ph e. grosso
Ieri è stato pubblicato l'ultimo numero (n.34) del periodico DIALOGHI MEDITERRANEI. La rivista bimestrale dell' ISTITUTO EUROARABO di Mazara del Vallo, diretta da Antonino Cusumano, esce puntualmente ogni due mesi, e tutti possono leggerla gratuitamente in rete.
La rivista, che ha ospitato qualche mio articolo, spazia dall'antropologia culturale alla sociologia, dalla letteratura alla linguistista e non disdegna l'attualità.
Di seguito potete leggere l' editoriale pubblicato ieri.
Aveva ragione Albert Camus quando scriveva che «dalle coste
dell’Africa dove sono nato si vede meglio il volto dell’Europa. E – aggiungeva
– si sa che non è bello». Non diversamente ha ragione Pietro Clemente che
ribadisce in questo numero come nei precedenti che «Il centro è in periferia»,
che dall’osservatorio decentrato dei piccoli paesi si può capire meglio lo
stato di salute dell’Italia, le dinamiche di cambiamento che l’attraversano, le
prospettive che si prefigurano. Non è forse vero che mettendo insieme quanto
accade a Macerata e a Lodi, a Partinico e a Brindisi, a Vibo Valentia e a
Moncalieri, e quotidianamente in molti altri centri delle province della nostra
penisola, si possono leggere in tutta evidenza i segni della regressione
sociale e civile, l’insofferenza nelle relazioni della convivenza, il
risentimento degenerato e organizzato in sovversione squadrista, quella
«fascistizzazione del senso comune» di cui ha recentemente parlato la senatrice
a vita Liliana Segre? Non è meno vero tuttavia che, mettendo insieme le esperienze
di Lampedusa, Aliano e Riace, e di altri piccoli oscuri comuni, dove si attuano
e si sperimentano forme e strategie originali di rispettosa accoglienza e di
umana solidarietà, si possono trarre le ragioni di una speranza, di una
resistenza anche creativa, dell’ammutinamento di abitanti e intere collettività
di una Italia minore ma forse non del tutto minoritaria.
Non si può non cominciare da Riace, luogo diventato
simbolico di tutte le contraddizioni del nostro presente, orizzonte in cui
sembrano dispiegarsi e coagulare le parole, i pensieri e i gesti di ogni
ragionamento politico, di ogni discorso pubblico, di ogni dibattito culturale.
Perché Riace, avendo ospitato e inverato un modello di accoglienza risolto
nella partecipazione collettiva al bene comune, ha sollevato la reazione
politica di chi alla commistione oppone il suprematismo bianco, alla
contaminazione la depurazione, alla condivisione il primato degli italiani. In
questa paranoica contrapposizione c’è qualcosa che richiama un lessico di guerra,
un linguaggio da rappresaglia, da sadica vendetta, da feroce ritorsione: la
legge che si mette contro la giustizia, il potere armato contro la comunità
disarmata.
Che la portata dell’esperienza di Riace trascenda la
dimensione puramente locale e significhi molto di più del semplice destino del
piccolo centro calabrese è confermato dal livello esacerbato e violento
dell’intento punitivo e repressivo, spintosi tra vincoli e ricatti fino
all’esilio del sindaco e alla minaccia della deportazione degli immigrati.
Straordinaria macchina di esecuzione giudiziaria e politica a fronte di uno
straordinario esempio di vitalità e visibilità della convivenza possibile tra
uomini e culture diverse dentro uno spazio pubblico non più inquinato dalle
intermediazioni mafiose né dai rovinosi effetti della propaganda xenofoba. A
Riace si è (era) promosso e compiuto quel processo di ripopolamento urbano non
solo grazie alla presenza dei profughi venuti dal mare ma anche e soprattutto
attraverso la realizzazione di un autogoverno democratico di legami sociali
e di diritti e doveri di una cittadinanza basata non sull’appartenenza
etnica ma sull’ampia sensibilità civica, sul ritrovato sentimento dei luoghi,
sullo spirito di elezione e di cura del patrimonio collettivo. Qui sembra
essersi materializzata quell’idea di democrazia auspicata da Pietro Clemente,
ovvero «un modo di condividere e partecipare completamente diverso da quello
della rappresentanza politica», «il capovolgimento del paradigma progressista
industrialista e urbanocentrico», l’immagine compiuta del paese dove è
possibile identificare i segni di quel cambiamento che «rovescia il modello
economico e sociale centralista dei due rivali: ‘neoliberismo’ e ‘soggetto
antagonista’, a favore del processo che chiamiamo ‘porre il centro in
periferia’».
Alla comunità di Riace sono dedicati in questo numero di Dialoghi
Mediterranei ben due contributi. Di «straordinario laboratorio di comunità
cosmopolita» scrive Giovanni Cordova, il quale definisce l’esperienza
realizzata non un’utopia ma piuttosto un’eterotopia «per indicare quei luoghi
completamente differenti da tutti gli altri, carichi di una capacità di
contestazione mitica e reale dello spazio ordinario in cui la vita normale,
quotidiana, si snoda». C’è in realtà una forza simbolica indomita, fuori dal
comune, alla base del progetto culturale che Mimmo Lucano ha concepito, un capitale
dell’immaginario collettivo che ispirato all’eredità della Magna Grecia
riconduce al sogno di Tommaso Campanella che da quelle parti ha edificato la
sua Città del Sole. Del resto, per fondare o rifondare una città occorre un
mito, una credenza, una narrazione, e Riace aveva trovato nei nuovi abitanti e
nei nuovi nati i soggetti fondatori, gli interpreti di storie differenti, i
protagonisti della rinascita. Cordova sottolinea l’autosufficienza del borgo
calabrese sostenuta da una rete di microeconomie che «conferisce a tale modello
politico una certa connotazione post-sviluppista, essendo integrato in
un orizzonte di autogoverno o di governamentalità dal basso, sganciato dal
modello ‘progetto’ e dalla sua grammatica di investimenti/ritorni a breve termine,
reporting, rendicontazione, imperativi burocratici».
Sotto un altro aspetto etnografico Nicoletta Malgeri
raccoglie alcune voci del paese che ne ricostruiscono l’identità e la memoria.
Affiora dalle testimonianze il ricordo della notte d’estate del’98 quando
giunse sulle coste un veliero con a bordo 66 uomini, 46 donne e 72 bambini
curdi. I soccorsi prontamente e spontaneamente approntati in una gara di
solidarietà tra gli abitanti hanno trasformato il destino del paese fantasma,
dove – dichiara Angela, una giovane del luogo – «faceva quasi paura vedere
quelle case vuote le cui finestre sbattevano per un filo di vento», in un
centro vivo dove l’apertura delle abitazioni degli emigrati offerte agli
immigrati rinnova «una storia – afferma Mimmo Lucano – che si collega al
patrimonio più prezioso delle nostre comunità, disponibili verso i viaggiatori.
Un’usanza antica di ospitalità: Prego trasìte». Tanto più che, a guardar
bene nelle dinamiche di Riace come di moltissimi altri paesi, il problema è
l’emigrazione dei giovani e non l’immigrazione degli stranieri che
rappresentano risorse ed energie umane destinate a rianimare e rivitalizzare i
luoghi abbandonati.
Il centro è in periferia, anche ad Aliano, piccolo borgo
lucano (meno di mille abitanti), che in occasione del festival “La luna e i
calanchi” promosso da Francesco Armini si popola di migliaia di giovani e di
persone che «condividono un’esperienza rivoluzionaria, nella sua banalità:
lasciare che un piccolo paese periferico e difficile da raggiungere, dimenticato
dalla politica e dalla fiumana della società, diventi un grande centro di
propulsione culturale, in cui la collettività esprime sé stessa, al di fuori
delle convenzioni sociali e culturali». Così scrive Cinzia Costa in questo
numero e aggiunge: «Chi resta, chi torna, chi arriva ad Aliano, lo fa con un
rispetto del luogo e del paesaggio, completamente differente da quello del
turista. È una devozione al luogo, che si fa coscienza civica, dal forte peso
politico, e che, richiamando l’attenzione dei centri, delle metropoli e del
vortice dell’economia invisibile, dei grandi palazzi della finanza, vuole
riportare in luce i piccoli gesti concreti del quotidiano, che diventano
l’unica vera rivoluzione in atto nel Meridione, che in silenzio ha sempre operato:
passeggiare, impastare il pane a mano, sorridere, ascoltare un anziano che
racconta storie, leggere una poesia, riscoprire una ricetta antica».
Questa Italia minore, lontana dai capoluoghi e dalle
metropoli, dimenticata e povera eppure feconda di storia e di civiltà, questo
Mezzogiorno che ha conosciuto cicliche catastrofi naturali nello sfortunato e
storico sfasciume pendulo sul mare per richiamare l’espressione di
Giustino Fortunato, questo pezzo del nostro Paese è lo stesso che ospita i
profughi nei cosiddetti SPRAR, lo stesso che offre spesso esempi di accoglienza
a misura umana, lo stesso che assicura nella dimensione locale e nelle
strutture di piccola scala i complessi percorsi dell’inclusione e della civile
convivenza. Sul modello prodotto dal Sistema Richiedenti Asilo e Rifugiati,
oggi in procinto di essere smantellato, Carolina Galli articola un’analisi
puntuale e documentata, nei dati e nelle attività gestionali, anche attraverso
il confronto con i Centri di Accoglienza Straordinari, i CAS che sono
emergenziali e come tali soggetti a infiltrazioni criminali e sottratti ad una
rendicontazione più dettagliata, a danno della sostanziale qualità dei servizi.
«Investire sul sistema straordinario – osserva Galli – significa avere un
sistema meno regolamentato e controllabile in termini di gestione e minimi
standard qualitativi, ma significa soprattutto alimentare quegli ambienti che
potenzialmente possono portare le persone che lì vivono a sopravviversi
in stato di malessere, avendo conseguenze psicologiche, coltivando sentimenti
di rabbia e di emarginazione».
La filosofia politica espressa attraverso ripetute ordinanze
e recenti leggi sulla sicurezza è chiaramente orientata in direzione opposta:
tende a restringere i diritti di protezione umanitaria e a raddoppiare i tempi
della detenzione amministrativa nei Centri per il rimpatrio, produce
clandestinità e riproduce paure, uno stato permanente di marginalità sociale e
un clima di insicurezza su cui è facile speculare. Quasi a voler
scientificamente incrementare il numero di quanti – espulsi sulla carta e
abbandonati per strada – dormiranno sotto i viadotti, lavoreranno in nero nei
campi, si arrangeranno con lo spaccio delle droghe o si prostituiranno. Come
non interpretare tutto questo come scellerata strategia di una politica di
dichiarata discriminazione etnica, forme ribalde e gaglioffe di un razzismo che
stigmatizza e punisce i vu cumprà e non si fa scrupolo di imporre l’obbligo di
chiusura entro le ore 21 ai soli negozietti gestiti da immigrati, qualcosa che
ricorda l’interdizione fascista degli esercizi commerciali “ebraici”?
Dialoghi Mediterranei
dà conto di quanto profondamente “altra” possa essere la politica di gestione
dell’immigrazione. Così in Canada, dove – scrivono Pittau e Vacaru – «si confrontano
il multiculturalismo a livello federale e l’interculturalismo nel
Quebec». Così in Germania e Gran Bretagna con normative di legge
sicuramente più garantiste, come si desume dallo studio comparativo compiuto da
Shkelzen Hasanaj. Così infine e paradossalmente in un contesto di estrema
povertà, in Uganda, che è il Paese con la più alta densità di rifugiati in
rapporto alla popolazione, dove il sistema di accoglienza e di protezione è
ancora rispettoso dei diritti umani, come ha dimostrato nella sua ricerca sul
campo Luca Jourdan, che spiega l’assenza di conflittualità con l’atteggiamento
di apertura e di tolleranza promosso dal governo, una posizione «riconducibile
agli ideali panafricanisti che ancora innervano la sua azione».
In questo numero, straordinariamente ricco di contributi,
l’attenzione di molti autori sembra concentrarsi sugli incontri umani e sugli
ibridismi culturali che il Mediterraneo ha generato nella sua storia di lunga
durata. In tre diversi originali saggi, rispettivamente di Roberto Sottile,
Francesco Scaglione e Stefano Saletti, sono indagati aspetti e funzioni
del Sabir, della lingua franca che circolò almeno fino a metà del secolo XIX,
un pidgin con una base italoromanza che – annota Sottile – «ci induce a
riflettere, semmai ce ne fosse bisogno, su quanto l’italiano abbia giocato nei
secoli un ruolo importante quale strumento di comunicazione tra popoli e lingue
di opposte rive (…), una sorta di “ponte” tra le culture nel
Mediterraneo». C’è da chiedersi, aggiunge l’autore, se sia ancora possibile
oggi nell’Europa del plurilinguismo un italiano accogliente, mescidato,
inclusivo. Ma è appena il caso di precisare che si tratta di un’ipotesi
possibile solo se siamo pronti ad accogliere le lingue e le culture degli
altri.
Contaminazioni di natura religiosa sono invece oggetto
dell’attento saggio di Laura Faranda sulle opere dell’orientalista Edmond
Doutté e dell’arabista Joseph Desparmet. La studiosa, seguendo un approfondito
percorso filologico e antropologico, vi rintraccia «stratigrafie simboliche di
un sistema religioso fedele al dettato coranico e non di meno pervaso di
sincretismi compositi, esiti storici di contatti con altre culture. Si tratta –
conclude esemplarmente – di due interpreti infaticabili della portata
etnografica di un sapere intriso e nutrito di dialoghi mediterranei».
Non diversamente nella descrizione che Erika Scopelliti fa dell’arte dei
contastorie in Marocco non può non riconoscersi una koinè comune al patrimonio
orale di tante culture e popolazioni meridionali, un insieme di tecniche
performative e narrative che nelle piazze mediterranee hanno avuto origine e
irradiazione. E di incontri, scontri, confronti e scambi linguistici, letterari
e intellettuali scrivono pure due studiosi tunisini, Meriem Dhouib e Ahmed
Somai, che sotto profili tematici diversi guardano alla cultura italiana
rivisitata e intrecciata in una ininterrotta dialettica con quella del mondo
arabo-islamico.
Anche le splendide immagini, copiosamente contenute in
questo numero, alludono a commistioni e orditi simbolici e culturali. Quelle di
Alfonso D’Amato evocano fusioni e sovrapposizioni tra radici africane e innesti
portoghesi, metissage registrati nel suo diario di viaggio tra Brasile,
Angola, Mozambico, Capo Verde, São Tome, Praia e Bissau. «In tutte le
città – scrive – sentivo l’eco delle altre, e nell’approdo brasiliano
sentivo risonanze dei Paesi africani. Nella musica di allegria, ma anche di
tristezza, si avverte un sottofondo lontano del fato, con il sentimento
portoghese della saudade, e racconta temi di emigrazione, di lontananza, di
separazione, dolore, sofferenza. Ecco, un fado negro».
Altre immagini di non meno importanti fotografi posseggono
un’eguale forza documentaria. Giacomo Zaganelli indaga sul rapporto tra i
turisti e le opere in esposizione agli Uffizi e mostra quanto pervasivo e
occlusivo dello sguardo sia l’uso ossessivo e possessivo degli smartphone che
«filtrano (e distorcono) la visione dell’opera d’arte». Una bella rassegna di
metaimmagini che ha l’obiettivo di suscitare «un dibattito critico sulla
disattenzione e sulla superficialità con cui ogni giorno affrontiamo il
quotidiano ed esercitiamo lo sguardo, e allo stesso tempo sulla mercificazione
dei centri storici delle principali città d’arte, ridotti a parchi per turisti».
Il reportage di Eugenio Grosso, infine, ci conduce sulle
rotte balcaniche dei profughi, segue le peripezie affrontate per superare le
frontiere. Le foto restituiscono nel loro plastico dinamismo figurativo lo
sforzo fisico e la stanchezza dei loro corpi ma anche la volontà tenace di
andare avanti. «Pur tra mille ostacoli – scrive Grosso in conclusione – carichi
di dolori e patimenti, questa massa umana che noi osteggiamo con la furia di
cani rabbiosi ci è superiore nei fatti. Consapevole di trovarsi sempre
sull’orlo del baratro, con scarse possibilità di migliorare le proprie
condizioni di vita, la maggior parte dell’umanità, quella a cui oggi il nostro
governo ha dichiarato guerra aperta, non si arrende a perire. Non si arrendono
le minoranze perseguitate del Medio Oriente: gli Yazidi, macellati dai
mujaheddin dello Stato Islamico e i Cristiani, scappati dalle proprie case e
chiese usate come latrine dal gruppo di terroristi. Non si arrendono i curdi
iracheni che sono sopravvissuti al genocidio perpetrato da Saddam Hussein e
oggi, tra mille difficoltà e voltafaccia da parte della comunità
internazionale, governano una regione autonoma che è un’oasi sicura in un mare
di violenza. Non si arrendono tutte le persone che sono arrivate in Italia con
poco o niente e che, quotidianamente, combattono per garantire, se non a se
stessi, una vita migliore ai propri figli».
Parole che hanno la medesima efficacia comunicativa delle
immagini, lo stesso potenziale di energia che è nell’inarrestabile passo di
marcia dei profughi, la stessa fermezza che è contenuta nell’implacabile
divenire dei fatti. Ovvero nelle inappellabili ragioni della Storia che scorre,
nonostante tutto, come un fiume carsico ai margini del nostro inconsapevole
presente. Nel tempo greve che irride l’umano noi ci illudiamo di arrestare il
futuro che avanza tornando indietro, riparando nel cupo passato dei vecchi
nazionalismi e protezionismi. Ha ragione Nino Giaramidaro: «Sembra che il mondo
globale con la sua inimmaginabile tecnologia e tutte le sigle e acronimi che
non fanno capire più nulla, fra tutti gli algoritmi di cui dispone, in tempo
reale, abbia scelto quello del cordaio».
Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Qui il sommario del nuovo numero della rivista: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/
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