25 novembre 2018

LE PAROLE DI WALTER BENJAMIN




( E’ uscito nelle scorse settimane presso Einaudi Costellazioni . Le parole di Walter Benjamin si tratta di un’opera curata da Andrea Pinotti che presenta 45 voci per descrivere i termini chiave dell’opera di Benjamin. Questo lavoro è particolarmente significativo perché, come ricorda Pinotti nella presentazione del volume, la natura ibrida e trasversale a diversi campi del pensiero di Benjamin ha attirato lettori della sua opera provenienti da diversi ambiti disciplinari; così si offre a tutti i lettori uno strumento di raccordo nell’approccio al lavoro dell’autore berlinese, particolarmente utile per il non specialista. I testi sono stati scritti, oltre che dal curatore, da Maurizio Guerri, Giovanni Gurisatti, Stefano Marchesoni e Antonio Somaini. Riproduco qui la voce ‘esperienza’ redatta da Stefano Marchesoni, g.m.)

Esperienza
Il concetto di esperienza (Erfahrung) si può considerare come il filo d’Arianna che permette di orientarsi nella labirintica produzione benjaminiana. Già nel 1913 il breve articolo «Esperienza» (OC I, 164-66) polemizzava, in nome della gioventù contro la retorica degli adulti benpensanti, inclini a svalutare «in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di dolci cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria» (OC I, 164). Ma è il saggio Sul programma della filosofia futura (1918; OC I, 329-41) a porre le basi, attraverso un serrato confronto con Kant, per la «fondazione gnoseologica di un concetto superiore di esperienza» (OC I, 331). L’esperienza su cui si interroga Kant è criticata da Benjamin come «un’esperienza ridotta in certo modo al punto zero, al significato minimo» (330), che tradisce «la cecità religiosa e storica dell’illuminismo» (331). Allo scopo di superare i limiti angusti di questa concezione, Benjamin assegna alla filosofia futura il compito di superare il dualismo soggetto-oggetto come «relazione fra due entità metafisiche» (334). Invece di appiattire il piano dell’esperienza su quello della coscienza empirica e «di un Io individuale psicosomatico» (333), Benjamin mira a una «coscienza gnoseologica pura (trascendentale)» (ibid.), che si configura come «sfera della neutralità totale rispetto ai concetti “oggetto” e “soggetto”» (334). Così ripensata, l’esperienza non è più ristretta all’ambito delle scienze naturali, ma si apre alla storia, includendo «anche la religione» (ibid.), nonché «arte, giurisprudenza e storia» (337). Fondamentale è inoltre la consapevolezza che «ogni conoscenza filosofica trova la sua espressione esclusivamente nella  lingua» (338), intesa da Benjamin come il medium «non solo della conoscenza, ma anche di un’esperienza che tiene conto della propria singolarità e temporalità» (Weber 2008, 165).
In seguito Benjamin si impegnerà a realizzare il progetto di una filosofia dell’esperienza, abbandonando però ogni velleità sistematica, per privilegiare invece la duttilità dello stile saggistico. Se già gli scritti degli anni Venti illuminano l’esperienza nella concretezza del suo divenire storico – si pensi alla descrizione della melanconia nel Dramma barocco tedesco (1928; OC II, 176-95) o al «Viaggio attraverso l’inflazione tedesca» in Strada a senso unico (1928; OC II, 417-22) –, con l’inizio del lavoro sui passages la ricerca di Benjamin si va precisando nel senso di una «storia originaria [Urgeschichte] del XIX secolo» (I «Passages di Parigi», 1927-29; OC IX, 946) che da un lato rievoca, attraverso il montaggio di innumerevoli citazioni, i diversi modi in cui l’esperienza si declinava in quell’epoca, dall’altro tenta di rammemorare quel passato per rendere possibile un risveglio che è a sua volta un’esperienza genuinamente politica.
Tra i frutti di questa ricerca spicca la teoria dell’esperienza esposta in Su alcuni motivi in Baudelaire (1939; AC 163-202). Qui Benjamin rigetta il culto dell’esperienza vissuta (Erlebnis) che accomunava la filosofia della vita (Lebensphilosophie) con la fenomenologia e con il misticismo di Buber (1909). Mentre il termine Erfahrung rinvia a un verbo che – similmente al latino experiri – significa «passare attraverso» ed è connesso «con una costellazione di significati che implicano l’idea di viaggio» (Tagliapietra 2017, 75), il sostantivo Erlebnis, entrato nell’uso solo dalla seconda metà dell’Ottocento (cfr. Gadamer 1960, 86-98), rimanda immediatamente alla sfera della vita (Leben) e viene generalmente tradotto con la perifrasi «esperienza vissuta». Ebbene, Benjamin interpreta l’ossessione per l’Erlebnis, nata nel contesto del genere biografico (cfr. Dilthey 1905), come «un fatto sintomatico»: come il tentativo di «impossessarsi della “vera” esperienza [Erfahrung], in contrasto con quella che si deposita nella vita regolata e denaturata delle masse civilizzate» (AC 164).
Va ricordato che già nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe (1924-25; OC I, 523-89) si poteva leggere una durissima polemica contro il ricorso al concetto di Erlebnis da parte di quei critici che, come Friedrich Gundolf (1916), miravano ad «esporre il divenire dell’opera nel poeta in base a una schematica essenza personale e a una vuota o inafferrabile esperienza di vita [Erleben]» (OC I, 549). Nel saggio su Baudelaire tale polemica si approfondisce attraverso l’elaborazione di una teoria dell’esperienza che prende le mosse dalla tesi di Bergson (1896) secondo cui la struttura della memoria (Gedächtnis) è «decisiva per la struttura filosofica dell’esperienza» (AC 164). Accanto alla memoria, l’altro elemento costitutivo dell’esperienza è la tradizione: «L’esperienza è un fatto di tradizione, nella vita collettiva come in quella privata. Essa non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria» (AC 164).
A differenza dell’Erlebnis, intesa come un vissuto che colpisce (come uno choc) il soggetto, provocando quella che Simmel aveva chiamato «intensificazione della vita nervosa» (1903, 36), l’Erfahrung presuppone un’accumulazione di dati in larga misura inconsapevole. Perciò il passato, sedimentatosi inconsapevolmente, è accessibile solo al ricordo involontario (mémoire involontaire), teorizzato da Proust sulla base della sua «critica immanente a Bergson» (AC 165). Benjamin traccia quindi una feconda analogia tra la concezione proustiana e l’ipotesi freudiana secondo cui «parte integrante della mémoire involontaire può diventare solo ciò che non è stato “vissuto” [erlebt] espressamente e consapevolmente, ciò che non è stato, insomma, un’“esperienza vissuta”» (AC 168). Ne consegue che mentre il vissuto, legato a un evento, ci inchioda al presente, l’esperienza si rivela solo a posteriori (nachträglich), nel ricordo involontario e nella narrazione. La poesia di Baudelaire viene così interpretata come il grandioso tentativo di fare dello choc un oggetto poetico, e quindi un’esperienza: «Baudelaire ha posto l’esperienza dello choc [Chockerfahrung] al centro stesso del suo lavoro artistico» (AC 170-71).
Benché non si stanchi di diagnosticare «l’atrofia progressiva dell’esperienza» (AC 166) in seno alla metropoli capitalistica, Benjamin evita tuttavia di cadere in atteggiamenti nostalgici, come dimostra il breve scritto Esperienza e povertà (1933; AC 364-69), una perentoria apologia della «povertà di esperienza [Erfahrungsarmut]» (AC 365). Invece di cercare nella mitizzazione dell’Erlebnis un improbabile antidoto alla modernità, Benjamin, preso atto del fatto che ormai «le quotazioni dell’esperienza sono cadute» (AC 364), scorge nella nuova povertà di esperienza l’occasione «per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie»: «A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco» (AC 365). Il barbaro appare qui affine al Carattere distruttivo, il quale «conosce solo una parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia» (1931; OC IV, 521) e «cancella perfino le tracce della distruzione» (522).
Se l’opera di Benjamin si può leggere come una dettagliata mappatura delle diverse modalità in cui si declina storicamente l’esperienza, ciò è dovuto al fatto che «invece di volere padroneggiare attraverso la filosofia l’esperienza – sia quella dell’arte, della religione, del linguaggio o della città – Benjamin permette all’esperienza di mettere alla prova i limiti della filosofia» (Caygill 1998, XIII).
Tra coloro che negli ultimi decenni hanno indagato, da prospettive diverse, intorno alle trasformazioni dell’esperienza nella modernità vanno ricordati Giorgio Agamben (1978a), Marshall Berman (1982), Hartmut Rosa (2013) e Peter Sloterdijk (2009).

Testo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/

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