30 novembre 2022

IL SUD SPROFONDA

 



Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea

di Tonino Perna


E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022



ALCUNE IMMAGINI DEL SEMINARIO ALL' OFFICINA DEL POPOLO DI PALERMO

 





Oggi, 27 novembre 2022, abbiamo avuto il piacere di ospitare Francesco Virga, per la presentazione del suo libro "EREDITA' DISSIPATE. GRAMSCI, PASOLINI, SCIASCIA" SEMINARIO DI AUTOFORMAZIONE
👥
️️In assetto circolare, abbiamo ripercorso alcune tappe fondamentali nella vita di Gramsci, sotto diverse lenti d'ingrandimento.
📖
I nostri seminari di autoformazione sono, come ogni nostra attività, gratuiti e accessibili a tutti. Proposti dal Tavolo delle Culture dell'Officina del Popolo, questi seminari sono un tentativo di costruire un sapere condiviso a partire dal punto di osservazione, imprescindibile, delle classi subalterne.
L' OFFICINA DEL POPOLO DI PALERMO

Sono io che ringrazio voi per l'attenzione con cui avete seguito le mie parole e, soprattutto, per le vostre osservazioni critiche.
(fv)

LA CRISI DEL MARXISMO SECONDO LUCIO COLLETTI

 



Lo spirito di sistema e i carri armati

ALFIO SQUILLACI

L'ultimo Colletti fu una figura tragica. Dopo tutta una vita intellettuale vissuta dentro l'ideologia del "Dio che ha fallito" - come Koestler chiamava il comunismo -, si accorge che il marxismo ha un motore filosofico fallace ossia la dialettica hegeliana, tutt'altro che scientifica. (Cfr. la celebre intervista politico-filosofica del '75 e il successivo "Tra marxismo e no"). Di qui la sua "disperazione" filosofica. Diceva in qualche intervista che aveva ucciso la mucca (il marxismo) che l'aveva nutrito. Figura tragica e in parte forse grottesca, ma intellettualmente sincera e coraggiosa.

Ma più che la dialettica hegeliana, penso che il passaggio del testimone tra i due, Hegel>Marx, consistesse nello sguardo, nell'approccio mentale "totalitario" - certo nel suo significato filosofico non politico - insito nello "spirito di sistema", ossia quel sistema filosofico che pretende di spiegare tutto, il filugello e Dio, il cielo e la terra, la natura e la società, l'economia e la storia e l'arte ecc. con un'unica rete concettuale a maglie strette.

Lo storico inglese Donald Sassoon minimizza l'hegelismo di Marx e nella sua recente immaginaria "Intervista a Karl Marx" gli fa rispondere: «Oddio, Hegel! Le dirò un segreto. Non ho mai veramente letto se non nel modo più superficiale, la "Fenomenologia dello spirito" di Hegel o la sua "Logica". La vita è troppo breve». Tutt'altro che quella pretesa lettura da cima a fondo di cui scriveva Marx.

Ma il "sistema" no. È tipico del filosofo-panzer-tedesco lo spirito di sistema (cui Nietzsche fu il primo a opporsi). Il filosofo Galvano Della Volpe, maestro di Colletti, quando era fascista scrisse su "Primato" una "Estetica del carro armato" (v. Mirella Serri "I redenti"). Ecco, lo spirito di "sistema" con la sua forza di un carro armato che tutto schiaccia e tutto spiega passa da Hegel a Marx. Se Amleto a tal proposito ricordava con giusto scetticismo che ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia, Musil centrava il problema quando scriveva: i "filosofi sono dei violenti che non avendo a disposizione un esercito si impadroniscono del mondo chiudendolo in un sistema".

La filosofia mi ha catturato in gioventù se mi sono laureato scegliendo quella facoltà per pura mimesi col prof di liceo bravo. E il fascino di Hegel, che mi ha attratto, è ciò che cattura e respinge: l'esplicitazione del mondo nella sua totalità. Ma chi non ha il suo spirito tetragono sta dalla parte di Amleto: ossia cerca di capire tutte quelle cose, spesso inesplicabili ahimè, che stanno in cielo e in terra e che scappano a un sistema, È questo il terreno della letteratura: limitarsi a narrare ciò che non si sa, non si vuole o non si può spiegare. Mostrando il tutto semplicemente in quel romanzo, genere che a sua volta ha spesso tutte le configurazioni di un sistema, perché chiude il mondo nel perimetro di una storia più o meno esemplare.


(Certo le "storie" hanno una loro "filosofia", un "sugo" direbbe qualcuno, una "formula" che "tutto" tiene nell'arco narrativo, ma un autore vocato sa mostrare quel tutto: il vero e il falso, il reale e il finto, le passioni vere e quelle dissimulate, o le ragioni di un protagonista come quelle del suo antagonista. Ci dà il mondo come tragedia permanente ove i conflitti esplodono non perché uno abbia ragione e l'altro torto, ma perché TUTTI hanno ragione, la PROPRIA ragione).

Alfio Squillaci, LA FRUSTA LETTERARIA







29 novembre 2022

UN PAESE NERVOSO, ITALIA 1859-1925

 


UN PAESE NERVOSO, ITALIA 1859-1925

di Andrea Sartori

[Il testo che segue, ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=45604 , è la traduzione leggermente modificata di un estratto da L’ansia della modernizzazione, il capitolo introduttivo del volume appena pubblicato di Andrea Sartori, The Struggle for Life and the Modern Italian Novel, 1859-1925, Palgrave Macmillan, Cham (London), 2022]. 

Questo libro si concentra sul rapporto tra la darwiniana lotta per la vita e il romanzo italiano moderno poiché, negli anni tra l’unificazione d’Italia e l’ascesa del fascismo, diversi scrittori diedero voce, in maniere differenti, a delle ansietà connesse all’idea d’evoluzione.

 

[…]

 

Diventare italiani (o vivere per anni nella periferia meridionale dell’Impero Austro-Ungarico, nel caso di Italo Svevo) comportava la possibilità di scoprirsi non all’altezza delle nuove esigenze sociali, politiche e religiose della storia – parliamo, in definitiva, della paura d’essere sconfitti nella lotta per la vita e di venire sepolti da eventi tanto grandiosi quanto terrificanti fino al punto dell’estinzione. L’aristocrazia di De Roberto, ad esempio, dovette lottare per “sopravvivere” all’unificazione e per trovare un nuovo ruolo politico nel Parlamento italiano, vale a dire una nuova forma di legittimazione sociale.

 

Secondo il fisiologo, igienista, neurologo e antropologo Paolo Mantegazza (1831-1910), uno degli scienziati italiani che contribuì alla diffusione delle idee darwiniane nel regno unitario, il progresso e la modernizzazione consistevano “nel lottare ogni giorno per andare sempre più avanti e per salire sempre più in alto” (Il secolo nevrosico, Edizione Studio Tesi, Pordenone, 1994, p. 45).  Per tale ragione, sosteneva Mantegazza, la sensibilità degli individui del diciannovesimo secolo (in Italia, ma anche in Paesi industrializzati come gli Stati Uniti) a quel tempo era ormai patologicamente auto-analitica e nevrotica. Dal punto di vista di Mantegazza, il nervosismo e le ansietà collegate a esso non erano il risultato accidentale delle trasformazioni economiche e politiche del secolo; nervosismo e ansia rappresentavano, invece, una vera e propria “malattia sociale” (p. 88). Come ha sostenuto Donald Sassoon, tra il diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo il trionfo del capitalismo è stato segnato da cicliche crisi d’ansia, alle quali il capitalismo stesso ha tentato di porre rimedio (Il trionfo ansioso: storia globale del capitalismo. 1860-1914, Garzanti, Milano, 2022).

 

Mantegazza prefigurò, potremmo aggiungere, quel che accade anche oggi in molti Paesi occidentali, dopo decenni di precarie condizioni lavorative, di collasso del welfare state, in altre parole, dopo la sconfitta della sociologia marxista per mano (o, meglio, per l’artiglio) dell’homo-lupus hobbesiano, e darwiniano (di chi scrive si veda, a titolo esemplificativo e quale libera prosecuzione d’una diagnosi impietosa di Mario Tronti, “Class Struggle and Its Metamorphoses: A Path Through Postwar Italian Political Thought”, Italian Industrial Literature and Film, a cura di Carlo Baghetti, Jim Carter e Lorenzo Marmo, Peter Lang, Bern, 2021, 137-150).

 

L’autore de Il secolo nevrosico (1887), infatti, scriveva che gli individui appartenenti alla “classe media” erano nati metaforicamente “armati” e senza la possibilità, nell’intero arco della loro vita, “di deporre le armi”, per il fatto d’essere costantemente intrappolati in una lotta psicologica per la sopravvivenza contro il nervosismo indotto da una società eccessivamente e implacabilmente esigente (Il secolo nevrosico, p. 101).

 

Come vedremo nel seguito di questo libro, molti dei protagonisti dei romanzi esaminati sono affetti da un insieme di ansie sociali che hanno le proprie radici nella dinamica ambivalente della modernizzazione italiana, una modernizzazione che, come ha osservato Michael J. Subialka, coincise almeno in parte con una “esperienza di spegnimento” (Modernist Idealism. Ambivalent Legacies of German Philosophies in Italian Literature, Toronto University Press, Toronto, 2021, p. 101). Per Subialka, il pessimismo della filosofia di Arthur Schopenhauer prestò alcuni dei propri concetti agli scrittori decadenti e modernisti, arrivando a includere futuristi come Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), Bruno Corra (1892-1976) ed Emilio Settimelli (1891-1954), i quali, ciascuno a modo proprio, cerarono di confrontarsi con le difficoltà e le contraddizioni della modernità. Tuttavia, riteniamo che anche il vocabolario scientifico di Darwin fu d’aiuto nel decifrare le ansie dell’esperienza di spegnimento della modernità italiana e nel rappresentare tale esperienza in forma letteraria.

 

L’ansia della modernizzazione è un’ansia collegata al movimento: in avanti nel futuro, in alto nel ranking sociale, all’estero – come si paleserà tra poco – per quanto riguarda l’emigrazione e il colonialismo. Simone Pettine ha scritto, per esempio, che ne I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga una “ansia cinetica” affligge personaggi quali Bastianazzo, Luca, Longa, Lia e il giovane ‘Ntoni (La morte nel Verga romanziere, Prefazione di Mario Cimini, Solfanelli, Chieti, 2020, p. 51). Questi personaggi, per una ragione o per un’altra, s’allontanano da Aci Trezza e di conseguenza si ritrovano a fronteggiare la morte o qualche sua inquietante premonizione.

 

[…]

 

Se ora spostiamo l’attenzione dall’arte alla politica, si può sostenere che tra la seconda metà del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, la politica in Italia non si limitò a internalizzare l’ansia della modernizzazione, come invece la letteratura era incline a fare. Rhiannon Noel Welch, infatti, ha mostrato che dopo l’unificazione d’Italia si manifestarono nel Paese “tre ansie d’urgente natura politica”, le quali erano collegate nientemeno che alla possibilità, per la nuova entità politica, di sopravvivere come uno stato-nazione unificato, cioè non frammentato: “la cosiddetta questione meridionale, l’emigrazione di massa nelle Americhe, il primo colonialismo nel Corno d’Africa e in Libia” (Vital Subjects. Race and Biopolitics in Italy, 1860-1920, Liverpool University Press, Liverpool, 2016, p. 7).

 

Mentre la questione meridionale e l’emigrazione di massa ponevano, rispettivamente, una minaccia interna e una minaccia esterna al progetto italiano di costruzione dello stato-nazione, l’esternalizzazione strategica e la proiezione sulle colonie africane delle ansie della nazione dovevano invece contrastare quelle minacce. In tal modo, l’Italia puntava a risolvere i problemi della disoccupazione dei braccianti, dell’espansione della produttività e dei mercati, e quello della sua stessa esclusione dal “banchetto” delle potenze coloniali europee. Come disse il primo ministro Francesco Crispi nel dicembre 1887, quando presentò la legislazione sull’emigrazione dell’Italia unificata, la soluzione alla pressante e, per così dire, paralizzante ansia della modernizzazione in Italia coincideva con “l’allargamento dei confini della possibilità d’azione del Paese e del suo potere economico” (p. 4).

 

L’allargamento dei confini” e l’estensione degli “arti” del Corpo-Paese italiano oltre i suoi limiti geografici, scrive Welch, erano stati pensati per valorizzare sia la produzione (economica) sia la riproduzione (biologica) del bíos politico italiano: consenso politico e, letteralmente, nuovi cittadini da tenere sotto controllo tramite la regolamentazione demografica erano i risultati attesi del colonialismo italiano durante gli anni del suo esordio prefascista. Tuttavia, questo progetto biopolitico, razzista e al tempo stesso rivitalizzante ebbe luogo in Italia su uno sfondo culturale europeo caratterizzato da quello che il medico e critico sociale ungherese Max Nordau (1849-1923) avrebbe definito “degenerazione” nel suo eponimo e influente libro del 1892. Degenerazione non era solo un attacco contro ciò che Nordau riteneva arte corrotta (ad esempio le opere di Oscar Wilde); quel libro diede anche voce a un’ansia estremamente specifica, a un sentimento (un terrore) secondo il quale la fin de siècle poteva coincidere con un orribile e apocalittico “annichilimento del mondo” (Degeneration, D. Appleton and Company, New York, 1895, p. 2). Da tale punto di vista, il discorso del 1887 di Crispi può essere ritenuto rappresentativo della reazione politica italiana non solo ai problemi interni del Paese (disoccupazione, emorragia migratoria, esclusione dal club delle potenze coloniali). Quel discorso era anche la risposta della nazione alla minaccia d’estinzione che angosciava l’Europa alla fine del diciannovesimo secolo (scriveva Nordau: “il sentimento prevalente è quello d’una imminente perdita, d’una incipiente estinzione”, ibidem). In tale contesto, la parola “estinzione” non è scelta a caso, poiché Nordau era stato profondamente influenzato da Darwin, sebbene in via indiretta, tramite l’antropologo e criminologo Cesare Lombroso (1835-1909). Lombroso aveva ripreso da Darwin la nozione di “regressione” (a uno stadio primitivo dello sviluppo umano e dell’evoluzione), allo scopo di rendere ragione, scientificamente, del “delinquente nato”, ovvero, in termini più generali, della degenerazione del comportamento criminale e della follia a esso associata (L’uomo delinquente, 1876). Nell’appassionata “Prefazione” dedicata a Lombroso, Nordau riconosce in pieno il proprio debito intellettuale con lo psichiatra italiano; al tempo stesso egli scrive che, mentre i criminali nati uccidono, gli artisti degenerati, ma anche gli scrittori e perfino i giornalisti usano la penna e i loro attrezzi del mestiere intellettuale come armi metaforiche (pp. vii-ix). Vedremo nel seguito che Svevo adotterà delle metafore simili in un appunto del 1902, capovolgendo però il significato e il valore che Lombroso attribuiva al paragone tra letteratura e violenza. Svevo, per così dire, fece dello scrivere modernista una questione di vita e di morte, uno strumento per la sopravvivenza da utilizzare per puntellare le rovine della modernità, e non solo un sintomo di corruzione e degenerazione.

 

In un brano di Degenerazione, Nordau fa riferimento all’ansia da “annichilimento del mondo” e all’effetto d’affievolimento, se non di spegnimento (Subialka), della modernità. Egli fa uso d’una immagine che sembra anticipare la nozione di “senilità” che Svevo impiegherà nel romanzo eponimo del 1898. L’emotività della fin de siècle, scrive infatti Nordau, è “l’impotente disperazione di un ammalato che sente di morire oncia ad oncia in mezzo alla natura che gli sopravvive fiorente, e eternamente altera è l’invidia dell’uomo sensuale vecchio e ricco che vede una giovane coppia di amanti muovere il passo verso un angolo silenzioso del bosco” (Degeneration, p. 3).  In questo brano Svevo, che lesse sia Darwin sia Nordau, potrebbe avere trovato ispirazione per il personaggio di Emilio Brentani in Senilità, un personaggio che non è tanto, o non è solo, rappresentativo della crisi personale d’un uomo di mezza età. Tale personaggio, infatti, è indicativo della crisi d’una intera cultura che è sul punto di perdere la propria presa sulla vita e il suo impeto energizzante, una cultura che, al tempo stesso, cerca di rivitalizzarsi e di non “evaporare” del tutto, per dirla con Marshall Berman (All That is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, Penguin Books, New York, 1982).

 

Sulla soglia critica del ventesimo secolo, Mantegazza in Italia e Nordau in Europa testimoniano un’ansia della modernizzazione che preme nelle opposte direzioni del progresso e dell’annichilimento, del rinnovamento e della morte, degli impulsi autoritari e di più evolute, o aperte, forme politiche.

[…]

 

Come Antonio Gramsci osservava nei Quaderni da una prigione fascista nel 1930, in un periodo di crisi “le grandi masse si staccano dalle ideologie tradizionali e non credono più in ciò in cui erano solite credere in precedenza […]. La crisi consiste precisamente nel fatto che il vecchio muore” – e abbiamo appunto visto che la modernità ha anche un effetto di spegnimento sugli individui – “e il nuovo non può ancora nascere; in tale interregno appare una grande varietà di sintomi morbosi”.

 

I protagonisti dei romanzi analizzati in questo libro, inclusi quelli di Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borgese, mostrano un’ampia gamma dei “sintomi morbosi” di cui scriveva Gramsci nel 1930. Infatti, Alfonso Nitti, Consalvo Uzeda e la sua “manata di pazzi”, Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda, Filippo Rubé – ma anche i sei Personaggi di Pirandello – soffrono in modalità differenti di problematiche collegate al loro essere nel mondo: adattamento, competitività sociale (o, nelle parole di Enrico Morselli, “competizione per la vita”, Rivista di filosofia scientifica, 1, 6, 1882, pp. 613-668), e perdita sia di scopi ideali sia di ricchezza materiale. Tali problemi, considerati insieme, riflettono in certa misura ciò di cui gli autori dei romanzi discussi in questo libro dovettero fare esperienza negli anni successivi all’unificazione.

 

L’origine della specie (1859) di Darwin trasmise ai nostri scrittori un vocabolario scientifico che era anche letterario. Infatti, dopo la crisi delle certezze epistemologiche della teologia naturale e dell’empirismo dogmatico (anche se quest’ultimo era ancora elogiato in Francia da Émile Zola nel 1880 ne Il romanzo sperimentale), Darwin risolutamente adottò un approccio non essenzialista e fallibilista alla scienza, un approccio in cui le metafore – innanzitutto la metafora della struggle for life – avevano un ruolo cruciale nell’opporsi a un’accezione ristretta del positivismo scientifico.

 

Il caso dell’innovazione darwiniana in biologia e del romanzo italiano moderno evidenzia l’importanza che la fiction e le storie possono avere quando, come scriveva Gramsci, le ideologie tradizionali collassano e qualcosa di nuovo ma spaventoso appare all’orizzonte. Le storie, in un certo senso, si fanno carico del mandato di analizzare, decifrare, (bio)finzionalizzare e rielaborare la negatività dei “sintomi morbosi” sparpagliati per l’”interregno” di cui scriveva Gramsci.

 

Tale mandato non è esaurito neppure oggi, in anni d’innovazione tecnologica, turbolenza politica, violenza sulle donne, guerra, crisi ambientale e pandemica; anni in cui, come sostiene il filosofo politico Dario Gentili, una versione specifica del pensiero di Darwin – il cosiddetto “darwinismo sociale” – è la vera ideologia del nostro contesto neoliberale (o tardo capitalista) d’esistenza (The Age of Precarity: Endless Crisis as an Art of Government, Verso, London, 2021).  Questo contesto depressivo è ben descritto dallo slogan There Is No Alternative e caratterizza ciò che Mark Fisher ha chiamato “realismo capitalista” (Capitalist Realism: Is There No Alternative?, Zero Books, Winchester, 2010).

 

Quel che emerge dalle nostre considerazioni sulla lotta per la vita e il romanzo italiano moderno, in ogni caso, è che l’approccio innovativo di Darwin al bíos (alla vita) pose le condizioni che rendono possibile il racconto d’una storia differente dalle storie pietrificate (e naturalizzate) dagli imperativi del darwinismo sociale e dall’apparente assenza d’una alternativa. In un certo senso, Svevo, De Roberto e Pirandello impararono da Darwin (forse in maniera indiretta, nel caso di Pirandello) che era possibile affrontare – tramite la letteratura – gli effetti maggiormente ansiogeni dell’impatto del darwinismo sulla biologia e sulla società, come ad esempio l’inevitabilità della lotta contro le avversità e il rischio d’estinguersi nel corso di questa lotta. Grazie a Darwin – e non nonostante Darwin – divenne possibile ripercorrere quegli effetti creativamente, in modo da continuare ad immaginare il mondo altrimenti, senza però ignorare la realtà. Nel caso di Svevo, ad esempio, tale altrimenti finì per consistere nella letteraturizzazione della vita (pensiamo che De Roberto in sostanza condividesse questa prospettiva). Per quanto riguarda Pirandello, invece, i sintomi morbosi della vita, in ultima analisi, dovevano essere agiti esteriormente (acted out) tramite un’inedita teatralizzazione della vita stessa.

 



SULL' INCOSTITUZIONALE " GOVERNABILITA' "

 


Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale

di Enzo Paolini

Quello della "governabilità" è un concetto dannoso ed infatti non c’è nella Costituzione.
E’ stato introdotto con subdola demagogia – e sublimato dalla “narrazione” berlusconrenziana – per giustificare il sistema elettorale dei nominati e dei voti obbligatoriamente spalmati sulle liste congiunte indipendentemente dalla volontà degli elettori, per spalmare impunente premi di maggioranza, espliciti o nascosti per poter rispondere stucchevolmente il ritornello suggestivo, dei vincitori la sera delle elezioni, del chi vince prende tutto.-

L’esatto contrario della democrazia, che prevede l’incontro tra le forze politiche per formare i governi dopo le elezioni; dopo cioè, che si è verificato cosa, come e chi vogliono gli italiani.-

Le elezioni sono fatte per fotografare il paese e tradurre la rappresentanza nelle aule parlamentari. Per organizzare la traduzione del consenso in leggi parlamentari la Costituzione prevede altri organismi: i partiti.-

Ma se i parlamentari non sono eletti in base al consenso bensì in base alla indicazione dei capi allora i partiti non hanno più motivo di esistere.Ed infatti sono morti.

Il nostro sistema non è più fondato sul consenso, sul legame sociale tra elettore ed eletto quanto piuttosto sul rapporto fiduciario tra nominante e nominato. Un rapporto tra pochi che restringe il campo del dialogo sociale e crea di fatto una oligarchia. E provoca il fenomeno dell’astensionismo.E’ quello che avviene oggi nel nostro Paese. Dove una classe dirigente che tutti definiscono inadeguata ma che sarebbe più rispettoso definire semplicemente non legittimata propone la più sgangherata ed autoritaria delle riforme, quella della autonomia differenziata.-

Come una responsabilità del genere possa essere consentita ed anzi affidata ad un sedicente legislatore che ha devastato il Paese con una legge elettorale che ci ha condotto sin qui e che nonostante i ripetuti moniti della Corte Costituzionale (e gli inutili gargarismi di tutti i politici a parole contro ma nei fatti a favore) non si riesce ad estirpare, è un fatto che appare incredibile ma ha una sua logica.

La semina dell’odio sociale nasce da lontano, è stata sopita e dominata per tanto tempo dalle grandi scuole politiche del dopoguerra, per esplodere nel momento in cui le forze illiberali del mercatismo e dell’iperliberismo hanno preso il sopravvento: prima con il programma “Rinascita” di Gelli e poi con quello scritto da J.P Morgan ed interpretato da Renzi.

Ambedue apparentemente sconfitti, è vero, l’uno dalla Magistratura l’altro dal popolo referendario, ma presenti ed infettanti, eccome, grazie al cavallo di Troia della legge elettorale, l’arma che ha spezzato ogni tipo di connessione politica e sociale tra il paese reale ed il paese legale, che ha creato il Parlamento che conosciamo, dimezzato ed irrilevante sul piano della rappresentanza, rilevantissimo su quello del potere obbediente. Che non è un ossimoro ma la triste realtà.

Per questo, ora più che mai occorre aderire a due progetti di Legge di iniziativa popolare che possono invertire la direzione che hanno preso le cose nel nostro Paese e che suscitando la discussione possono essere portati in aula sostenuti da un movimento d’opinione.

E’ l’unica cosa veramente rivoluzionaria che possiamo fare: sostenere Massimo Villone sulla autonomia differenziata e Felice Besostri sulla legge elettorale.

Stiamo con loro, diffondiamo le loro idee, facciamoci alimentare dal loro spirito sinceramente democratico. Perché è il patrimonio politico del nostro popolo. E non ha prezzo. In tutti i sensi.-

da “il Manifesto” del 29 novembre 2022

DOMANI SI PARLA DI EGON SCHIELE A PALERMO

 


DOPO DOMANI A MARINEO FESTA DEL PANE

 





28 novembre 2022

MARIO PINTACUDA RICOSTRUISCE LA STORIA DELL' ARTE FOTOGRAFICA A PALERMO

 









LA “LOGGIA FOTOGRAFICA” DI ENRICO SEFFER

Mario Pintacuda

Nella Palermo di fine Ottocento l’arte fotografica era oramai diffusa: in particolare la scena cittadina era dominata dagli studi di Giuseppe Incorpora (1834-1914, cavaliere del regno) e di Eugenio Interguglielmi che aveva la sua “loggia fotografica” (si diceva così) in Corso Vittorio Emanuele, Largo Santa Sofia.

A loro si aggiunse Enrico Seffer (1839-1919), figlio di un Pietro (1777-1860) che era stato “caffettiere” a Palermo (il suo corpo imbalsamato si trova nella Chiesa dei Cappuccini: nell’800 i "caffè" palermitani erano molto in auge e, gestiti anche da nobili, fungevano da ritrovo, bar o circolo).

Non è sicura l’origine della passione fotografica di Seffer: secondo una notizia, sarebbe stato colpito dalla vista di alcuni fotografi francesi scesi in Sicilia a documentare la presenza dei Mille; avrebbe così deciso di intraprendere questa nuova professione.

L’attività fotografica di Seffer iniziò dunque attorno al 1860, in coincidenza con la diffusione, in larghi strati sociali in ascesa, della moda del ritratto fotografico.

La prima sede si trovava in corso Vittorio Emanuele al n° 330, nel palazzo conte Capaci, casa Viola. Un successivo cartoncino pubblicitario attesta poi la nuova sede di “Fotografia italiana diretta dai fratelli Seffer” in corso Vittorio Emanuele - Strada Maqueda, Vicolo Marotta n. 36, palazzo Principe s. Vincenzo. Questa pubblicità lascia ipotizzare una società con il fratello Antonino, che però poi si trasferì a Napoli; Enrico divenne dunque direttore dello studio fotografico e unico gestore artistico ed amministrativo. Nel 1882 aprì un nuovo studio in salita San Domenico (oggi Via Giovanni Meli), passando da un civico all'altro della strada fino a fermarsi, finalmente in un’abitazione con un particolare loggiato a vetrate e ferro alle spalle della Chiesa di San Domenico.

Nella fase iniziale (come ricostruisce Dario Lo Dico in un articolo sulla rivista Kalòs nel 2006) Enrico fu finanziato da una zia materna, Donna Gesualda D'Alessandro che ebbe il merito di credere nelle attitudini fotografiche del nipote.

Enrico prima, poi i figli e infine i nipoti diventarono specialisti in ritratti: bambini, casalinghe, militari, religiosi, padri di famiglia, sposi, ecc. Infatti «nell’immaginario collettivo di questa piccola e media borghesia l’idea del ritrarsi venne vissuta come una vera e propria elevazione di rango. [..] Ecco quindi la famiglia borghese e medio borghese assumere nel “luogo” del ritratto l’aura accademica della posa e proporre il proprio status visivo come un valore da contrapporre alla oramai declinante aristocrazia locale. Ecco volti femminili immedesimarsi nelle espressioni delle attrici teatrali con lo sguardo trasognante da romanzo d’appendice» (Nosrat Panahi Nejad: si tratta di un iraniano trapiantato in Sicilia dopo aver studiato fotografia e cinema a Milano e Bologna). Come aggiunge Eduardo Rebulla, questo tipo di ritratto era «distante tanto dall’indagine psicologica che dal descrittivismo; ancora legato alla concezione aulica tramandata dalla miniatura, alla finzione e alla teatralità. […] Il fotografo era il gran regista di questa rappresentazione, l’artefice della scena e della posa».

La fama di Seffer crebbe quando eseguì diversi ritratti di briganti famosi; ricevette l'incarico nel 1877 dalla polizia per utilizzare tali ritratti come foto segnaletiche (questa collezione si può oggi visionare presso il Museo Etnografico Pitrè); queste foto sono a volte opere d’arte, giacché il fotografo riuscì a “nobilitare” l’aspetto di quei briganti, presentandoli al pubblico in pose eleganti e raffinate. Seffer fu poi premiato con un diploma di merito che gli fu consegnato in occasione dell'Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-1892.

La sede del “loggiato” diventò uno degli atelier più belli e moderni della Palermo della “belle époque”: aveva eleganti sale d’aspetto, una sala di posa e un gabinetto per i negativi; inoltre la veranda artistica in legno e vetro fu utilizzata a sua volta come scenario per le foto.

Enrico Seffer ebbe tre figli maschi: Pietro (1872-1947), Michele (1875-1948) ed Achille (1888-1932). Dopo l'Esposizione Nazionale i figli (almeno i primi due) si affiancarono al padre: di qui la nuova denominazione “Studio Fotografico di Enrico Seffer e Figli”. Michele in seguito si staccò dallo studio paterno, perché sposò Giuseppina Randazzo (appartenente alla famiglia degli ottici Randazzo) ed aprì un suo studio in via Libertà 16 ("Argo Foto").

Fra i nipoti, solo Domenico “Mimì” Seffer (1909-1970), uno dei 4 figli di Pietro, continuò l'attività del padre e del nonno, fino alla morte: anzi, morì di infarto proprio dentro la camera oscura dello studio.

Mimì aveva mantenuto le caratteristiche che avevano distinto la produzione artistica Seffer: «il ritratto eseguito secondo i dettami della tradizione: precisione, nitidezza, composizione soave dei personaggi ma mai verista» (così scrive ancora Nejad). Tuttavia proprio l’insistenza su una pratica ormai obsoleta fu l’inizio della fine dello studio, che chiuse la sua attività secolare in coincidenza con la morte di Domenico Seffer.

Due mostre sullo Studio Seffer furono organizzate nel 1983 e nel 1996 (quest’ultima allestita nel ridotto del Teatro Biondo e curata dal già ricordato Nosrat Panahi Nejad; vi erano esposte stampe originali su carta d’epoca e stampe tratte da lastre.

Nel 2000 il fondo Seffer è stato acquisito dal CRICD (Centro Regionale Inventario, Catalogazione e Documentazione); comprende 328 stampe di vario formato della seconda metà dell’Ottocento (di cui 10 montate in cornici d'epoca), 2693 lastre di vetro alla gelatina bromuro d'argento, 143 negativi di formato 10x15 cm e 554 pellicole a strisciata datate tra il 1958 e il 1963. Il Fondo comprende anche strumenti fotografici, sia da ripresa che da stampa, provenienti dalle Logge dei Seffer. Tra le attrezzature d’epoca si trovano anche un apparecchio fotografico del tipo camera-salon per il formato 18x24 cm (su cavalletto a terrazza), un otturatore con scatto a molla applicabile ad obiettivi delle fotocamere a banco, una macchina fotografica da campagna e viaggio (la cosiddetta “campagnola”) per il formato 30x40 cm, bromografi portatili per lastre di grande e piccolo formato, una lampada al magnesio e un ingranditore ad acetilene.

Nel sito http://sefferhouse.eu/sefferhouse.eu/I_Seffer.html è possibile trovare, oltre ad ulteriori interessanti notizie e dettagli, numerose foto di Seffer; ci sono persino 13 “nudi artistici”, così commentati dal curatore: «Non potete neanche lontanamente immaginare le mie sensazioni quando mi sono trovato tra le mani queste lastre! A pensarci bene non era poi così strano: siamo nel periodo delle case chiuse e gli album fotografici delle “signorine” dovevano essere ormai una comodità consolidata! Forse le pose poco volgari, forse la sapienza del fotografo, ma, da inguaribile romantico, avevo pensato a delle fidanzate intraprendenti che volessero mandare un loro ricordo “particolare” ai fidanzati/ragazzi/mariti che combattevano in qualche fronte lontano ... giudicate Voi stessi».

Io di Seffer ho un’unica foto, trovata nell’archivio di famiglia; fu scattata da Seffer (come si legge in basso) nei primissimi anni del Novecento a un fratello della mia nonna paterna Giovanna, che si chiamava Angelo Sciortino (1876-1952) e (come annotò mio padre dietro la foto) risiedeva a Santa Flavia.

Allego questa foto, insieme con altre quattro (tratte dal sito citato) che mostrano rispettivamente: la targhetta pubblicitaria; Enrico Seffer con i suoi figli; due dei tanti “ritratti”, quello di una giovane donna e quello del brigante Giuseppe Lo Zito. Quest’ultimo interessante ritratto viene così descritto da Paolo Morello in una pubblicazione di Sellerio, "Briganti- Fotografia e malavita nella Sicilia dell'Ottocento” (1999): «Lo sguardo in tralice; il cappello di sbieco; la barba folta; la mano sicura; il ritratto di di Giuseppe Lo Zito offre del brigante un'idea romantica: non quella di un delinquente feroce, finalmente tratto in arresto. Eppure, in galera venne eseguito questo ritratto, da Enrico Seffer, come fotografia segnaletica».

MARIO PINTACUDA