Pubblichiamo un estratto dal libro In principio Marcel Proust di Francesco Orlando, a cura di Luciano Pellegrini. Il libro, uscito per Nottetempo, è una raccolta di scritti di Orlando pubblicati tra il 1973 e il 2010.
Proust e la madre, le lettere
Se è lecito avviare questa breve presentazione con qualche ricordo di chi la firma, la prima volta in vita mia che lessi integralmente À la recherche du temps perdu fu a diciott’anni. Impossibile contare, da allora in poi, le riletture parziali; ma, delle letture integrali successive, ben due su tre ebbero luogo una dopo l’altra nello stesso anno. L’una precedeva, l’altra accompagnava una schedatura sistematica che restò per sempre alla base di quel poco che ho scritto su Proust – sempre sull’opera, mai prima d’ora sulla vita, due cose che nessuno meglio di lui nel Contre SainteBeuve ci ha insegnato a non confondere. Preparavo un corso sul grande ciclo: sarebbe stato l’ultimo che avrei tenuto alla Scuola Normale di Pisa, prima di esserne allontanato per ragioni politiche dato che quell’anno era il 1968. A una cinquantina di ragazzi tutti membri attivi del Movimento Studentesco, proposi un’interpretazione di Proust la cui insolita componente storicizzante e marxisteggiante è leggibile in un articolo che stesi tre anni dopo.
Ma la mia personale politicizzazione era maturata sotto il segno di Marcuse, di ciò che qualcuno chiamava allora il freudomarxismo. Non potevo non farmi un problema anche o soprattutto della conciliabilità o inconciliabilità fra le lezioni di due grandissimi che in vita si erano reciprocamente ignorati: un narratore che è insieme un pensatore, un altro ebreo (come a metà lo era anche lui) nato quindici anni prima in un altro paese, Freud. Sciolsi il nodo presentando Proust come il critico radicale di ogni illusione che concepisca l’identità del soggetto e dei suoi oggetti come una sostanza, che accordi loro la minima stabilità: al punto da non lasciar quasi sussistere altro, del nostro io, se non contraddizioni e metamorfosi – negli anni intorno alla guerra mondiale che fece esplodere, oltre all’imperialismo ottocentesco, tutte le certezze borghesi.
A Freud invece restava riservato un momento di verità non meramente negativo, una fiducia responsabile e sperimentale nella conoscenza, una ricostruzione tanto più penetrante quanto più rivoluzionaria di ciò che si dibatte nella psiche umana. Come se, del tutto idealmente si capisce, l’opera del più giovane potesse sgomberare la strada a quella del più vecchio.
Mi giova rinviare alla lucida messa a punto recente di Mariolina Bertini, per quanto riguarda la biografia proustiana in due volumi di George D. Painter (1959, 1965). Se mi è inevitabile accennarne, è perché concordo con lei nel riconoscere la serietà, la discrezione, l’effetto illuminante dell’uso che fece il biografo inglese di concetti freudiani: uso al quale secondo lei si deve, oltre che al fascino del racconto, l’attualità conservata dal libro malgrado un’informazione superata dopo quaranta-cinquant’anni.
Proprio quest’aspetto del libro invece contribuì non poco a far divergere, dall’imponente successo presso un vasto pubblico internazionale, l’acrimoniosa e tenace ostilità degli specialisti di Proust soprattutto francesi. Talvolta in costoro operava, come la studiosa italiana documenta a sufficienza, un partito preso spiritualista; e, aggiungerei, l’aggravante d’un sottinteso nazionalista. Più d’uno ostentava di non avercela con la psicanalisi in sé bensì con l’applicazione tentata da un non professionista sulla persona di un morto, e accusava Painter di dilettantismo in materia. In realtà ce l’avevano con l’elucidazione di componenti torbide, ambivalenti e perverse nella genesi d’un sommo capolavoro ormai indiscusso della letteratura francese.
Pezzo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/estratti/in-principio-marcel-proust-un-estratto/
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