Milano. Il Mudec
(Museo delle culture) ospita una rassegna di lavori del grande
maestro che evidenziano i suoi interessi per l’etnografia e per le
civiltà "primitive".
Ada Masoero
Le fonti «primitive» di Klee
Figlio di due musicisti, Paul Klee (1879-1940) era a sua volta un ottimo violinista, ma anche un poeta e un eccellente disegnatore e incisore, a lungo incerto sulla strada da prendere. Fu solo durante il viaggio in Tunisia del 1914, che fece la sua scelta. Sul diario scrisse che lì, immerso in quella luce, si sentì dominato dal colore: «Non ho bisogno di tentare d’afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Se la folgorazione del colore fu per lui inattesa, quel viaggio era invece stato programmato per conoscere da vicino una cultura visiva diversa da quella, forbita, lustra e antiquata, diffusa allora in Europa dalle Accademie. Gli artisti più radicali (quelli che avrebbero dato vita alle avanguardie del primo ’900, ma già qualche pioniere della generazione precedente) andavano in cerca di uno sguardo fresco, non inquinato dalla nostra tradizione. E se pochi di loro, come Gauguin, che arrivò sino alle Isole Marchesi (dove morì nel 1903) o Kandinskij, che si spinse a centinaia di chilometri da Mosca, fra popolazioni di cultura finnica, poterono compiere viaggi tanto rischiosi, tutti invece andavano “in pellegrinaggio” nei musei etnografici delle loro città, dal Musée du Trocadéro di Parigi, la cui sezione africana era battuta da Picasso e dagli altri cubisti, ai non meno celebri musei delle città tedesche, di cui gli espressionisti germanici erano frequentatori assidui. I reperti di arte africana, polinesiana, precolombiana, oltre ai libri su quelle culture che, in epoca coloniale, uscivano sempre più numerosi, offrivano loro codici visivi incontaminati, definiti allora “primitivi”. E il “primitivismo” divenne lo strumento per creare un’arte radicalmente nuova.
Quanto a Klee, che
conosceva bene la storia dell’arte europea, concepì una sorta di
“primitivismo” dilatato, esteso anche ai linguaggi preclassici, o
anticlassici, dell’arte occidentale, come le miniature dei codici
bizantini e medievali o le stesse incisioni di Dürer: la sua fu
dunque la ricerca di un “primordio” espressivo più che di un
“primitivismo” etnografico (che comunque esercitò anche su di
lui un’intensa fascinazione).
Da quest’assunto si sono mossi Michele Dantini e Raffaella Resch, curatori della mostra che il Comune di Milano e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore gli dedicano al Mudec, il museo delle culture del mondo. Un compito arduo, il loro, per la polisemia e la stratificazione simbolica di cui Klee intesseva i suoi lavori, che talora rendono sfuggente (ma forse anche più stimolante) l’accostamento alle fonti.
Nell’allestimento di Cesare Mari-Panstudio (che evoca con eleganza quello di Carlo Scarpa per la prima monografica italiana di Klee, alla Biennale di Venezia del 1948), un centinaio di sue opere, alcune delle quali mai esposte in Italia, divise in quattro sezioni e accompagnate da edizioni coeve di libri sulle arti “primitive” che sicuramente egli lesse, dai disegni che acquistò in Tunisia (fonti evidenti delle sue future, volatili Città) e da preziosi pezzi delle collezioni etnografiche del Mudec, permettono di rileggere il cammino, meditato ma tutt’altro che lineare, che egli percorse nel suo personalissimo omaggio alle arti non europee e ai linguaggi occidentali eterodossi e antiaccademici, come la caricatura e il grottesco.
Ed è proprio con le caricature del ciclo delle
Inventionen, con le maschere deformi, con i dèmoni e le figure
chimeriche realizzate in gioventù, che si apre la mostra. Di qui ci
s’inoltra nel periodo dell’«illustratore cosmico», quando,
all’approssimarsi della Grande guerra, Klee (come altri
intellettuali monacensi) volle incarnare il ruolo di mistico e
veggente, ponendosi come tramite tra il reale e la dimensione
spirituale. Gli vennero allora in soccorso le miniature bizantine e
medievali e le incisioni di Albrecht Dürer di cui, in un
autoritratto a matita, cita la Melancholia, mentre si moltiplicano i
temi prediletti dell’occhio veggente e dell’angelo annunziatore.
Dalle antiche civiltà Klee trasse anche alfabeti, reali o
d’invenzione, e figurette ridotte a semplici sigle, con cui compose
un proprio alfabeto cifrato ed enigmatico, oggetto della terza
sezione.
Da ultimo, ecco il
confronto con i reperti del Mudec, fra i quali un raro drappo
peruviano intessuto di piume di pappagallo, del VI-VIII secolo, e
preziose maschere africane, del tutto simili a quelli che Klee vide
nei musei tedeschi, sui libri, o sulle pagine dell’«Almanacco del
Cavaliere Azzurro», cui collaborò. Così come, su quelle stesse
pagine, condivise l’adesione a un’altra fonte di arte “primaria”
qual è il disegno infantile. Accompagnate da una videoinstallazione
di camerAnebbia (nelle sale precedenti si aprono invece tre “finestre
animate”, di Storyville), ecco allora le marionette che l’artista
realizzò per il figlio Felix con i materiali più umili e disparati.
Il percorso si chiude però con i lavori astratti per cui tutti lo
conosciamo. E qui la mostra cala autentici assi, allineando una serie
di opere non solo magnifiche ma raramente, o mai, viste in Italia.
Paul Klee. Alle origini
dell’arte. Milano,
Mudec Museo delle
Culture,
fino al 3 marzo
Il Sole – 4 novembre
2018
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