“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
Questa
recensione è uscita, con qualche taglio, su «Alias», domenica 23
gennaio. Nei prossimi giorni, per moltiplicare i punti di vista e
alimentare la discussione sull’ultimo libro di Houellebecq,
pubblicheremo anche la recensione diAnnientarescritta
per noi da Gilda Policastro.
Titolo
incendiario, sostanza pompier.
Se voleva stupire, con il suo ultimo romanzo (Annientare,
nella traduzione, scorrevole ma non sempre precisa, di Milena Zemira
Ciccimarra, per La Nave di Teseo: pp. 752, euro 23), Michel
Houellebecq c’è riuscito: pochissimo sesso, quasi nessuna
provocazione politica; molto amore coniugale, molti buoni sentimenti.
Soprattutto, pochissime idee: è un romanzo-romanzo, perfino ‘di
genere’; non un romanzo a tesi, come i suoi libri più
interessanti. Che manchino i consueti rigurgiti razzisti e
islamofobi, o che il primo «pompino», peraltro interrotto, arrivi
dopo più di quattrocento pagine, potrebbe essere una buona notizia.
In realtà, svestiti i panni che più gli sono consoni, quelli
dell’erotomane profeta reazionario, Houellebecq annienta il suo
fascino ambivalente, rivelandosi scrittore mediocre e noioso.
Annientare è
ambientato alla fine del secondo mandato di un mai nominato (ma
riconoscibile) Macron; e con mossa furbesca – in Francia si
avvicinano le presidenziali – mette in scena la campagna elettorale
del 2027: è un racconto d’anticipazione che intreccia, senza mai
fonderli, romanzo politico, storia familiare, thriller apocalittico.
Dove i politici sono brave persone, la famiglia è rifugio sicuro, e
perfino i misteriosi terroristi, mescolando magia bianca Wicca e
hackeraggio, per un po’ rischiano di sembrare simpatici.
Il
protagonista, Paul Raison (nomen
omen:
uomo pacato, triste, molto ragionevole), è collaboratore e amico del
potente ministro dell’economia Bruno Juge, un tecnocrate pragmatico
che ha saputo rilanciare l’industria francese, con una politica
statalista incurante dei veti europei; e che in campagna elettorale
affianca il candidato del partito presidenziale, una celebrità
televisiva di nome Sarfati. Il padre di Paul, ex agente dei servizi
segreti, vive invece nel Beaujolais, fra vigneti autunnali dai
riflessi meravigliosamente kitsch (le
descrizioni sembrano fare il verso, ma senza ironia, a un dépliant
turistico); un ictus, che lo rende disabile, ha il merito di
riavvicinare i suoi tre figli: oltre a Paul, il fragile Aurélien e
la cattolica Cécile; quest’ultima, ottima cuoca (com’è giusto),
è felicemente sposata con Hervé, notaio disoccupato a Arras
(esistono notai disoccupati? forse chez
les Ch’tis,
nel depresso Nord…), legato a ambienti dell’estrema destra
identitaria; Aurélien, invece, è sposato con una giornalista
fallita, unico personaggio negativo del romanzo: naturalmente
femminista e di sinistra, ancorché interessata solo ai soldi – con
un articolo rancoroso provocherà il suicidio del marito. Infine, i
terroristi, sempre fuori scena: con mezzi tecnologici
sofisticatissimi, affondano portacontainer cinesi e bruciano banche
dello sperma, avendo cura di danneggiare il commercio mondiale
neo-liberista e gli immorali supermercati della vita, senza causare
vittime; i capi dei servizi segreti, e lo stesso protagonista, non
nascondono un certo ammirato rispetto. E quando alla fine (solo un
dettaglio?) affondano anche un barcone con cinquecento migranti,
l’indignazione, nel testo, sembra dividersi equamente fra loro e
Macron, che strumentalizza il massacro, a pochi giorni dalle elezioni
– infatti vinte con margine ridotto dal suo (mediocrissimo)
delfino, e perse dal giovane candidato del Rassemblement
National,
a più riprese definito «bravissimo».
Fin
dalle Particelle
elementari,
che resta il suo libro migliore (insieme a Extension
du domaine de la lutte:
ma i traduttori si ostinano a rendere con Estensione
del dominio della lotta,
anziché dell’‘àmbito’), Houellebecq interroga con acre
pessimismo il futuro della Francia e dell’Occidente. A prima
vista, Annientare è
l’opposto di Sottomissione:
se nel controverso romanzo del 2015 a Parigi prendeva il potere un
partito islamico, cancellando ogni traccia di identità europea, nel
nuovo libro vince la tecnocrazia. Debitamente riconvertito a un
protezionismo soft,
il Macron II ha fatto un buon lavoro. Certo, la disoccupazione cala
poco, le RSA offrono ancora uno spettacolo indegno; ma le condizioni
medie di vita sono accettabili, gli indicatori economici inducono
all’ottimismo; e se la solitudine e l’individualismo continuano a
dominare, il deserto affettivo del 2027 è punteggiato di oasi
d’amore: dopo una lunga crisi coniugale, c’è un ritorno di
fiamma fra Paul e Prudence; Aurélien vive una parentesi di felicità
con un’infermiera nera; e perfino Bruno, l’algido ministro, si
consola delle infedeltà della consorte con un’affascinante personal
trainer di
origine iraniana. C’è tanto amore, perfino inter-etnico. E sarebbe
ingeneroso rimproverare a Houellebecq – che ha sempre rifuggito
ogni forma di psicologismo – la repentina trasformazione di
Prudence, motivata soltanto dalle suggestioni magiche (ancora!) del
neopaganesimo Wicca.
Il
punto è un altro: fluviale e ambizioso, programmaticamente molto
diverso dai precedenti, adottando la trasparenza di una riconoscibile
normalità, di un generalizzato ‘grado zero’, di una
realistica medietas (scrittura
piana, ambientazione rassicurante, personaggi pieni di buon senso,
serietà del quotidiano), Annientare dice
la verità su Houellebecq. Porta allo scoperto quel romanticismo
frustrato e un po’ melenso, quel lirismo un po’ adolescenziale,
che spesso, altrove, covava nelle ceneri del fuoco misogino; e
conferma oltre ogni ragionevole dubbio che l’ideologia dei suoi
romanzi (oltre che dell’autore) è di estrema destra. Se infatti
dell’invettiva politicamente scorretta può darsi
un’interpretazione allegorica, se l’iperbole si presta sempre
(almeno da Céline in poi) a una lettura antifrastica – per questo
Houellebecq (soprattutto in Italia) ha tanti estimatori di sinistra,
che ne colgono le provocazioni anti-liberiste e anti-globalizzazione,
affrettandosi a declinarle in senso progressista –, qui non può
esserci ambiguità: i militanti anti-eutanasia che rapiscono il padre
di Paul, per sottrarlo agli orrori della sanità pubblica francese,
sono bravi ragazzi; le tesi dei presentabilissimi eredi dei Le
Pen sono ben motivate, lo riconoscono anche i ministri di Macron; ai
terroristi eco-identitari non manca un’aura; il male è la
Rivoluzione francese (e, sullo stesso piano, Hitler). Del resto, i
modelli culturali sono espliciti: il padre di Paul legge con passione
De Maistre; il ministro di Macron recita con enfasi Musset (!).
Romanticismo e reazione.
Annientare è
perciò il negativo fotografico, non l’opposto, di Sottomissione;
e soprattutto dice la verità su Houellebecq scrittore. Le tre storie
– politica, familiare, terroristica – si giustappongono senza mai
integrarsi; l’enigma irrisolto degli attentati è addirittura
lasciato cadere nell’ultima parte. La trama avanza (faticosamente)
grazie a coincidenze che pure a Dumas père sarebbero
parse un tantino azzardate: per dirne una, quando Paul, dopo anni di
astinenza sessuale, percepisce la possibilità di riavvicinarsi alla
moglie, reputa necessario un po’ di allenamento; e nell’immenso
catalogo online delle escort parigine, sceglie precisamente la figlia
di sua sorella (la cattolica integralista): se ne accorge nel bel
mezzo di una fellatio di
ottima fattura, che rimane perciò sfortunatamente inconclusa. Il
suicidio di Aurélien, che ha appena trovato l’amore, è un
capolavoro d’inverosimiglianza. Va ancora peggio con i sogni del
protagonista, che infarciscono il libro intero di mere digressioni:
sogni, direbbe Freud, senza ombelico, e quasi intercambiabili con il
piano della realtà – unica funzione strutturale, allungare il
brodo.
Alla
fine, Paul scopre di avere un tumore alla mascella. C’è qualcosa
di pirandelliano, in Annientare:
incesto mancato e suicidio, come nei Sei
personaggi;
e pure il fiore
in bocca.
Delle pagine finali il nume tutelare è Pascal; e l’addio alla
vita, con la felicità quasi postuma al fianco di Prudence, è
struggente (quasi senza enfasi kitsch).
Sono le pagine migliori del libro. Non so quanti lettori riusciranno
a arrivarci.
Copertina di un libro dell'ingegnere AMADEO BORDIGA dove sono raccolti,
come mostra l'indice successivo, un gruppo di suoi articoli pubblicati tra il 1951/55.
La
storia delle minoranze comuniste in Italia, o eresie come piace oggi
chiamarle inserendo nel concetto personaggi come Rossana Rossanda o
Magri che tutto furono meno che eretici, resta nonostante i lavori di
Sandro Saggioro, Arturo Peregalli, Diego Giachetti, Paolo Casciola
ancora in larga parte da fare. Può essere perciò interessante
scoprire cosa nel gennaio 1952, esattamente settanta anni fa,
pensassero della Democrazia cristiana e della sua politica i
bordighisti che, solitamente, si ritiene fossero solo interessati a
tallonare da sinistra il PCI e il PSI. Naturalmente, come ben si vede
dall'articolo che presentiamo, l'analisi della natura della DC
diventa occasione per ribadire la critica rivoluzionaria alla
politica di Togliatti e di Nenni. (G. Amico)
Democrazia
Cristiana
Partito
totalitario borghese
Alla
Democrazia Cristiana non abbiamo mai riconosciuto né i carattere di
partito democratico nonostante le retoriche affermazioni
antitotalitarie, né quello di partito clericale, nonostante
l'innegabile puzzo di sacrestia che ne emana. Tanto meno le
riconosciamo di seguire, stando al timoni dello Stato, le mistiche
fantasie di Cristo. E ciò, bene inteso, non perché rivendichiamo
al partito proletario la democrazia e il cristianesimo sociale,
siccome fanno gli scribi e i farisei dei partiti predicanti la
solidarietà delle classi. Alla Democrazia Cristiana non
riconosciamo di essere né democratica né clericale, per il
semplice fatto che non crediamo né nella possibilità di
sopravvivenza della democrazia come forma di governo borghese in
opposizione al grande capitale, né nella esistenza di una classe
ecclesiastica dominante.
Il
partite marxista rivoluzionario non è democratico: è antiborghese;
non è anticlericale: è antireligioso. Propugna la distruzione .
del potere borghese nella sua duplice forma liberale e totalitaria:
non preferisce la democrazia al fascismo. Propugna la scomparsa
dalla mente degli uomini delle nebbie preistoriche della
superstizione religiosa; non preferisce il laicismo al clericalismo.
Ma, allorché i rivoluzionari mettono la D. C. sullo stesso piano di
qualunque partito borghese, o meglio grande-borghese, e le negano di
rappresentare altro potere che quello capitalista, essi non traggono
risultanze da deduzioni puramente dottrinali. Al contrario, si
lasciano impartire lezioni dai fatti, come è nel metodo scientifico
del marxismo.
Alla
D. C. non abbiamo mai riconosciuto natura e funzioni di democrazia
sociale, e pertanto abbiamo bollati come traditori della fiducia
cieca delle masse lavoratrici quei partiti che con essa
collaborarono al tempo della Esarchia e del Tripartito, per il
semplice fatto che nella politica borghese la democrazia esiste come
i fossili nella storia naturale. La storia della democrazia sociale,
cioè della direzione piccolo-borghese della società capitalistica,
è breve e triste, come quella di Mimi nella Bohème: nata debole e
impotente, essa morì di consunzione.
Marx
ne celebrò il funerale sin dalle giornate di giugno del 1848, che
videro l'aborto di governo repubblicano piccolo-borghese invocare le
orde armate della reazione capitalistica contro le resistenze
opposte dal proletariato parigino a lasciarsi imprigionare nelle
maglie di ferro dello sfruttamento capitalista insito nella
repubblica borghese. Disdicendo l'alleanza col proletariato per
abbattere le ultime vestigia delle forme feudali dello stato, e
cercando ed ottenendo l'alleanza del grande capitale e dell'alta
finanza, la Democrazia piccolo borghese, che la rivoluzione rossa
del proletariato riempiva di nevrastenico terrore, firmava la
propria definitiva sentenza di morte. E nemmeno tirava le cuoia in
un clima di epopea tragica, come cinquantacinque anni prima il
Governo rivoluzionario del Terrore: spariva dalla scena della
storia, buttata fuori da una pedata nel sedere, lasciando posto non
a Napoleone il Grande, « eroe della rivoluzione », ma al
filibustiero politico Napoleone III, detto il Piccolo. Finiva in
Francia e nel resto del mondo l'epoca storica favorevole anche solo
a esperimenti e tentativi di governi democratici piccolo-borghesi:
Venne il massacro della Comune (1871), l'imperialismo, le guerre
mondiali, il fascismo, cioè il dominio aperto e non più
dissimulato delle grande borghesia, delle oligarchie industriali e
finanziarie, cui la media e la piccola borghesia dovevano e devono
lustrare le scarpe e fornire il personale subalterno delle forze
della controrivoluzione.
Tuttavia
l'alleanza con la Democrazia Cristiana, nell'immediato. dopoguerra e
fino allo scoppio della guerra fredda, venne giustificata dagli
stalinisti e dai socialisti con la tesi che il partito democristiano
non impersonasse gli interessi del capitalismo italiano, ma
militasse nel campo delle cosiddette « forze popolari e progressive
», cioè nella coalizione antifascista delle masse lavoratrici e
degli strati « più evoluti» della media e piccola borghesia.
L'alone di militaresca gloria fumigante sui resti della guerriglia
partigiana servi a condire di un pizzico dl pepe rivoluzionario
l'unione sacra, e si parlò di una seconda rivoluzione democratica,
di « secondo risorgimento.
Nenni,
seguendo 'suo istinto istrionico, si drappeggiò da giacobino del
ventesimo secolo: si inneggiò alla rinascita della Democrazia, alla
riscossa sui « gruppi monopolisti », alla mortificazione della
dominazione totalitaria del grande capitale portata all'acme dal
fascismo mussoliniano. Ma era vero che, all'epoca della Esarchia e
del Tripartito, il potere dello stato poggiasse altrove che sulla
grande borghesia capitalistica? Era vero che « allora » la
Democrazia Cristiana fosse un partito democratico, esponente degli
interessi dei ceti medi, e quindi non ancora degenerato » nel
totalitarismo, come pretendono, per scusarsi degli amori passati,
stalinisti socialisti? E' chiaro che una risposta positiva
significherebbe lo sconfessamento del certificato di morte steso dal
marxismo alla democrazia. Eppure, la risposta positiva fu data, non
solo nel campo dottrinale, ma in quello pratico politico, dai
partiti di Togliatti e di Nenni.
Noi,
invece, non abbiamo mai riconosciuto al partito democristiano una
natura che non fosse capitalistica, e una funzione che non fosse
antiproletaria e controrivoluzionaria, e quando Togliatti e Nenni
sedevano accanto a De Gasperi e Scelba abbiamo riguardato costoro
come espressioni politiche di un potere che derivava dalla forza
materiale della classe capitalistica, e precisamente dalle forze
armate degli eserciti anglo-americani. Se è vero che le forze del
capitalismo italiano, dissestate ma non distrutte dalla sconfitta
militare, sonnecchiavano e si mimetizzavano, non pertanto poteva
parlarsi allora di governi fondati sull'alleanza della piccola e
media borghesia e delle masse sfruttate. Dietro le forze sanculotte
combattenti contro le orde reazionarie della Prussia e della Russia
zarista si ergeva la Comune del 1792, questo sì un potere
democratico fondato sulla piccola borghesia, sui contadini, sui
proletari urbani. Ma dietro il governo dei pervertiti politici,
spuntati nella fungaia dei C.L.N., e blateranti di democrazia, si
ammassavano i carri armati e i cannoni degli Stati più
capitalistici, più imperialistici, più antidemocratici della
terra: gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, per tacer della
Russia.
Non
c'era nemmeno e non c'è il potere della Chiesa, dietro la
Democrazia Cristiana sortita dai Comitati di Liberazione. C'erano i
generali di un paese capitalista, gli. U.S.A., che meno di tutti i
poteri borghesi ha avuto bisogno degli strumenti ecclesiastici per
assurgere alla strapotenza schiacciante, che oggi pesa sul
proletariato mondiale. Perciò, non abbiamo mai riconosciuto alla
Democrazia Cristiana il carattere dì partito clericale. Quale
enorme confusione di termini! Partiti clericali erano, al tempo
della rivoluzione antifeudale del secolo decimottavo, quelle forze
politiche che riflettevano gli interessi della classe dominante
aristocratico-ecclesiastica, e militavano per-tanto nel campo nemico
della Democrazia, stendardo della borghesia. Clericali erano nel
1793 le orde controrivoluzionarie della Vandea, ribelli di fronte al
governo rivoluzionario della Democrazia giacobina. Allora, non si
poteva essere nello stesso tempo , democratici e clericali, non lo
si può oggi, a meno che non si seguano le ciarlatanesche teorie
storiche di un Nenni. Per noi la Democrazia Cristiana non è stata
ieri, non è oggi, né democratica né clericale, ma è stata ed è
soltanto borghese. E siccome non si può, dall'epoca del massacro
della Comune, essere forza di governo del capitalismo senza essere
totalitari, la D. C. doveva nascere e crescere totalitaria;
fascista, se preferite.
Perciò,
non abbiamo atteso che il Ministero De Gasperi imbavagliasse la
stampa, permettesse le manifestazioni neofasciste, mettesse mano ai
decreti legge, ecc., ecc. per scorgere in essa il partito
qualificato della reazione capitalistica italiana. Non l'abbiamo
atteso per vedere in essa l'erede dei fascismo, perché sappiamo con
Marx che il potere della borghesia, lo Stato borghese, nacque
storicamente come potere della grande borghesia detentrice dei mezzi
di produzione e dei prodotti. Perché sappiamo che i brevi fugaci
esperimenti di governi democratici piccolo-borghesi furono possibili
solo in epoche anteriori al 1860-80 in cui il recente trionfo del
modo di produzione capitalistico non aveva ancora per-messo in pieno
la concentrazione dei capitali ín mostri industriali strapotenti e
la necessaria progressiva espropriazione e subordinazione economica
dei cosiddetti ceti medi, della piccola proprietà. in Italia, come
ín tutti i paesi capitalistici, la concentrazione del capitale e la
trasformazione dei « ceti medi » in lacchè del grande capitale
era un fatto compiuto molto tempo prima che De Gasperi sbucasse
dalle biblioteche vaticanesche e Togliatti dal bombardiere inglese
proveniente da Algeri.
Se
oggi succede che il capitalismo italiano abroga le concessioni
formali, più apparenti che reali, e mostra senza dissimularlo il
brutale e tirannico volto di uno spietato dominio di classe, ciò
non ci sorprende. Se per fascismo si vuole intendere la dominazione
spietata dei capitalismo, ebbene si può dire che il capitalismo è
nato fascista. I regimi di Mussolini, di di Franco non dovevano che
rendere palese questa verità, colta da un secolo dal marxismo. De
Gasperi sta facendo del suo meglio per imitarli. Come movimento
politico secolare, noi abbiamo visto morire la democrazia
piccolo-borghese quando era veramente reale, e non abbiamo sprecato
una sola lacrima sul suo miserabile cadavere. Non lo faremo oggi,
che è solo un fantasma. Il partito democristiano non ha ritegno di
invocare « un partito forte per uno Stato forte », cioè fascista?
I proletari non debbono invocare la resurrezione del cadavere della
Democrazia, ma lavorare a gettare le fondamenta di un partito di
classe forte, più forte del partito e dello Stato borghese,
prepararsi teoricamente e politicamente per rispondere alla violenza
organizzata del totalitarismo borghese con la violenza organizzata
della rivoluzione di classe.
Battaglia
comunista, n.1, 9-23 gennaio 1952
Articolo ripreso da VENTO LARGO il 31 gennaio 2022
In mezzo a una situazione dominata da logiche emergenziali reiterate in ogni contesto che certo non favorisce la discussione sulle ragioni di fondo del disagio sociale, nelle ultime settimane in Italia si è tornati a parlare del sistema fiscale. L’occasione è venuta dalla pressione dell’Unione Europea che ha posto condizioni per il rilascio dei finanziamenti necessari all’attuazione del PNRR. Il risultato partorito è stato una misura inserita all’ultimo momento nella legge di bilancio ben lontana da una riforma strutturale orientata a sanare i vizi di fondo di un sistema fiscale che non contrasta ma protegge le disuguaglianze e i redditi patrimoniali. Francesco Gesualdi continua ad augurarsi che la recente modifica rappresenti solo il primo passo di una più profonda operazione di equità fiscale che dovrebbe necessariamente basarsi su quattro principi: no tax area, cumulo dei redditi, progressività estesa ai redditi alti, obbligo di dichiarazione comprendente non solo i redditi percepiti ma anche i patrimoni detenuti
Adistanza di quasi cinquanta anni dell’introduzione dell’imposta sulle persone fisiche, l’Italia sta ancora cercando la strada per tassare i suoi cittadini con una certa equità. Memore del dettato costituzionale che impone di ispirare il sistema fiscale al principio di progressività, quando la riforma partì nel 1974 prevedeva 32 scaglioni, col primo al 10% su 13.321 euro e l’ultimo al 72% oltre 3,3 milioni di euro, precisando, ovviamente, che stiamo parlando di redditi rivalutati secondo il costo della vita di oggi.
Ma appena dieci anni dopo gli scaglioni li troviamo ridotti a nove e rimodulati secondo diversi livelli di reddito. La scelta, proseguita anche negli anni successivi, fu quella di innalzare marcatamente le aliquote medie sui redditi fino a 50mila euro, mentre si procedeva con aumenti più leggeri fino a 500mila euro, applicando addirittura una riduzione oltre tale soglia.
L’ultima riforma del 2007, poi rimasta in vigore fino al 2021, aveva praticamente raddoppiato le aliquote medie fino a 33mila euro, aveva fatto crescere di 10-12 punti quelle applicate fino a 120mila euro, di 1-10 punti quelle fino a 532mila euro, mentre aveva fatto scendere di 3 punti le aliquote sui redditi fino a un milione di euro e addirittura di 16 punti quelle oltre 3,3 milioni di euro. Probabilmente il legislatore si era accorto che il 90% dei contribuenti italiani si trova al di sotto di 50mila euro e per garantire allo stato un adeguato gettito fiscale aveva deciso di inasprire la pressione fiscale su tali fasce.
Tuttavia le aliquote ufficiali sono solo l’aspetto più in vista del sistema fiscale, non la vera misura di ciò che i cittadini pagano. In effetti, almeno in Italia, esiste tutto un sistema di detrazioni e agevolazioni che di fatto riducono anche in maniera drastica gli importi da pagare. Chi le ha censite ne ha contate 602.
Ogni tipo di reddito ha la propria: non solo quello da lavoro dipendente, da pensione, da lavoro autonomo, da attività sanitaria libero professionale intramoenia, da partecipazioni a commissioni tributarie, ma anche quello ottenuto dai parlamentari e molte altre cariche elettive.
Niente di male, ma il guaio delle detrazioni è che fanno perdere di trasparenza al sistema fiscale e lo rendono altamente disuguale senza che nessuno se ne renda veramente conto. Per di più lo espongono a forti pressioni di tipo clientelare, nel senso che rischiano di essere favorite le categorie con maggiore capacità di battere i pugni sul tavolo e quelle che i politici hanno interesse ad accontentare.
Recentemente in Italia si è riacceso il dibattito sulla riforma del sistema fiscale, anche su pressione dell’Unione Europea che l’ha posta come condizione per il rilascio dei finanziamenti necessari all’attuazione del PNRR.
Ma il risultato partorito è stato una misura inserita all’ultimo momento nella legge di bilancio approvata nel dicembre 2021, che ha più l’aria del provvedimento tampone che della vera riforma strutturale orientata a sanare i vizi di fondo. Le aliquote sono state portate da cinque a quattro, lasciando immutata quella del 23% fino a 15mila euro, riducendo le due successive fino a 50mila euro e appesantendo di 2-5 punti quella fra 50 e 75mila euro su cui si applica l’ultima aliquota del 43% che prima scattava oltre i 75mila euro.
Contemporaneamente sono state ritoccate anche numerose detrazioni e il risultato finale è che tutti gli scaglioni di reddito godono di una riduzione d’imposta a volte più marcata sui redditi bassi, a volte sui redditi medio alti a seconda del tipo di reddito percepito. Per lo Stato, il risultato previsto è una perdita di 7 miliardi di euro che sarà coperta con nuovo debito. Il solito vecchio vizio di fare le riforme sociali non con operazioni di livellamento tributario, ma scaricando il peso sulle generazioni future.
Ora non rimane che sperare che la recente modifica rappresenti solo il primo passo di una più profonda operazione di equità fiscale che deve necessariamente basarsi su quattro principi: no tax area, cumulo dei redditi, progressività estesa ai redditi alti, obbligo di dichiarazione comprendente non solo i redditi percepiti ma anche i patrimoni detenuti.
La no tax area va introdotta per garantire a tutti un minimo vitale inviolabile. Il cumulo dei redditi va sancito per evitare lo scandalo attuale che sottopone a progressività quasi esclusivamente i redditi da lavoro e da pensione, mentre garantisce la flat tax ai redditi derivanti da proprietà patrimoniali.
Un doppio regime che contribuisce a rendere i ricchi sempre più ricchi a danno dell’erario come testimonia la recente ricerca realizzata dal Centro Einaudi e da Intesa Sanpaolo sul risparmio e le scelte finanziarie degli italiani nel 2021. Dall’indagine emerge che nell’ultimo anno i risparmi degli italiani sono aumentati di 110 miliardi di euro, mentre i risparmiatori sono diminuiti di 6,5 punti percentuale. Detto in un altro modo: sono aumentate le disuguaglianze.
La progressività deve essere moltiplicata sui redditi alti, quelli oltre 100mila euro, anche se sono pochi i percettori di redditi così elevati. L’equità redistributiva è un valore che va applicato indipendentemente dalla statistica. Oltre a rafforzare la cultura della giustizia, alte aliquote sui super redditi contribuiscono a riempire le casse pubbliche perché alti prelievi su alti redditi forniscono gettiti ragguardevoli anche se il numero di contribuenti è basso.
E per finire, l’obbligo esteso a tutti di presentare la propria situazione economica sia da un punto di vista reddituale che patrimoniale, avrebbe come minimo una funzione anti frode in quanto permetterebbe di verificare la congruità dei redditi. Se una persona dichiara 5mila euro all’anno, ma possiede depositi bancari, titoli borsistici, auto di lusso, case, qualcosa non torna.
Sulla base di questi principi l’associazione ARDEP propone di tornare ad un sistema molto differenziato con l’introduzione immediata di 20 scaglioni fino al limite di 300mila euro, riservandosi di introdurne di ulteriori fino a 600mila euro o anche oltre. Ma un altro aspetto interessante della sua proposta è l’introduzione di una no tax area, ipotizzata a 10mila euro, che assorba la giungla di detrazioni d’imposta oggi esistenti. In altre parole fino a 10mila euro nessuno dovrebbe pagare niente perché, come affermò l’On. Scoca in sede di Assemblea Costituente, “il cittadino prima di essere chiamato a corrispondere una quota parte della sua ricchezza allo Stato, deve poter soddisfare i bisogni elementari di vita suoi propri e della propria famiglia”.
Ed è proprio in virtù di questo riconoscimento che Ardep non si limita a proporre l’esonero contributivo fino a 10mila euro, ma propone che chi percepisce redditi inferiori, riceva un’integrazione da parte dello stato fino al raggiungimento del limite esente. In termini tecnici questo meccanismo si definisce “imposta negativa sul reddito”, ma più popolarmente potrebbe essere chiamato “reddito di cittadinanza di tipo compensativo”.
L’imposta negativa sul reddito può funzionare solo se tutti hanno l’obbligo di dichiarare i propri redditi anche se fossero pari a zero. In questo modo si contribuirebbe a risolvere anche un’altra grave piaga che è quella dell’evasione fiscale. Per ammissione generale il primo passo verso la legalità è l’emersione dalla clandestinità, ricordandoci che al momento risultano oltre 5 milioni di cittadini che non presentano dichiarazioni al fisco.
E a conclusione della propria proposta, Ardep dimostra che il suo impianto oltre a garantire un reddito di almeno 10mila euro a tutti i contribuenti, non ridurrebbe di un centesimo l’attuale gettito IRPEF. Anzi lo innalzerebbe di 24 milioni di euro attestandolo su 165 miliardi e 140 milioni di euro.
Ma con una diversa partecipazione contributiva da parte dei diversi scaglioni di reddito. Fondamentalmente calerebbero le aliquote medie di chi percepisce redditi fino a 50mila euro, mentre salirebbero quelle di chi ha redditi oltre tale soglia. Un sano riequilibrio contributivo che converrebbe non solo all’equità, ma anche alla dignità e alla convivenza sociale.
Articolo ripreso da https://comune-info.net/lequita-tributaria-che-non-ce/ pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire
Sono diventato amico di Nino Buttitta negli ultimi anni della sua vita, quando aveva perduto qualsiasi potere e non era più il temuto prof. di antropologia culturale e il Preside della Facoltà di Lettere dell'Università di Palermo.
Tra le tante cose fatte insieme mi piace stasera ricordarne due: 1) La sua partecipazione al Convegno su Leonardo Sciascia svoltosi a Marineo nel novembre del 2004; 2) Essere andati insieme a trovare il figlio Emanuele nella sua casa di campagna a Polizzi Generosa.
E proprio da Emanuele Buttitta ho saputo di questo suo nuovo libro che sarà presentato giovedì prossimo:
"Dopo Antropologia e Letteratura, viene pubblicato, secondo volume postumo, Vincereil drago, per l'editore Sellerio. [...]. Me ne ero dimenticato, perso fra le bollette, gli scrutini prossimi, i lavori in campagna e i giochi con i bimbi. In definitiva, mi sono semplicemente preso cura del padre."
Al Miur non basta proteggere questa alternanza scuola-lavoro (ora Pcto), bisogna ridurre la durata del liceo e dare spazio ai cosiddetti Ted, licei della “transizione ecologica digitale”, promossi da tante imprese. Per i giovani della generazione di Greta, grida Teachers For Future Italia, non è un sogno ma un incubo
Nel luglio 2015 il varo della riforma della scuola, fortemente voluta da Renzi, fu salutato dalla stampa confindustriale come un salutare salto verso la modernizzazione della scuola italiana. L’alternanza scuola-lavoro in particolare fu spinta dall’idea di risolvere la questione della disoccupazionema, dopo sette anni, saremmo curiosi di conoscere i dati relativi a quanti nuovi occupati siano veramente da ricondurre alle attività di “alternanza” svolti dalle scuole. Di certo ci sono l’imponente numero di ore sottratte alla formazione scolastica, alla lettura di libri, alla visione di film, a visite nei musei, ecc. e l’altrettanto importante ammontare di euro stanziati a favore di enti, fondazioni, associazioni ecc.
Per chi come noi crede nella necessità primaria di rendere la scuola pubblica sana, efficiente, democratica e capace di formare i cittadini che ci tireranno fuori dalla catastrofe liberista va detto che l’alternanza è il B52 della scuola democratica e del futuro dei ragazzi. Peraltro, parlando di alternanza è, con dolore necessario ricordare che proprio il giovane studente Lorenzo Parelli è stato la cavia mortale della catena dello sfruttamento nelle scuole.
Ma le riforme continuano, anche se servirebbe la sospensione di ogni “sperimentazione” e di ogni intervento legislativo sull’istruzione fino a fine emergenza, perché il mondo della scuola in questo momento avrebbe bisogno di tempo per riflettere e ritrovarsi, di individuare con calma, attraverso un ampio dibattito democratico, le proprie autentiche priorità, non di improvvisate “riforme” che aggiungono confusione a confusione, proseguono sulla linea dei disastri degli ultimi venticinque anni e vengono imposte frettolosamente da pochissimi (con la scusa di un Pnrr che dovrebbe essere di tutti) a un sistema già duramente provato, senza nessuna chiarezza su motivazioni, finalità e interessi che portano avanti e sulle conseguenze che potrebbero avere.
Il Liceo quadriennale, ultima novità in ordine di arrivo, sponsorizzata con enfasi dal ministro Patrizio Bianchi ne è proprio l’esempio plastico. Ennesimo taglio drastico all’istruzione pubblica, fatto passare per innovazione, nonostante il Consiglio di Stato abbia sonoramente bocciato questa sperimentazione. Nell’ambito di questo grave rilancio della scuola superiore quadriennale appare meritevole di denuncia anche la comparsa dei cosiddetti “TED”, Licei della Transizione Ecologica Digitale, incentrati su materie STEM, promossi da tanti soggetti appartenenti al mondo delle imprese. Si andrà a scuola di transizione ecologica e digitale insomma ma per i giovani della generazione di Greta Thunberg non è tanto un sogno quanto un incubo.
Nel nostro primo Manifesto, chiedevamo al MIUR “l’aggiornamento delle linee guida per la gestione dell’emergenza climatica in modo tale da concedere spazio all’attuale emergenza ambientale ed ecologica”, parlavamo di “cambiare la scuola per cambiare il sistema”. Assistiamo invece all’entrata a gamba, non tesa ma tesissima, delle multinazionali nel sistema formativo italiano. Assistiamo al tentativo, assolutamente esplicito di trasformare le scuole italiane in fondazioni private, all’istruzione pubblica targata con i marchi di grandi aziende, all’idea nefasta di scuola completamente subordinata alle esigenze di impresa. La cosa raccapricciante è che tutte queste aziende, presentandosi come leader di sostenibilità, avranno la possibilità di intervenire direttamente nella didattica, riscrivendo i curricola scolastici, e al contempo di gestire anche i PCTO. Studenti come polli da allevamento del Capitale insomma.
A questo si aggiunga che è assurdo trasmettere nella didattica l’idea che affrontare la crisi climatica resti esclusiva delle materie scientifiche, quando dovrebbe essere piuttosto un approccio trasversale a tutte le materie di studio. Di transizione lor signori vedono con chiarezza una cosa: quella dei soldi che dalle casse dello Stato transitano verso nuove istituzioni, fondazioni, enti privati dove esercitare strategicamente un’educazione rigidamente aziendalista e liberista, dove agli alunni venga anzitutto insegnato a “credere, obbedire e combattere” per i profitti delle aziende. Il resto.. è noia mortifera e pubblicità. In definitiva, se il ministero della pubblica istruzione capisse che l’educazione è importante per far fronte alla crisi climatica, si prenderebbe in carico il progetto e lo affiderebbe a Ong e Associazioni Ambientaliste ma evidentemente sta facendo l’ennesimo favore a Confindustria.
Per
qualche tempo mi ha acquietato il seguente pensiero: «Naviganti
inabissati in vista della costa cilena, affidano al mare, chiuse in
una bottiglia, delle annotazioni relative alle loro ultime ore, e
pescatori cileni sturano tale bottiglia magari dopo vent’anni;
sebbene non capiscano affatto i segni di quella scrittura a loro
ignota, tuttavia rivivono con essa l’esperienza di un naufragio in
mari estranei». Le acque schiumanti hanno ingoiato coloro che il
messaggio lo hanno scritto, ma i segni della scrittura, freschi come
il primo giorno, non denunciano quanto tempo è passato. Come sarebbe
ridicolo il messaggio se lo si potesse leggere; infatti nella vita è
impossibile trovare una parola che non turbi il silenzio, che sorga
dal vuoto di quanto è naufragato ed esprima qualcosa che non sia
malvagio.
Sennonché
alla lunga questo pensiero non mi ha soddisfatto, perché aveva
un’aria troppo consolatoria per sembrare vero […] Come lei sa,
esistono inchiostri simpatici che restano leggibili per un periodo di
tempo e poi svaniscono. Indubbiamente quello che vale la pena
scrivere dovrebbe essere vergato con un inchiostro siffatto. A questo
punto mi resta da dire soltanto che il mio amato scomparve
completamente dal mio orizzonte - e a quanto pare, per sempre - circa
un anno fa, dunque circa due anni dopo la consegna della lettera, la
quale non è altro che un foglio bianco. Io, che ho avuto la pazienza
di aspettare per tre anni un messaggio sempre meno a me destinato,
posso unicamente aggiungere di aver sempre creduto che l’amore è
un destino non rimesso alla libera volontà dell’amante, e che esso
è comunque una faccenda di esclusiva pertinenza di colui che ama.
BERTOLT BRECHT
Il
brano è tratto dal racconto: “Il messaggio nella bottiglia”
(pagg. 74-77).
A quasi tutti potrà sembrare assurdo, ma l’economia, così come la intendiamo ai giorni nostri, non è affatto qualcosa di eterno. Per dirla in modo grossolano, precisa Serge Latouche in questa bella e recente intervista di Emanuele Profumi, essa è nata nel XVIII secolo e finirà, o forse sta per finire. Tuttavia, la colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economicismo è così forte da convincerci che si tratti di qualcosa di naturale. Impossibile viverne fuori. Così come sembra impossibile uscire dal dominio di un sistema che detestiamo, un sistema che appare invincibile ed è segnato invece, oggi più che mai, da una fragilità estrema. Cornelius Castoriadis, un pensatore che sull’immaginario e le istituzioni aveva ragionato parecchio, dice che le categorie economiche sono delle “significazioni immaginarie sociali”. Sono quindi istituite e non hanno proprio nulla di naturale o di eterno. Un’affermazione che chiarisce in modo sostanziale perché la proposta della decrescita, spiega Latouche, non debba mirare a costruire “un’altra economia” ma è la proposta di un’altra civiltà, che abbandona il capitalismo inteso come modernità: è una fuoriuscita dalla civiltà moderna. Un’economia che obbedisca alle leggi della vita, infatti, non sarebbe più “l’economia”. Sarebbe una scienza sociale che è, allo stesso tempo, antropologia e sociologia
foto: reciclaje directo blogspot.com
Serge Latouche è senza dubbio il padre nobile del movimento della decrescita, di cui si parla ormai da diversi decenni con sempre maggiore interesse. Nonostante le sue precarie condizioni di salute, siamo riusciti a farlo intervenire nel nostro dibattito sull’alternativa economica al modello attuale, insostenibile dal punto di vista ecologico. Con il suo caratteristico temperamento composto e rispettoso, il suo volto acuto, a metà strada tra Corto Maltese e Sean Connery, ha spiegato e EconomiaCircolare.com perché l’unica soluzione davanti alla crisi ecologica è abbandonare definitivamente l’economia.
Iniziamo con una domanda ineludibile: cosa pensa dell’economia circolare? La possiamo considerare come parte del progetto della decrescita?
Conosco l’economia circolare da diversi anni ormai, da quando la regista Madame Cosima Dannoritzer stava girando un film di un certo successo, “Made to break”, in cui veniamo intervistati io e Michael Braungart, autore della bibbia dell’economia circolare, “Cradle to cradle”. L’idea di un’economia che non funziona più in modo lineare, bensì circolare, è perfettamente in sintonia con il progetto della decrescita. È uno strumento per ridurre l’impronta ecologica.
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L’economia incentrata sul riciclo, però, ha un suo significato solo dentro questa prospettiva, mentre se la consideriamo al di fuori della decrescita è una truffa. Lo dico perché, sia a Bruxelles, sia in Francia, questo tipo di economia si usa proprio per non affrontare la necessità della decrescita. Si dice infatti: “Con l’economia circolare si può crescere all’infinito”. Ma quest’idea è una truffa. Basti considerare la cosa più ovvia: nel processo circolare non si può riciclare tutto, perché ciò che si perde maggiormente a livello economico, è l’energia; che non solo sparisce in qualsiasi processo produttivo ma che, se si usa il petrolio, non si potrà proprio più recuperare: non è rinnovabile né riciclabile. Inoltre, va considerato anche che le risorse rinnovabili possono essere riciclate sino ad un certo punto, e mai totalmente. E solo grazie ad una grande quantità di energia. Oggi, per esempio, la cosiddetta economia numerica consuma le cosiddette “terre rare”, cariche di metalli rarissimi. Sono molto limitati e difficili da lavorare, perché ci vuole un’enorme quantità di energia e di acqua. Per produrre delle tonnellate di questi prodotti si devono manipolare migliaia di tonnellate di terra. Si genera, così, uno spreco e un consumo incredibile. Il riciclaggio di questo materiale è in proporzione meno del 10% di quanto prodotto inizialmente, ed è molto difficile e molto costoso.
Insomma, cos’è l’economia circolare? Il fatto di poter riciclare il massimo, il più possibile. Ecco perché riciclare rientra in una delle 8 R che definiscono cos’è la decrescita, ed ecco anche perché la sua filosofia economica va bene all’interno di questo progetto ma se sviluppata al di fuori di esso, al contrario, diventa una truffa, ossia un’operazione di “greenwashing”.
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Cosa pensa allora del Pnrr, che fa esplicito riferimento all’economia circolare?
Ho già parzialmente risposto. Esso è l’espressione di una grande operazione in cui si cerca di rispondere ai problemi ecologici senza rimettere davvero in causa il sistema. In questo senso è completamente interna alla logica del greenwashing. Naturalmente, non è sbagliato cercare di riciclare, ma così si fa finta di credere che questo sia sufficiente per ridurre o eliminare il cambiamento climatico, e anche per risolvere gli altri problemi ecologici.
Da diverse settimane stiamo proponendo un dibattito pubblico sulle alternative all’economia neoliberista e alle teorie economiche “mainstream”. Secondo lei esistono delle proposte economiche, anche teoriche, che sono degne di interesse ed estranee al modello capitalista attuale? Quali sono quelle ecologicamente sostenibili che si possono avvicinare al benessere frugale a cui fa riferimento con la decrescita?
È chiaro che esistono delle alternative economiche al neoliberismo, come ad esempio il vecchio keynesismo. Il problema è che delle alternative economiche compatibili con la sostenibilità della nostra civilizzazione non esistono. Perché? Perché qualsiasi tipo di economia (keynesiana, liberista, socialista, etc) è incompatibile con l’ecologia. Per questo insisto spesso, quando parlo di decrescita, sull’esigenza di “uscire dall’economia”. Questo è molto difficile da far capire, perché l’economia non è qualcosa di eterno, ma, per dirlo in modo grossolano, è nata nel XVIII secolo e finirà, o forse sta per finire. Tuttavia, la colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economicismo è talmente forte che la gente pensa che si tratta di qualcosa di universale e di naturale, e che quindi è impossibile vivere fuori dall’economia, seguendo invece una logica basata sul lavoro.
Tutte le categorie economiche sono, come diceva il nostro amico Cornelius Castoriadis, delle “significazioni immaginarie sociali”, e quindi sono istituite e non hanno nulla di naturale. Per questo la proposta della decrescita non mira ad “un’altra economia”, ma è la proposta di un’altra civiltà, che abbandona il capitalismo inteso come modernità: è una fuoriuscita dalla civiltà moderna. Per questo possiamo riprendere una parola, inizialmente usata solo da André Gorz, che è “l’ecosocialismo”. La decrescita è un progetto ecosocialista, ma nell’ecosocialismo il socialismo non va inteso come un’alternativa economica, o come “un’altra economia”, ma come la fine dell’economia. Se lo leggiamo bene, anche in Marx e nella sua epoca, c’è l’idea di fuoriuscire dall’economia, solo che, alla fine, il marxismo è stato totalmente colonizzato dall’economicismo da non riconoscerlo.
Quindi neanche teorie come quelle di Nicholas Georgescu Roegen possono aiutarci a fuoriuscire dall’economia capitalista e dall’economicismo che la domina?
L’apporto principale e fondamentale di Georgescu Roegen è quello di aver dimostrato che sia l’economia, sia l’economia capitalista, sia la teoria economica, sono state costruite sulla base del meccanicismo newtoniano e sono state intese come qualcosa di irreversibile. La vita concreta, sia quella economica sia tutte le altre sue forme, non si svolge nel cielo astratto della matematica, come fa la teoria economica, ma nel mondo reale che subisce le leggi della fisica, e prima di tutto della termodinamica. La seconda legge della termodinamica ci dice che il tempo è irreversibile, e la legge dell’entropia ci dice che la benzina che abbiamo bruciato nel motore della macchina fa in modo che le molecole esistono ancora. Passiamo da una bassa entropia ad un’alta entropia. Ma esse non sono più riutilizzabili. Per questo il processo non è circolare, bensì, purtroppo, irreversibile. Per questo, Georgescu Roegen sta affermando che al posto della teoria tradizionale dobbiamo cercare di realizzare una bioeconomia. Un’economia che obbedisce alle leggi della vita. Ma questa non sarebbe più “l’economia”. Sarebbe già diventata una scienza sociale che è, allo stesso tempo, antropologia e sociologia. Georgescu Roegen è importante, così come la sua critica agli economisti sottomessi alla logica matematica invece di assumere una visione dialettica, ma il suo limite è che l’idea di un’altra economia non l’ha portato a rinunciare all’economia come “scienza economica”. In questo senso è molto interessante il percorso di uno dei suoi allievi, Mauro Bonaiuti. Una volta che quest’ultimo ha adottato la decrescita, poco a poco, è arrivato ad abbandonare l’idea de “l’altra economia”.
Mi sembra di capire che bisogna abbandonare il termine economia e, al contempo, la teoria economica, per ritrovare, in fondo, il senso originario del termine: l’oikos. Un pensiero su come si riorganizzano gli interessi, i bisogni e i desideri. Per farlo bisogna abbandonare la disciplina della teoria economica. Quindi quando lei si riferisce all’idea che le risposte economiche, politiche, giuridiche, devono essere legate al posto, al luogo specifico in cui uno si trova, e non possono essere generalizzate, si riferisce al fatto che ci debba essere “un’autonomia delle culture” rispetto al problema della società capitalista, e quindi dell’imposizione di una certa economia a livello globale. Ma, se questo è vero, come la mettiamo con il sistema finanziario e, più in generale, con il sistema economico globale? Come riusciamo ad affrontarlo e sostituirlo in qualche modo, o proprio a farlo venire meno, senza che vi sia una risposta da generare a livello globale? Restano dei problemi, come la catastrofe ecologica in corso, che vanno affrontati a livello planetario: non pensa che bisognerebbe dare una risposta globale anche dal punto di vista “economico”?
Come sai, la parola d’ordine dell’ecologia politica della prima generazione era: “Pensare globalmente, agire localmente”. Questo era giusto, perché negli anni ‘60-’70, quando è nata l’ecologia politica, era impossibile concepire un’azione a livello planetario, e il mondo era diviso tra primo mondo, secondo mondo e terzo mondo. Oggi si vede che, dal punto di vista economico, il mondo è diventato unico e che il più grosso problema ambientalista è il cambiamento climatico, che non si può risolvere a livello locale. Lo si può fare solo a livello globale. Allora la parola d’ordine “pensare localmente e agire globalmente” ha una sua verità. Oggi, in sostanza, bisogna prenderle entrambe: “Pensare localmente e agire globalmente” e “pensare globalmente, agire localmente”.
Questo ci fa capire perché ho detto che il progetto della decrescita non è lo stesso in Senegal o in Portogallo, nel Nord e nel Sud del pianeta. Una volta liberata dalla gabbia di piombo dell’economicismo ritroviamo la diversità. E si deve ritrovare la diversità culturale di altri mondi, non creare un altro mondo, come diceva il Subcomandante Marcos. Quindi vanno considerati due tempi diversi. Oggi viviamo nell’epoca in cui abbiamo un tempo unico dal punto di vista economico, e dobbiamo uscire da questo mondo. Per questo dobbiamo essere solidali, come umanità. In primo luogo, dobbiamo uscire dall’imperialismo dell’economicismo. Una volta che ci siamo liberati, è bene che si ricostruisca ogni gruppo umano in modo autonomo, anche se resta il legame che tutti i gruppi avranno a livello globale. Ma ciò non implica uno Stato mondiale, bensì un loro modo diverso e autonomo di organizzarsi, per creare una società sostenibile, delle società diverse tra loro. Mondi diversi. Questa è la mia prospettiva: il “Pluriverso”; l’idea del teologo indo-catalano Pannikar, è centrale.
Certo. Ma come si può decostruire l’economia globale? È come se lei indicasse che la via da percorrere è quella che parte dal locale, senza però trattare il livello globale.
A livello locale ci sono diverse esperienze comunitarie. Alcune usano la moneta locale, hanno dei circuiti specifici. Possiamo anche ricordare le “Transition towns” inglesi e l’autorganizzazione locale. Ma questo discorso, ovviamente, ha dei limiti. Perché ciò sarà possibile principalmente solo quando il sistema finanziario globale sarà crollato, e personalmente sono convinto che crollerà da solo.
Considera anche che le altre istituzioni globali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, crolleranno o dovrebbero crollare, giusto?
Sì.
Perché, al di là delle grandi multinazionali, sono queste le istituzioni che reggono il sistema giuridico-politico-economico dell’attuale globalizzazione.
Sì. Ma questo sistema, che sembra così forte, in realtà ha una fragilità incredibile. Può crollare da un giorno all’altro, perché tutto questo sarà obbligato ad affrontare molti problemi. Oggi si è sempre più consapevoli di questo. Noi non lavoriamo per domani, dato che già oggi viviamo una forma di collasso del sistema. Noi lavoriamo per dopodomani, quando speriamo che il collasso non generi forme radicalmente dispotiche per l’umanità.
Le criptovalute, che dal bitcoin in poi sono molto diffuse ormai, sono a tutti gli effetti delle monete globali. Nel caso in cui non le considerasse interne al progetto della decrescita, come potrebbero scomparire?
Su questo non sono molto esperto o competente. Penso che il bitcoin sia una truffa. Ma se prendiamo il sistema delle monete parallele, locali, quando esse non sono orientate alla speculazione e servono per fare funzionare localmente delle piccole società, allora un sistema virtuale può anche essere utile e permettere di organizzarci meglio. Ma di sicuro non come il bitcoin, che è solo il prodotto dello sviluppo della predazione capitalista.
Anche facendo riferimento al suo ultimo libro – “Il Tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per riprenderci il futuro” (Il Margine, 2021) – come è possibile affrontare una creazione della cultura consumista che sembra quasi onnipervasiva, ossia il sistema massmediatico che si basa sulla messa al centro della finzione piuttosto che sul riconoscimento dei fatti (che è quello che accade in un contesto di guerra, dove saltano tutte le verità e si costruisce una realtà fittizia seguendo una logica puramente strumentale), e avviare quella che lei chiama una “decolonizzazione dell’immaginario”?
Chiaramente ci troviamo davanti ad un grosso problema, e dobbiamo affrontarlo. A suo tempo era un problema che si era posto anche Castoriadis: come uscire dall’immaginario in cui viviamo e creare un nuovo immaginario. Sembra una sfida titanica. Perché siamo tutti formattati e interni all’impero mediatico. Bisogna pensare, però, che anche nell’essere umano più manipolato c’è una capacità di resistenza. Fortunatamente il nostro cervello è composto da due emisferi: uno è totalmente colonizzato e l’altro resiste. Non si tratta di ottimismo. Basta guardare ai giovani, che dovrebbero essere totalmente colonizzati e invece li vediamo far nascere dei nuovi movimenti, come quelli di Greta Tunberg, che sono più resistenti e dissidenti di quelli dei loro genitori. La dissidenza è ineliminabile. Questo l’abbiamo visto anche in società dove vigeva il totalitarismo più duro. Naturalmente il nostro problema è quello di far diventare quella che oggi è una minoranza, la maggioranza. In Francia, se guardiamo alle prossime elezioni presidenziali, è emerso nel dibattito politico il tema della decrescita. Alcuni anni fa, al contrario, non se ne poteva proprio parlare. Oggi tutti i candidati alla Presidenza della Repubblica devono prendere una posizione rispetto al progetto della decrescita: è chiaramente qualcosa da discutere. È una vera novità. Il cambiamento di immaginario sarà lento. Anche se la storia, come sempre, ci riserverà delle sorprese.
L’indebitamento è uno dei meccanismi centrali che sorreggono l’economia capitalista, e, come ricorda anche Castoriadis a cui fai giustamente riferimento, è l’espressione più chiara dell’eteronomia umana nella nostra società: la dipendenza continua da qualcun altro o da istituzioni e gruppi sempre più importanti dal punto di vista del potere economico è un tratto distintivo del capitalismo di ultima generazione. Come possiamo decolonizzarci dell’immaginario del debito e delle istituzioni che lo assumono in sé?
Questa è proprio una conseguenza della colonizzazione dell’immaginario da parte dell’economia. Si parla sempre del debito o del problema del debito, o come pagare il debito. Tutto questo è un problema di contabilità. Ad ogni debito, infatti, corrisponde un credito. Se non si pagano quelli che detengono del debito gigantesco, che corrisponde a delle somme enormi, si produce una bancarotta. Ma cosa può succedere davvero? Guardiamo meglio la questione: chi ha del credito da riscuotere non ha bisogno di quel denaro, e usa il debito come uno strumento per avere del potere, per esercitare il potere su chi l’ha contratto. Parliamo, per esempio, delle poche persone che, sommate insieme, detengono il 90% della ricchezza prodotta nel mondo. Nel XVI secolo, quando Carlo V è andato in bancarotta, i crediti non sono stati pagati ai banchieri di Genova. I debiti sono stati cancellati. Anche oggi sappiamo, e penso che tutti lo sappiano, che il debito non verrà mai pagato. Il punto rimane questo: come facciamo a uscirne? Secondo me è parte del processo di fuoriuscita dall’economia: il problema è che rimaniamo all’interno della logica del mercato e del capitalismo.
Quindi la soluzione sarebbe quella di aspettare la catastrofe economica e non pagare il debito, giusto?
Sì. Intendiamoci però: il fallimento dell’attuale sistema economico sarà una catastrofe per tutti, a livello di vita quotidiana. Ma di bancherotte nella storia ne abbiamo vissute diverse. C’è qualcosa di cui gli storici dell’economia non parlano mai: diversi anni fa, il primo ministro islandese è andato a Davos e ha affermato: “In Islanda si vive molto bene, perché abbiamo cancellato il debito, e questa è la soluzione alla crisi economica”. Ma non se n’è parlato. Si dovrebbe rileggere bene la storia, ma purtroppo gli economisti non sono degli storici.