Minestra deriva dal
latino ministrare, ovvero “servire, porgere”, perché
veniva distribuita ai commensali da un domestico o da un membro
autorevole della famiglia. Forse la somministrazione più suggestiva
della letteratura italiana è quella del principe di Salina: “Quando
egli entrò in sala da pranzo tutti erano già riuniti... davanti al
suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i
fianchi argentei dell’enorme zuppiera col coperchio sormontato dal
Gattopardo danzante... il Principe scodellava lui stesso la minestra,
fatica grata, simbolo delle mansioni altrici del pater familias...
nei piatti superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri... [che]
provenivano da servizi disparati”.
La parola descrive la
pietanza insieme al gesto con cui veniva servita dalla zuppiera o
dalla pentola: la minestra è etimologicamente inseparabile dal suo
contenitore e accomuna ricchi e poveri perché tutti la servono e la
mangiano nello stesso modo, con mestolo e cucchiaio, o la sorbiscono.
Variano solo i materiali e le forme degli utensili.
Distrugge la minestra ed
è un’imposizione sterile farla trovare, per comodità o per
seguire la moda del momento, già servita nel piatto. Si privano i
commensali di tre piaceri: assistere alla ministratio,
servirsi o essere serviti coralmente e, soprattutto, scegliere la
quantità e la consistenza desiderata.
Servirsi della minestra
offre ai più piccoli una libertà inimmaginabile, l’anticipazione
- osservare i gesti degli altri che si servono - è quasi un
assaporare. La scelta, prima ancora di metterla in atto, è
esaltante: una mestolata liquida o spessa? Piena o scarsa? Cercare le
verdure del fondo o accontentarsi di quello che è in superficie?
Recuperare sapientemente con il mestolo solo i pezzi di carota e la
pasta? La minestra si gusta tutta, fino all’ultimo cucchiaio, con
un rito preciso. Raccoglierla nel piatto è un gesto leggero che
occupa entrambe le mani. A casa nostra, inclinavamo la fondina verso
l’interno: era il modo più pratico per non sbrodolarsi; ma in
pranzi più formali si vedono commensali inclinare il piatto verso
destra o anche verso il centro della tavola. Non è un vezzo, né una
raffinatezza. E un modo di evitare il rumore sgradevole delle
succhiate: allungare il viaggio del cucchiaio verso la bocca rende
impossibile alla testa di calarsi nel piatto e succhiare con avidità
le ultime cucchiaiate.
In Simonetta Agnello
Hornby, Maria Rosario Lazzati, La cucina del buon gusto,
Feltrinelli 2012
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