26 novembre 2018

RILEGGERE G.G. BELLI





L'inferno è romanesco - o il problema della lingua


Un monumento,  in piena crisi dei monumenti. Ora che anche anche un libro semplice, in brossura, non si sa dove tenerlo in casa. Che ambisce anche a una consacrazione, di Belli come poeta universale. Una sorta di salto in assenza di gravità, liberandolo dal greve romanesco. La disponibilità non è un problema, altre edizioni dei “Sonetti” sono sempre accessibili e maneggevoli, nei Meridiani e in collane economiche. Questo monumento nei Millenni è un’occasione per parlare di Belli.
L’ex segretario del principe Poniatowski, e impiegato del papa, all’ufficio del Registro, poi coniuge spensierato di Maria Conti, ricca vedova umbra, con magione a palazzo dietro la Fontana di Trevi, libero di viaggiare, e di accudire ai numerosi interessi letterari, da svelte poligrafo: filosofo (sensista), storico, filologo, poeta epico e lirico, commediografo e drammaturgo. Anche in lingua giocoso e drammatico insieme. A Milano, dove soggiornò a lungo per tre anni consecutivi, dal 1827 al 1829, scoprendo Porta e la forza del dialetto. Un notabile a Roma, membro dapprima, nel 1805, dell’Accademia degli Ellni filofrancese e antipapalina, animatore quindi di un’accademia scissionista, la Tiberina, antinapoleonica, di cui furono membri d’onore il principe Metternich e il futuro papa Gregorio XVI. Quindi presidente dell’Accademia dell’Arcadia. Carica che da censore del (mal)costume lo fece anche censore letterario, segnalandosi per vietare Shakespeare.
I quattro volumi, di mille pagine luno, si spiegano: i sonetti sono tanti, si sa, 2.279. Scritti in due periodi, 1830-37 e 1843-47, alla vigilia del ’48, la rivoluzione europea, che  Roma porterà l’esilio del papa e la repubblica. “Rivelati” tardi, nel 1883, da Domenico Gnoli, e ripresi nel dopoguerra – anche per il sostanzioso intervento di Moravia (ora in “L’uomo come fine e altri saggi”). I sonetti Belli lasciò inediti, con l’ordine di distruggerli. Ma già nel 1831 ne abbozzava un’introduzione e l’1 dicembre dello stesso anno la datava, una decina di pagine molto puntuali sui suoi intenti – anche se non cita Porta, nemmeno allusivamente. Un trattatello glottologico, di lessemi e glossemi puntuali, di scrittura e lettura, e di stilistica.
Pietro Gibellini, che di Belli è cultore da mezzo secolo ormai, e fra i curatori si segnala come il più impegnato, accosta Belli ai tre grandi del romanticismo, tutti comunque a lui cari, Porta, Leopardi e Manzoni.  Di Porta scrisse molto e bene – ma nelle lettere. Come Leopardi tenne uno zibaldone. Su Manzoni Sapegno, che non amava Belli, non avrebbe concordato (“Ritratto di Manzoni e altri saggi”) – ma anche senza Sapegno il nesso non si vede.
L’accostamento ci può stare; Belli è pur sempre un poeta del popolo, della “plebe”, e molto connesso, si direbbe oggi, attivo negli anni del romanticismo. Ma non c’è solo il romanticismo: I “Sonetti” Gibellini equipara alla “Divina Commedia”, per la varietà dei tempi, le situazioni, i personaggi, tutti distinti nel polverone romanesco. E per la mistura di realismo e visionarietà.  Se non che in questo poeta romano e papalino non c’è redenzione. Una Roma cupa lo soverchia.
Una commedia infernale. Si ride ma amaro. Non c’è redenzione, non c’è luce nel mondo romano papalino del ricco Borghese Belli. Si ride di gusto del Porta, c’è una freschezza nella poesia del milanese come di molti altri dialettali – a cominciare dal toscano del Berni, che Belli in gioventù pasticciava. Il dialetto serve a immettere vivacità. Non nel Belli, il suo romanesco è incatenato e incatena, come una prigione. Con le sbarre: si può guardare fuori, ma stando chiusi.
E lui questo voleva, scrivere un gran libro della “plebe”, non redimerla – la parola preferisce a popolo: “Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma”. Messa a contrasto con la sacralità che la città impersona quale capitale del cristianesimo, ma molto “romanesca”: resa “col concorso di un iditootismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppure romana, ma romanesca”. Con i connotati che si sanno, da Fellini e altri cultori contemporanei della romanità: “Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa”. Una plebe anche “ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta” - “i nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’èbbe mai”. Che però non è un difetto: “Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica”.
La questione della lingua Belli non aveva peraltro risolto, a differenza di Manzoni, e di Dante. Il toscano gli riusciva difficile da maneggiare, nelle tante opere filologiche e teatrali – che non si rileggono proprio perché “scritte male”, artificiose, rigide. Limite di cui aveva piena coscienza nelle lettere, e nel “Journal du voyage 1827, 1828, 1829”. Il primo anno tenne il diario di viaggio in francese, gli altri due anni in toscano. Il primo, benché in francese sgrammaticato (Jacqueline Risset lo ipotizzava prodromo al romanesco), è più leggibile degli altri due, in un toscano incartapecorito.  

Giuseppe Gioachino Belli, I sonetti, Einaudi, 4voll., pp. CLXXVVIII + 5.040, ill.  € 240  

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