurino, ma gli esempi abbondano in
altre antiche civiltà. Erodoto, nel secondo libro delle sue Storie,
allude a un labirinto egiziano che descrive come «un’opera di
grandezza più che umana».
L’Egitto era per
Erodoto la terra di tutte le meraviglie: sembra appropriato quindi
che contenesse una casa diversa da ogni altra, apparentemente
infinita e senza scopo, porte o finestre. Per gli egiziani, forse, il
labirinto era un accesso idoneo all’aldilà; un poema anglosassone
del XII secolo condensa il luogo intricato e descrive con le stesse
parole non un labirinto ma una tomba, «una casa senza porte e oscura
al suo interno».
Applicato alle sale
d’ingresso della Morte, il labirinto appare un’invenzione
appropriata. Applicato alla vita, appare orribile. In tempi più
vicini ai nostri, Chesterton criticò la poesia di Swinburne e disse
che «non è nemmeno uno schema concentrico chiaro come un labirinto;
è piuttosto un labirinto senza un centro». Questa immagine
terrificante, se applicata alle nostre peregrinazioni terrene,
implicherebbe che il mondo di cui il labirinto è l’emblema in
sostanza non ha uno scopo e nemmeno un nucleo visibile, o almeno non
uno che noi mortali siamo in grado di discernere.
Di fronte alla visione
finale, come dice Dante, «a l’alta fantasia qui mancò possa»:
noi umani non siamo capaci di un potere di discernimento tanto acuto.
Forse perché il labirinto riflette cupamente questa intuizione
dell’inconoscibile, il cristianesimo decise (con buona pace di
Sant’Agostino) di recuperare il simbolo pagano. Il primo esempio di
labirinto cristiano appare in un pavimento del quarto secolo nella
basilica di San Reparato, in Algeria; seicento anni dopo, nella
cattedrale di Chartres, fu posato sul pavimento un labirinto di
pietra calcarea e marmo nero notte, per concedere ai pellegrini
un’alternativa all’oneroso viaggio a Gerusalemme. Per i fedeli,
camminare su questo labirinto un numero prestabilito di volte divenne
equivalente al pellegrinaggio di miglia e miglia verso la Terra
Santa: per questo motivo, nel XVIII secolo, i labirinti di Sens,
Arras, Reims, Saint-Quentin e altri erano noti come chemins de
Jérusalem.
La maggior parte di
questi labirinti cristiani ha undici percorsi circolari, forse perché
Sant’Agostino aveva lasciato intendere che il numero undici era
imperfetto (non essendo né il tre della Trinità né il dodici degli
apostoli) e quindi costituiva un richiamo appropriato alla natura
peccatrice dell’uomo e alla redenzione promessa. Seguendo un numero
imperfetto di sentieriverso un ineffabile centro, il pellegrino può
essere mondato dai peccati del mondo prima di entrare alla presenza
del Signore.
Il caos del mondo, visto
come un labirinto nel quale siamo costretti a perderci, assomiglia
per molti versi all’architettura dei sogni. Gérard de Nerval,
in Viaggio in Oriente, descriveva la vita nelle città
dell’Oriente come un labirinto confuso e paragonava il vagabondarci
attraverso all’essere trasportati in una città in rovina di un
lontano passato, popolata solo da fantasmi che la abitano senza darle
vita. Se la vita è un sogno, è un sogno in cui girovaghiamo per
corridoi infiniti, girando a destra, poi a sinistra, poi ancora a
destra, verso una meta destinata a rimanere sempre sconosciuta.
Borges naturalmente, e il
suo maestro Chesterton, ma anche, in secoli precedenti, Ronsard, Juan
de Mena, La Fontaine, e più tardi Joyce, D’Annunzio, Umberto Eco,
hanno fatto ricorso al labirinto per descrivere le circonlocuzioni
non solo della vita, ma anche dell’amore, del terrore,
dell’esplorazione e dello smarrimento. Franco Maria Ricci, editore,
mecenate e amico di Borges, costruì in suo onore il più grande
labirinto del mondo contemporaneo, composto da oltre 200.000 alberi
di bambù, onorando allo stesso tempo uno dei simboli principali
dell’opera di Borges e il bambù di cui è fatta la canoa del mago
del sogno nelle Rovine circolari. Borges stesso, sempre smanioso
di cimentarsi con il punto di vista opposto, nella Morte e la
bussola fa tessere all’assassino un labirinto di quattro
angoli per la sua vittima, il detective Erik Lönnrot, e poi, prima
di sparargli, gli promette che dopo la morte di Lönnrot, nel loro
prossimo incontro, costruirà un labirinto che sarà composto
soltanto di una linea, «invisibile e incessante».
Un labirinto può essere
convenzionalmente circolare (il classico labirinto di Dedalo),
inscritto in un quadrato o in un ottaedro (nella tradizione
cristiana), privo di qualsiasi forma distinguibile (come la via che
porta al Castello di Kafka), esteso nel tempo piuttosto che
nello spazio (nelle opere di Stanislaw Lem e Ursula K. Le Guin), o
che segue una linea retta (in Zenone e in Borges). Qualunque sia la
sua natura, un labirinto è un simbolo che riconosciamo come
necessariamente vero.
Nietszche, nella Gaia
scienza, tentò di spiegare l’inevitabilità del labirinto: «Chi
scruta entro se stesso come in un immenso spazio cosmico e porta in
sé vie lattee sa anche come siano irregolari tutte le vie lattee:
esse conducono dentro al caos e al labirinto dell’esistenza».
Traduzione di Fabio
Galimberti
La Repubblica – 4
ottobre 2018
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