Ripubblicato “Dieci
inverni” di Franco Fortini, uscito nel 1957 e ristampato nel 1973,
ma da molti anni ormai introvabile. Raccoglie scritti degli anni più
bui della guerra fredda (1947-1957) e testimonia di un percorso
lucido e coerente che l'intellettuale socialista continuerà negli anni '60, fuori
ormai da ogni appartenenza di partito, su riviste come Quaderni
Piacentini. Da leggere.
Giuseppe Muraca
Eretico testimone del
presente in fuga
Non c’è dubbio che
i Dieci inverni di Franco Fortini (edito da Feltrinelli nel
1957) debba essere considerato uno dei libri politici capitali degli
anni Cinquanta (magari da porre accanto a Politica e cultura di
Norberto Bobbio e a Socialismo e verità di Roberto Guiducci), che
oltre a occupare un posto di primo piano nell’ambito dell’intera
opera fortiniana è indispensabile per capire la storia della
sinistra, della cultura e dei gruppi intellettuali marxisti e dei
conflitti ideologici che hanno caratterizzato il primo decennio del
secondo dopoguerra.
Ristampato dalla De
Donato di Bari nel 1973, ora il libro esce in una nuova veste
critica, curata da Sabatino Peluso e introdotta da Matteo Marchesini,
per la casa editrice Quodlibet di Macerata (pp. 384, euro 24). Diviso
in tre parti (Discorso indiretto, Da un «libro
bianco» e Discorso diretto), tutto l’ordito dei Dieci
inverniruota intorno al rapporto tra politica e cultura, tra
intellettuali e organizzazioni della sinistra, tra i partiti operai
italiani e occidentali e il socialismo sovietico. Da questo punto di
vista restano celebri i saggi Il senno di poi, un serrato e amaro
rendiconto critico e autocritico sulla condizione dell’intellettuale
marxista negli anni della guerra fredda, e Che cosa è stato il
“Politecnico”, sul caso «Politecnico», appunto, e la famosa
polemica fra Vittorini e Togliatti, ma tanti altri sono i pezzi che
si dovrebbero citare.
In sostanza, la prima
opera saggistica di Fortini è innanzitutto un durissimo atto
d’accusa contro la chiusura soffocante del clima della guerra
fredda, l’asservimento della cultura alla politica, la direzione
verticistica e autoritaria dei partiti della sinistra, il
provincialismo culturale e la concezione storicista e dogmatica del
marxismo ufficiale, una critica radicale del populismo progressista,
dello stalinismo e del togliattismo. In fondo lo scrittore fiorentino
negli anni del frontismo vive i dubbi, le incertezze e l’impotenza
di quella esigua minoranza di intellettuali non organici ed eretici
che hanno fatto la scelta del comunismo, ma che per la loro posizione
critica si sentono accusare di essere dei traditori e degli agenti
controrivoluzionari.
Per esempio, egli
condivide con i vari Chiaromonte, Silone, Bobbio e Guiducci la
critica del socialismo reale e della dittatura di Stalin, ma si
differenzia da loro perché non ha mai rinnegato la fede nel
comunismo; anzi egli va alla continua ricerca di un comunismo diverso
da quello dominante, con l’intenzione e la speranza di rinnovare
con la sua critica il marxismo e gli istituti e le organizzazioni del
movimento operaio. In questo senso per Fortini il Partito socialista
rappresenta in quel periodo la sede naturale in cui era possibile
criticare «le forme organizzative-disciplinari della lotta
comunista» e che poteva garantire una maggiore apertura, autonomia e
libertà di ricerca e di intervento politico e culturale rispetto al
Pci togliattiano che invece era strettamente legato all’ideologia
staliniana e al partito-guida dell’Unione sovietica.
Egli infatti ha fatto
parte di quel piccolo gruppo di marxisti critici ed eterodossi che
negli anni dell’egemonia dello stalinismo e del togliattismo alla
critica dello storicismo, dello zdanovismo e del marxismo
nazional-popolare hanno unito l’impegno per una nuova cultura e un
nuovo pensiero marxista basato sull’unità tra teoria e prassi, tra
politica e cultura, fra democrazia e socialismo. Diversi per
formazione e per interessi e spesso in disaccordo tra di loro, ciò
che univa Fortini a Gianni Bosio, Roberto Guiducci, Luciano Amodio,
Cesare Cases, Renato Solmi e pochi altri era la creazione di nuovi
metodi e strumenti di ricerca e di analisi e di spazi autonomi di
elaborazione teorica e culturale liberi dai condizionamenti imposti
dalle dirigenze politiche della sinistra, l’opera di
sprovincializzazione della cultura italiana e l’attenzione verso
quelle esperienze teoriche e politiche che si ponevano su un nuovo
versante e che venivano trascurate, criticate o rimosse dal marxismo
ortodosso.
Così, pur riconoscendo
in parte il ruolo e la validità del partito, essi avevano
privilegiato l’iniziativa dal basso, il primato e l’autonomia
della classe e la democrazia diretta, costituendo delle piccole
minoranze che avevano promosso dei progetti e delle iniziative
(riviste ciclostilate e diffuse in poche centinaia di copie, attività
editoriali, convegni, istituti di ricerca e di organizzazione
politica e culturale) che erano in conflitto coi dogmi e le
istituzioni burocratiche della sinistra e del socialismo reale.
Proprio per questo motivo la loro attività venne ostacolata ed emarginata dall’atteggiamento di chiusura ideologica del Pci, che mal tollerava la critica e la polemica. Tuttavia, è importante sottolineare che in quel primo periodo per non indebolire politicamente il fronte della sinistra Fortini e i marxisti critici evitarono di manifestare apertamente il loro dissenso.
La fine dello stalinismo
fu per molti versi un evento liberatorio e di rottura col passato.
Coloro che negli anni precedenti avevano criticato da sinistra la
linea politica e culturale dominante uscirono allo scoperto
partecipando con grande passione ed entusiasmo all’intensa
discussione avviatasi dopo il XX Congresso del Pcus e la denuncia dei
crimini di Stalin, favorita dalla momentanea apertura dimostrata dai
vertici socialisti e comunisti. Ma i drammatici avvenimenti polacchi
e ungheresi dovevano subito dopo spezzare «l’incredibile speranza
dell’estate». Tuttavia, la crisi del 1956 innescò un processo di
profonda revisione e di aggiornamento della cultura tradizionale e
dello stesso marxismo, dando inizio a una nuova stagione di dibattiti
e di polemiche che hanno interessato e coinvolto tutti i giornali e
le riviste della sinistra.
Negli anni seguenti il
gruppo dei marxisti critici incomincerà a dividersi e a seguire
direzioni diverse: tra chi, come i Guiducci, Bobbio, Momigliano e
Pizzorno, lavorerà per superare Marx e la dittatura del
proletariato, e chi invece, come Fortini, Panzieri, Bosio, Montaldi,
Cases, Renato Solmi, Luciano Della Mea, ecc. procederà verso
un’uscita a sinistra dallo stalinismo. E l’abbandono da parte di
Fortini del partito socialista, avvenuto all’inizio del 1958,
sancisce di fatto la fine di una fase della storia del socialismo e
della cultura marxista italiana e l’inizio di una nuova stagione di
studi e di ricerche teoriche e culturali. Il libro si conclude
infatti con La lettera a un comunista, scritta all’indomani
dell’«indimenticabile 1956», in cui si tenta di effettuare un
bilancio del passato e di indicare una nuova prospettiva politica per
il futuro.
Leggendo questo testo
insieme a Il senno di poi si coglie proprio la sensazione
che Fortini voglia lasciarsi alle spalle e archiviare gli anni della
guerra fredda e procedere verso una nuova direzione.
Non dimentichiamo che l’anno prima aveva pubblicato Asia Maggiore, un atto d’amore verso il mondo cinese, considerato alternativo al modello politico del socialismo sovietico. Non a caso a partire dai primi anni sessanta egli parteciperà alle vicende politiche e culturali della nuova sinistra, di cui dalla generazione sessantottina sarà ritenuto uno dei principali maestri.
Il manifesto –
18ottobre 2018
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