01 novembre 2018

I DIECI INVERNI DI FRANCO FORTINI



Ripubblicato “Dieci inverni” di Franco Fortini, uscito nel 1957 e ristampato nel 1973, ma da molti anni ormai introvabile. Raccoglie scritti degli anni più bui della guerra fredda (1947-1957) e testimonia di un percorso lucido e coerente che l'intellettuale socialista continuerà negli anni '60, fuori ormai da ogni appartenenza di partito, su riviste come Quaderni Piacentini. Da leggere. 
Giuseppe Muraca
Eretico testimone del presente in fuga
Non c’è dubbio che i Dieci inverni di Franco Fortini (edito da Feltrinelli nel 1957) debba essere considerato uno dei libri politici capitali degli anni Cinquanta (magari da porre accanto a Politica e cultura di Norberto Bobbio e a Socialismo e verità di Roberto Guiducci), che oltre a occupare un posto di primo piano nell’ambito dell’intera opera fortiniana è indispensabile per capire la storia della sinistra, della cultura e dei gruppi intellettuali marxisti e dei conflitti ideologici che hanno caratterizzato il primo decennio del secondo dopoguerra.
Ristampato dalla De Donato di Bari nel 1973, ora il libro esce in una nuova veste critica, curata da Sabatino Peluso e introdotta da Matteo Marchesini, per la casa editrice Quodlibet di Macerata (pp. 384, euro 24). Diviso in tre parti (Discorso indiretto, Da un «libro bianco» e Discorso diretto), tutto l’ordito dei Dieci inverniruota intorno al rapporto tra politica e cultura, tra intellettuali e organizzazioni della sinistra, tra i partiti operai italiani e occidentali e il socialismo sovietico. Da questo punto di vista restano celebri i saggi Il senno di poi, un serrato e amaro rendiconto critico e autocritico sulla condizione dell’intellettuale marxista negli anni della guerra fredda, e Che cosa è stato il “Politecnico”, sul caso «Politecnico», appunto, e la famosa polemica fra Vittorini e Togliatti, ma tanti altri sono i pezzi che si dovrebbero citare.
In sostanza, la prima opera saggistica di Fortini è innanzitutto un durissimo atto d’accusa contro la chiusura soffocante del clima della guerra fredda, l’asservimento della cultura alla politica, la direzione verticistica e autoritaria dei partiti della sinistra, il provincialismo culturale e la concezione storicista e dogmatica del marxismo ufficiale, una critica radicale del populismo progressista, dello stalinismo e del togliattismo. In fondo lo scrittore fiorentino negli anni del frontismo vive i dubbi, le incertezze e l’impotenza di quella esigua minoranza di intellettuali non organici ed eretici che hanno fatto la scelta del comunismo, ma che per la loro posizione critica si sentono accusare di essere dei traditori e degli agenti controrivoluzionari.
Per esempio, egli condivide con i vari Chiaromonte, Silone, Bobbio e Guiducci la critica del socialismo reale e della dittatura di Stalin, ma si differenzia da loro perché non ha mai rinnegato la fede nel comunismo; anzi egli va alla continua ricerca di un comunismo diverso da quello dominante, con l’intenzione e la speranza di rinnovare con la sua critica il marxismo e gli istituti e le organizzazioni del movimento operaio. In questo senso per Fortini il Partito socialista rappresenta in quel periodo la sede naturale in cui era possibile criticare «le forme organizzative-disciplinari della lotta comunista» e che poteva garantire una maggiore apertura, autonomia e libertà di ricerca e di intervento politico e culturale rispetto al Pci togliattiano che invece era strettamente legato all’ideologia staliniana e al partito-guida dell’Unione sovietica.
Egli infatti ha fatto parte di quel piccolo gruppo di marxisti critici ed eterodossi che negli anni dell’egemonia dello stalinismo e del togliattismo alla critica dello storicismo, dello zdanovismo e del marxismo nazional-popolare hanno unito l’impegno per una nuova cultura e un nuovo pensiero marxista basato sull’unità tra teoria e prassi, tra politica e cultura, fra democrazia e socialismo. Diversi per formazione e per interessi e spesso in disaccordo tra di loro, ciò che univa Fortini a Gianni Bosio, Roberto Guiducci, Luciano Amodio, Cesare Cases, Renato Solmi e pochi altri era la creazione di nuovi metodi e strumenti di ricerca e di analisi e di spazi autonomi di elaborazione teorica e culturale liberi dai condizionamenti imposti dalle dirigenze politiche della sinistra, l’opera di sprovincializzazione della cultura italiana e l’attenzione verso quelle esperienze teoriche e politiche che si ponevano su un nuovo versante e che venivano trascurate, criticate o rimosse dal marxismo ortodosso.
Così, pur riconoscendo in parte il ruolo e la validità del partito, essi avevano privilegiato l’iniziativa dal basso, il primato e l’autonomia della classe e la democrazia diretta, costituendo delle piccole minoranze che avevano promosso dei progetti e delle iniziative (riviste ciclostilate e diffuse in poche centinaia di copie, attività editoriali, convegni, istituti di ricerca e di organizzazione politica e culturale) che erano in conflitto coi dogmi e le istituzioni burocratiche della sinistra e del socialismo reale.

Proprio per questo motivo la loro attività venne ostacolata ed emarginata dall’atteggiamento di chiusura ideologica del Pci, che mal tollerava la critica e la polemica. Tuttavia, è importante sottolineare che in quel primo periodo per non indebolire politicamente il fronte della sinistra Fortini e i marxisti critici evitarono di manifestare apertamente il loro dissenso.
La fine dello stalinismo fu per molti versi un evento liberatorio e di rottura col passato. Coloro che negli anni precedenti avevano criticato da sinistra la linea politica e culturale dominante uscirono allo scoperto partecipando con grande passione ed entusiasmo all’intensa discussione avviatasi dopo il XX Congresso del Pcus e la denuncia dei crimini di Stalin, favorita dalla momentanea apertura dimostrata dai vertici socialisti e comunisti. Ma i drammatici avvenimenti polacchi e ungheresi dovevano subito dopo spezzare «l’incredibile speranza dell’estate». Tuttavia, la crisi del 1956 innescò un processo di profonda revisione e di aggiornamento della cultura tradizionale e dello stesso marxismo, dando inizio a una nuova stagione di dibattiti e di polemiche che hanno interessato e coinvolto tutti i giornali e le riviste della sinistra.
Negli anni seguenti il gruppo dei marxisti critici incomincerà a dividersi e a seguire direzioni diverse: tra chi, come i Guiducci, Bobbio, Momigliano e Pizzorno, lavorerà per superare Marx e la dittatura del proletariato, e chi invece, come Fortini, Panzieri, Bosio, Montaldi, Cases, Renato Solmi, Luciano Della Mea, ecc. procederà verso un’uscita a sinistra dallo stalinismo. E l’abbandono da parte di Fortini del partito socialista, avvenuto all’inizio del 1958, sancisce di fatto la fine di una fase della storia del socialismo e della cultura marxista italiana e l’inizio di una nuova stagione di studi e di ricerche teoriche e culturali. Il libro si conclude infatti con La lettera a un comunista, scritta all’indomani dell’«indimenticabile 1956», in cui si tenta di effettuare un bilancio del passato e di indicare una nuova prospettiva politica per il futuro.
Leggendo questo testo insieme a Il senno di poi si coglie proprio la sensazione che Fortini voglia lasciarsi alle spalle e archiviare gli anni della guerra fredda e procedere verso una nuova direzione.

Non dimentichiamo che l’anno prima aveva pubblicato Asia Maggiore, un atto d’amore verso il mondo cinese, considerato alternativo al modello politico del socialismo sovietico. Non a caso a partire dai primi anni sessanta egli parteciperà alle vicende politiche e culturali della nuova sinistra, di cui dalla generazione sessantottina sarà ritenuto uno dei principali maestri.
Il manifesto – 18ottobre 2018

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