UN
PAESE NERVOSO, ITALIA 1859-1925
di
Andrea Sartori
[Il
testo che segue, ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=45604
, è la traduzione leggermente modificata di un estratto da L’ansia
della modernizzazione,
il capitolo introduttivo del volume appena pubblicato di Andrea
Sartori, The
Struggle for Life and the Modern Italian Novel, 1859-1925,
Palgrave Macmillan, Cham (London), 2022].
Questo
libro si concentra sul rapporto tra la darwiniana lotta per la vita e
il romanzo italiano moderno poiché, negli anni tra l’unificazione
d’Italia e l’ascesa del fascismo, diversi scrittori diedero voce,
in maniere differenti, a delle ansietà connesse all’idea
d’evoluzione.
[…]
Diventare italiani
(o vivere per anni nella periferia meridionale dell’Impero
Austro-Ungarico, nel caso di Italo Svevo) comportava la possibilità
di scoprirsi non all’altezza delle nuove esigenze
sociali, politiche e religiose della storia – parliamo, in
definitiva, della paura d’essere sconfitti nella lotta per la vita
e di venire sepolti da eventi tanto grandiosi quanto terrificanti
fino al punto dell’estinzione. L’aristocrazia di De Roberto, ad
esempio, dovette lottare per “sopravvivere” all’unificazione e
per trovare un nuovo ruolo politico nel Parlamento italiano, vale a
dire una nuova forma di legittimazione sociale.
Secondo
il fisiologo, igienista, neurologo e antropologo Paolo Mantegazza
(1831-1910), uno degli scienziati italiani che contribuì alla
diffusione delle idee darwiniane nel regno unitario, il progresso e
la modernizzazione consistevano “nel lottare ogni giorno per andare
sempre più avanti e per salire sempre più in alto” (Il
secolo nevrosico,
Edizione Studio Tesi, Pordenone, 1994, p. 45). Per tale
ragione, sosteneva Mantegazza, la sensibilità degli individui del
diciannovesimo secolo (in Italia, ma anche in Paesi industrializzati
come gli Stati Uniti) a quel tempo era ormai patologicamente
auto-analitica e nevrotica. Dal punto di vista di Mantegazza,
il nervosismo e
le ansietà collegate a esso non erano il risultato accidentale delle
trasformazioni economiche e politiche del secolo; nervosismo e ansia
rappresentavano, invece, una vera e propria “malattia sociale”
(p. 88). Come ha sostenuto Donald Sassoon, tra il diciannovesimo
secolo e l’inizio del ventesimo il trionfo del capitalismo è stato
segnato da cicliche crisi d’ansia, alle quali il capitalismo stesso
ha tentato di porre rimedio (Il
trionfo ansioso: storia globale del capitalismo. 1860-1914,
Garzanti, Milano, 2022).
Mantegazza
prefigurò, potremmo aggiungere, quel che accade anche oggi in molti
Paesi occidentali, dopo decenni di precarie condizioni lavorative, di
collasso del welfare
state,
in altre parole, dopo la sconfitta della sociologia marxista per mano
(o, meglio, per l’artiglio)
dell’homo-lupus hobbesiano,
e darwiniano (di chi scrive si veda, a titolo esemplificativo e quale
libera prosecuzione d’una diagnosi impietosa di Mario Tronti,
“Class Struggle and Its Metamorphoses: A Path Through Postwar
Italian Political Thought”, Italian
Industrial Literature and Film,
a cura di Carlo Baghetti, Jim Carter e Lorenzo Marmo, Peter Lang,
Bern, 2021, 137-150).
L’autore
de Il
secolo nevrosico (1887),
infatti, scriveva che gli individui appartenenti alla “classe
media” erano nati metaforicamente “armati” e senza la
possibilità, nell’intero arco della loro vita, “di deporre le
armi”, per il fatto d’essere costantemente intrappolati in una
lotta psicologica per la sopravvivenza contro il nervosismo indotto
da una società eccessivamente e implacabilmente esigente (Il
secolo nevrosico,
p. 101).
Come
vedremo nel seguito di questo libro, molti dei protagonisti dei
romanzi esaminati sono affetti da un insieme di ansie sociali che
hanno le proprie radici nella dinamica ambivalente della
modernizzazione italiana, una modernizzazione che, come ha osservato
Michael J. Subialka, coincise almeno in parte con una “esperienza
di spegnimento” (Modernist
Idealism. Ambivalent Legacies of German Philosophies in Italian
Literature,
Toronto University Press, Toronto, 2021, p. 101). Per Subialka, il
pessimismo della filosofia di Arthur Schopenhauer prestò alcuni dei
propri concetti agli scrittori decadenti e modernisti, arrivando a
includere futuristi come Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), Bruno
Corra (1892-1976) ed Emilio Settimelli (1891-1954), i quali, ciascuno
a modo proprio, cerarono di confrontarsi con le difficoltà e le
contraddizioni della modernità. Tuttavia, riteniamo che anche il
vocabolario scientifico di Darwin fu d’aiuto nel decifrare le ansie
dell’esperienza di spegnimento della modernità italiana e nel
rappresentare tale esperienza in forma letteraria.
L’ansia
della modernizzazione è un’ansia collegata al movimento: in avanti
nel futuro, in alto nel ranking sociale,
all’estero – come si paleserà tra poco – per quanto riguarda
l’emigrazione e il colonialismo. Simone Pettine ha scritto, per
esempio, che ne I
Malavoglia (1881)
di Giovanni Verga una “ansia cinetica” affligge personaggi quali
Bastianazzo, Luca, Longa, Lia e il giovane ‘Ntoni (La
morte nel Verga romanziere,
Prefazione di Mario Cimini, Solfanelli, Chieti, 2020, p. 51). Questi
personaggi, per una ragione o per un’altra, s’allontanano da Aci
Trezza e di conseguenza si ritrovano a fronteggiare la morte o
qualche sua inquietante premonizione.
[…]
Se
ora spostiamo l’attenzione dall’arte alla politica, si può
sostenere che tra la seconda metà del diciannovesimo secolo e
l’inizio del ventesimo, la politica in Italia non si limitò
a internalizzare l’ansia
della modernizzazione, come invece la letteratura era incline a fare.
Rhiannon Noel Welch, infatti, ha mostrato che dopo l’unificazione
d’Italia si manifestarono nel Paese “tre ansie d’urgente natura
politica”, le quali erano collegate nientemeno che alla
possibilità, per la nuova entità politica, di sopravvivere come uno
stato-nazione unificato, cioè non frammentato: “la cosiddetta
questione meridionale, l’emigrazione di massa nelle Americhe, il
primo colonialismo nel Corno d’Africa e in Libia” (Vital
Subjects. Race and Biopolitics in Italy, 1860-1920,
Liverpool University Press, Liverpool, 2016, p. 7).
Mentre
la questione meridionale e l’emigrazione di massa ponevano,
rispettivamente, una minaccia interna e una minaccia esterna al
progetto italiano di costruzione dello stato-nazione,
l’esternalizzazione strategica
e la proiezione sulle colonie africane delle ansie della nazione
dovevano invece contrastare quelle minacce. In tal modo, l’Italia
puntava a risolvere i problemi della disoccupazione dei braccianti,
dell’espansione della produttività e dei mercati, e quello della
sua stessa esclusione dal “banchetto” delle potenze coloniali
europee. Come disse il primo ministro Francesco Crispi nel dicembre
1887, quando presentò la legislazione sull’emigrazione dell’Italia
unificata, la soluzione alla pressante e, per così dire,
paralizzante ansia della modernizzazione in Italia coincideva con
“l’allargamento dei confini della possibilità d’azione del
Paese e del suo potere economico” (p. 4).
“L’allargamento
dei confini” e l’estensione degli “arti” del Corpo-Paese
italiano oltre i suoi limiti geografici, scrive Welch, erano stati
pensati per valorizzare sia la produzione (economica) sia la
riproduzione (biologica) del bíos politico
italiano: consenso politico e, letteralmente, nuovi cittadini da
tenere sotto controllo tramite la regolamentazione demografica erano
i risultati attesi del colonialismo italiano durante gli anni del suo
esordio prefascista. Tuttavia, questo progetto biopolitico, razzista
e al tempo stesso rivitalizzante ebbe luogo in Italia su uno sfondo
culturale europeo caratterizzato da quello che il medico e critico
sociale ungherese Max Nordau (1849-1923) avrebbe definito
“degenerazione” nel suo eponimo e influente libro del
1892. Degenerazione non
era solo un attacco contro ciò che Nordau riteneva arte corrotta (ad
esempio le opere di Oscar Wilde); quel libro diede anche voce a
un’ansia estremamente specifica, a un sentimento (un terrore)
secondo il quale la fin
de siècle poteva
coincidere con un orribile e apocalittico “annichilimento del
mondo” (Degeneration,
D. Appleton and Company, New York, 1895, p. 2). Da tale punto di
vista, il discorso del 1887 di Crispi può essere ritenuto
rappresentativo della reazione politica italiana non solo ai problemi
interni del Paese (disoccupazione, emorragia migratoria, esclusione
dal club delle
potenze coloniali). Quel discorso era anche la risposta della nazione
alla minaccia d’estinzione che angosciava l’Europa alla fine del
diciannovesimo secolo (scriveva Nordau: “il sentimento prevalente è
quello d’una imminente perdita, d’una incipiente
estinzione”, ibidem).
In tale contesto, la parola “estinzione” non è scelta a caso,
poiché Nordau era stato profondamente influenzato da Darwin, sebbene
in via indiretta, tramite l’antropologo e criminologo Cesare
Lombroso (1835-1909). Lombroso aveva ripreso da Darwin la nozione di
“regressione” (a uno stadio primitivo dello sviluppo umano e
dell’evoluzione), allo scopo di rendere ragione, scientificamente,
del “delinquente nato”, ovvero, in termini più generali, della
degenerazione del comportamento criminale e della follia a esso
associata (L’uomo
delinquente,
1876). Nell’appassionata “Prefazione” dedicata a Lombroso,
Nordau riconosce in pieno il proprio debito intellettuale con lo
psichiatra italiano; al tempo stesso egli scrive che, mentre i
criminali nati uccidono, gli artisti degenerati, ma anche gli
scrittori e perfino i giornalisti usano la penna e i loro attrezzi
del mestiere intellettuale come armi metaforiche (pp. vii-ix).
Vedremo nel seguito che Svevo adotterà delle metafore simili in un
appunto del 1902, capovolgendo però il significato e il valore che
Lombroso attribuiva al paragone tra letteratura e violenza. Svevo,
per così dire, fece dello scrivere modernista una questione di vita
e di morte, uno strumento per la sopravvivenza da utilizzare per
puntellare le rovine della modernità, e non solo un sintomo di
corruzione e degenerazione.
In
un brano di Degenerazione,
Nordau fa riferimento all’ansia da “annichilimento del mondo” e
all’effetto d’affievolimento, se non di spegnimento (Subialka),
della modernità. Egli fa uso d’una immagine che sembra anticipare
la nozione di “senilità” che Svevo impiegherà nel romanzo
eponimo del 1898. L’emotività della fin
de siècle,
scrive infatti Nordau, è “l’impotente disperazione di un
ammalato che sente di morire oncia ad oncia in mezzo alla natura che
gli sopravvive fiorente, e eternamente altera è l’invidia
dell’uomo sensuale vecchio e ricco che vede una giovane coppia di
amanti muovere il passo verso un angolo silenzioso del bosco”
(Degeneration,
p. 3). In questo brano Svevo, che lesse sia Darwin sia Nordau,
potrebbe avere trovato ispirazione per il personaggio di Emilio
Brentani in Senilità,
un personaggio che non è tanto, o non è solo, rappresentativo della
crisi personale d’un uomo di mezza età. Tale personaggio, infatti,
è indicativo della crisi d’una intera cultura che è sul punto di
perdere la propria presa sulla vita e il suo impeto energizzante, una
cultura che, al tempo stesso, cerca di rivitalizzarsi e di non
“evaporare” del tutto, per dirla con Marshall Berman (All
That is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity,
Penguin Books, New York, 1982).
Sulla
soglia critica del ventesimo secolo, Mantegazza in Italia e Nordau in
Europa testimoniano un’ansia della modernizzazione che preme nelle
opposte direzioni del progresso e dell’annichilimento, del
rinnovamento e della morte, degli impulsi autoritari e di più
evolute, o aperte, forme politiche.
[…]
Come
Antonio Gramsci osservava nei Quaderni da
una prigione fascista nel 1930, in un periodo di crisi “le grandi
masse si staccano dalle ideologie tradizionali e non credono più in
ciò in cui erano solite credere in precedenza […]. La crisi
consiste precisamente nel fatto che il vecchio muore” – e abbiamo
appunto visto che la modernità ha anche un effetto di spegnimento
sugli individui – “e il nuovo non può ancora nascere; in tale
interregno appare una grande varietà di sintomi morbosi”.
I
protagonisti dei romanzi analizzati in questo libro, inclusi quelli
di Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borgese, mostrano un’ampia
gamma dei “sintomi morbosi” di cui scriveva Gramsci nel 1930.
Infatti, Alfonso Nitti, Consalvo Uzeda e la sua “manata di pazzi”,
Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda, Filippo Rubé – ma anche i sei
Personaggi di Pirandello – soffrono in modalità differenti di
problematiche collegate al loro essere nel mondo: adattamento,
competitività sociale (o, nelle parole di Enrico Morselli,
“competizione per la vita”, Rivista
di filosofia scientifica,
1, 6, 1882, pp. 613-668), e perdita sia di scopi ideali sia di
ricchezza materiale. Tali problemi, considerati insieme, riflettono
in certa misura ciò di cui gli autori dei romanzi discussi in questo
libro dovettero fare esperienza negli anni successivi
all’unificazione.
L’origine
della specie (1859)
di Darwin trasmise ai nostri scrittori un vocabolario scientifico che
era anche letterario.
Infatti, dopo la crisi delle certezze epistemologiche della teologia
naturale e dell’empirismo dogmatico (anche se quest’ultimo era
ancora elogiato in Francia da Émile Zola nel 1880 ne Il
romanzo sperimentale),
Darwin risolutamente adottò un approccio non essenzialista e
fallibilista alla scienza, un approccio in cui le metafore –
innanzitutto la metafora della struggle
for life –
avevano un ruolo cruciale nell’opporsi a un’accezione ristretta
del positivismo scientifico.
Il
caso dell’innovazione darwiniana in biologia e del romanzo italiano
moderno evidenzia l’importanza che la fiction e
le storie possono
avere quando, come scriveva Gramsci, le ideologie tradizionali
collassano e qualcosa di nuovo ma spaventoso appare
all’orizzonte. Le storie, in un certo senso, si fanno carico del
mandato di analizzare, decifrare, (bio)finzionalizzare e rielaborare
la negatività dei
“sintomi morbosi” sparpagliati per l’”interregno” di cui
scriveva Gramsci.
Tale
mandato non è esaurito neppure oggi, in anni d’innovazione
tecnologica, turbolenza politica, violenza sulle donne, guerra, crisi
ambientale e pandemica; anni in cui, come sostiene il filosofo
politico Dario Gentili, una versione specifica del pensiero di Darwin
– il cosiddetto “darwinismo sociale” – è la vera ideologia
del nostro contesto neoliberale (o tardo capitalista) d’esistenza
(The
Age of Precarity: Endless Crisis as an Art of Government,
Verso, London, 2021). Questo contesto depressivo è ben
descritto dallo slogan There
Is No Alternative e
caratterizza ciò che Mark Fisher ha chiamato “realismo
capitalista” (Capitalist
Realism: Is There No Alternative?,
Zero Books, Winchester, 2010).
Quel
che emerge dalle nostre considerazioni sulla lotta per la vita e il
romanzo italiano moderno, in ogni caso, è che l’approccio
innovativo di Darwin al bíos (alla
vita) pose le condizioni che rendono possibile il racconto d’una
storia differente dalle
storie pietrificate (e naturalizzate) dagli imperativi del darwinismo
sociale e dall’apparente assenza d’una alternativa. In un certo
senso, Svevo, De Roberto e Pirandello impararono da Darwin (forse in
maniera indiretta, nel caso di Pirandello) che era possibile
affrontare – tramite la letteratura – gli effetti maggiormente
ansiogeni dell’impatto del darwinismo sulla biologia e sulla
società, come ad esempio l’inevitabilità della lotta contro le
avversità e il rischio d’estinguersi nel corso di questa lotta.
Grazie a Darwin – e non nonostante Darwin – divenne possibile
ripercorrere quegli effetti creativamente,
in modo da continuare ad immaginare il mondo altrimenti,
senza però ignorare la realtà. Nel caso di Svevo, ad esempio,
tale altrimenti finì
per consistere nella letteraturizzazione della
vita (pensiamo che De Roberto in sostanza condividesse questa
prospettiva). Per quanto riguarda Pirandello, invece, i sintomi
morbosi della vita, in ultima analisi, dovevano essere agiti
esteriormente (acted
out)
tramite un’inedita teatralizzazione della
vita stessa.