07 novembre 2022

SUL "NUOVO MODO DI ESSERE GRAMSCIANO" DI PASOLINI


 

Sulla “nostalgia del volgar’eloquio” e sul “nuovo modo di essere

 gramsciano” di Pasolini

 Francesco Virga


Io sono marxista […]

quando urlo, mi indigno contro la distruzione delle culture particolari […].

È necessario lottare contro questo nuovo fascismo

che è l’accentramento linguistico e culturale del consumismo. (Pasolini, SLA,p.2860)


In conclusione, non posso non fare riferimento all’ultimo intervento pubblico di Pasolini che affronta di petto il tema sommariamente indicato nel titolo di questo saggio.

Si tratta di un documento di fondamentale importanza, colpevolmente trascurato dalla critica; una sorta di summa del suo pensiero, in cui si ritrovano i principali temi dibattuti appassionatamente dall’autore nel corso della sua breve vita. Esso, peraltro, conferma la sostanziale coerenza di Pasolini e la centralità che ha nella sua opera la questione dei rapporti tra LINGUA e POTERE.

L’intervento del poeta si svolse al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975, pochi giorni prima della sua tragica morte, nell’ambito di un Corso di aggiornamento per docenti di Scuola Media Superiore sul tema «Dialetto a scuola».

Fu Pasolini a voler dare all’incontro il titolo dantesco Volgar’eloquio, così evocativo della tradizione letteraria italiana. Lo scrittore esordisce affermando di non saper parlare e di non essere in grado di tenere una lezione. Propone, pertanto, di passare immediatamente al dibattito. Ma di fronte al silenzio imbarazzato degli astanti decide di leggere, come introduzione, il monologo finale del dramma, allora inedito, Bestia da stile, che gli ha fornito l’idea d’intitolare l’incontro nel modo bizzarro che sappiamo.

Riprendo di seguito solo i versi iniziali della nota poesia, per dare un’idea del suo stile comunicativo e del suo singolare rapporto con la tradizione letteraria italiana:

Il volgar’eloquio: amalo.

Porgi orecchio, benevolo e fonologico,

alla lalìa (“Che ur a in!”)

che sorge dal profondo dei meriggi,

tra siepi asciutte,

nei Mercati - nei Fori Boari -

nelle Stazioni - tra Fienili e chiese - [...]

Si trattava di uno spunto dichiaratamente provocatorio. Come confermano diversi testimoni, lo smarrimento dell’uditorio, a lettura finita, non poteva che crescere, tanto più che l’invito ad amare il Volgar’eloquio era rivolto ad un inesistente giovane di una immaginaria «Destra sublime», che solo Pasolini poteva inventarsi!

Ma per comprendere meglio quanto avvenne quel giorno nel liceo di Lecce è opportuno riprendere le parole di Gustavo Buratti, presidente dell’AIDLCM (Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate), uno degli organizzatori dell’incontro che aveva direttamente invitato Pasolini, ricordandogli l’antica «militanza» per quelle che Frédéric Mistral chiamava «li lengo meprisado» (le lingue disprezzate):

Ma questi temi (l’amore per il “volgar’eloquio” e l’impegno conseguente), diceva Pasolini, sono una specie di palla al piede per noi, uomini della sinistra. […]. Tuttavia, noi che abbiamo lottato per la nostra lingua, sappiamo quanto Pasolini avesse ragione… sovente i nostri discorsi sono travisati; siamo accusati di dividere, con problematiche sovrastrutturali, la classe operaia; di “fare il gioco dei padroni” e della destra, magari financo di essere razzisti.

In effetti Pasolini, in questo suo ultimo intervento pubblico, appare particolarmente problematico. Sa di non avere la ricetta per risolvere tutti i problemi: «È tutto problematico, ed è problematica soprattutto un’azione politica chiara, che non vedo da nessuna parte».

Torna allora a discutere dei rapporti tra lingua e dialetti, con cui aveva fatto i conti fin da giovane; rimette a fuoco, aggiornando l’analisi, l’annosa questione dei rapporti tra lingua e società, evidenziando come i rapidi mutamenti delle abitudini linguistiche degli italiani fossero uno dei frutti della scomparsa della millenaria civiltà contadina. Nel riconoscere infine la crisi della vecchia ideologia marxista-leninista, incapace di comprendere il neocapitalismo, invoca la necessità di «un nuovo modo d’essere gramsciani». Più precisamente il poeta, dopo aver rivendicato con orgoglio di essere stato un marxista critico da trent’anni e di aver dato un contribuito originale alla storicismo gramsciano, memore della classica lezione marxiana, afferma: «Bisogna tenere presente l’assioma primo e fondamentale dell’economia politica, cioè che chi produce non produce solo merci, produce rapporti sociali, cioè umanità».

Ora, aggiunge Pasolini, considerato che il neocapitalismo ha rivoluzionato il vecchio modo di produzione e attraverso la produzione di beni superflui ed il consumismo ha trasformato antropologicamente gli italiani, i vecchi comunisti non sanno più cosa fare. Nella confusione tendono a trasformarsi in «un nuovo tipo di chierici» che, non tenendo conto dei cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi dieci anni, ripetono salmodicamente il catechismo marxista-leninista, accusando di eresia tutti coloro che la pensano diversamente:

Dove ho scritto che bisogna ritornare indietro? Dove? Vedete punto per punto, e io […] vi dico no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro, appunto perché mi pongo i problemi più attuali, fiuto i problemi del momento […] Gramsci lavorava quaranta anni fa, in un mondo arcaico che noi non osiamo neppure immaginare […] puoi ricordarmi Gramsci come anello di una catena storica che porta a fare nuovi ragionamenti oggi, a riproporre un nuovo modo di essere progressisti, un nuovo modo di essere gramsciani. (op. cit. pag. 2844)

Come si vede, anche da queste parole esce confermata l’immagine che Pasolini aveva dato di sé nell’intervista ad Arbasino del 1963: «La mia caratteristica principe è la fedeltà.»

 Brano ripreso da: Francesco Virga, Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia,      Diogene Multimedia, Bologna 2022, pp. 133-136. Le note al testo sopra citato le      trovate tutte a pag. 152.



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