29 novembre 2022

UN PAESE NERVOSO, ITALIA 1859-1925

 


UN PAESE NERVOSO, ITALIA 1859-1925

di Andrea Sartori

[Il testo che segue, ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=45604 , è la traduzione leggermente modificata di un estratto da L’ansia della modernizzazione, il capitolo introduttivo del volume appena pubblicato di Andrea Sartori, The Struggle for Life and the Modern Italian Novel, 1859-1925, Palgrave Macmillan, Cham (London), 2022]. 

Questo libro si concentra sul rapporto tra la darwiniana lotta per la vita e il romanzo italiano moderno poiché, negli anni tra l’unificazione d’Italia e l’ascesa del fascismo, diversi scrittori diedero voce, in maniere differenti, a delle ansietà connesse all’idea d’evoluzione.

 

[…]

 

Diventare italiani (o vivere per anni nella periferia meridionale dell’Impero Austro-Ungarico, nel caso di Italo Svevo) comportava la possibilità di scoprirsi non all’altezza delle nuove esigenze sociali, politiche e religiose della storia – parliamo, in definitiva, della paura d’essere sconfitti nella lotta per la vita e di venire sepolti da eventi tanto grandiosi quanto terrificanti fino al punto dell’estinzione. L’aristocrazia di De Roberto, ad esempio, dovette lottare per “sopravvivere” all’unificazione e per trovare un nuovo ruolo politico nel Parlamento italiano, vale a dire una nuova forma di legittimazione sociale.

 

Secondo il fisiologo, igienista, neurologo e antropologo Paolo Mantegazza (1831-1910), uno degli scienziati italiani che contribuì alla diffusione delle idee darwiniane nel regno unitario, il progresso e la modernizzazione consistevano “nel lottare ogni giorno per andare sempre più avanti e per salire sempre più in alto” (Il secolo nevrosico, Edizione Studio Tesi, Pordenone, 1994, p. 45).  Per tale ragione, sosteneva Mantegazza, la sensibilità degli individui del diciannovesimo secolo (in Italia, ma anche in Paesi industrializzati come gli Stati Uniti) a quel tempo era ormai patologicamente auto-analitica e nevrotica. Dal punto di vista di Mantegazza, il nervosismo e le ansietà collegate a esso non erano il risultato accidentale delle trasformazioni economiche e politiche del secolo; nervosismo e ansia rappresentavano, invece, una vera e propria “malattia sociale” (p. 88). Come ha sostenuto Donald Sassoon, tra il diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo il trionfo del capitalismo è stato segnato da cicliche crisi d’ansia, alle quali il capitalismo stesso ha tentato di porre rimedio (Il trionfo ansioso: storia globale del capitalismo. 1860-1914, Garzanti, Milano, 2022).

 

Mantegazza prefigurò, potremmo aggiungere, quel che accade anche oggi in molti Paesi occidentali, dopo decenni di precarie condizioni lavorative, di collasso del welfare state, in altre parole, dopo la sconfitta della sociologia marxista per mano (o, meglio, per l’artiglio) dell’homo-lupus hobbesiano, e darwiniano (di chi scrive si veda, a titolo esemplificativo e quale libera prosecuzione d’una diagnosi impietosa di Mario Tronti, “Class Struggle and Its Metamorphoses: A Path Through Postwar Italian Political Thought”, Italian Industrial Literature and Film, a cura di Carlo Baghetti, Jim Carter e Lorenzo Marmo, Peter Lang, Bern, 2021, 137-150).

 

L’autore de Il secolo nevrosico (1887), infatti, scriveva che gli individui appartenenti alla “classe media” erano nati metaforicamente “armati” e senza la possibilità, nell’intero arco della loro vita, “di deporre le armi”, per il fatto d’essere costantemente intrappolati in una lotta psicologica per la sopravvivenza contro il nervosismo indotto da una società eccessivamente e implacabilmente esigente (Il secolo nevrosico, p. 101).

 

Come vedremo nel seguito di questo libro, molti dei protagonisti dei romanzi esaminati sono affetti da un insieme di ansie sociali che hanno le proprie radici nella dinamica ambivalente della modernizzazione italiana, una modernizzazione che, come ha osservato Michael J. Subialka, coincise almeno in parte con una “esperienza di spegnimento” (Modernist Idealism. Ambivalent Legacies of German Philosophies in Italian Literature, Toronto University Press, Toronto, 2021, p. 101). Per Subialka, il pessimismo della filosofia di Arthur Schopenhauer prestò alcuni dei propri concetti agli scrittori decadenti e modernisti, arrivando a includere futuristi come Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), Bruno Corra (1892-1976) ed Emilio Settimelli (1891-1954), i quali, ciascuno a modo proprio, cerarono di confrontarsi con le difficoltà e le contraddizioni della modernità. Tuttavia, riteniamo che anche il vocabolario scientifico di Darwin fu d’aiuto nel decifrare le ansie dell’esperienza di spegnimento della modernità italiana e nel rappresentare tale esperienza in forma letteraria.

 

L’ansia della modernizzazione è un’ansia collegata al movimento: in avanti nel futuro, in alto nel ranking sociale, all’estero – come si paleserà tra poco – per quanto riguarda l’emigrazione e il colonialismo. Simone Pettine ha scritto, per esempio, che ne I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga una “ansia cinetica” affligge personaggi quali Bastianazzo, Luca, Longa, Lia e il giovane ‘Ntoni (La morte nel Verga romanziere, Prefazione di Mario Cimini, Solfanelli, Chieti, 2020, p. 51). Questi personaggi, per una ragione o per un’altra, s’allontanano da Aci Trezza e di conseguenza si ritrovano a fronteggiare la morte o qualche sua inquietante premonizione.

 

[…]

 

Se ora spostiamo l’attenzione dall’arte alla politica, si può sostenere che tra la seconda metà del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, la politica in Italia non si limitò a internalizzare l’ansia della modernizzazione, come invece la letteratura era incline a fare. Rhiannon Noel Welch, infatti, ha mostrato che dopo l’unificazione d’Italia si manifestarono nel Paese “tre ansie d’urgente natura politica”, le quali erano collegate nientemeno che alla possibilità, per la nuova entità politica, di sopravvivere come uno stato-nazione unificato, cioè non frammentato: “la cosiddetta questione meridionale, l’emigrazione di massa nelle Americhe, il primo colonialismo nel Corno d’Africa e in Libia” (Vital Subjects. Race and Biopolitics in Italy, 1860-1920, Liverpool University Press, Liverpool, 2016, p. 7).

 

Mentre la questione meridionale e l’emigrazione di massa ponevano, rispettivamente, una minaccia interna e una minaccia esterna al progetto italiano di costruzione dello stato-nazione, l’esternalizzazione strategica e la proiezione sulle colonie africane delle ansie della nazione dovevano invece contrastare quelle minacce. In tal modo, l’Italia puntava a risolvere i problemi della disoccupazione dei braccianti, dell’espansione della produttività e dei mercati, e quello della sua stessa esclusione dal “banchetto” delle potenze coloniali europee. Come disse il primo ministro Francesco Crispi nel dicembre 1887, quando presentò la legislazione sull’emigrazione dell’Italia unificata, la soluzione alla pressante e, per così dire, paralizzante ansia della modernizzazione in Italia coincideva con “l’allargamento dei confini della possibilità d’azione del Paese e del suo potere economico” (p. 4).

 

L’allargamento dei confini” e l’estensione degli “arti” del Corpo-Paese italiano oltre i suoi limiti geografici, scrive Welch, erano stati pensati per valorizzare sia la produzione (economica) sia la riproduzione (biologica) del bíos politico italiano: consenso politico e, letteralmente, nuovi cittadini da tenere sotto controllo tramite la regolamentazione demografica erano i risultati attesi del colonialismo italiano durante gli anni del suo esordio prefascista. Tuttavia, questo progetto biopolitico, razzista e al tempo stesso rivitalizzante ebbe luogo in Italia su uno sfondo culturale europeo caratterizzato da quello che il medico e critico sociale ungherese Max Nordau (1849-1923) avrebbe definito “degenerazione” nel suo eponimo e influente libro del 1892. Degenerazione non era solo un attacco contro ciò che Nordau riteneva arte corrotta (ad esempio le opere di Oscar Wilde); quel libro diede anche voce a un’ansia estremamente specifica, a un sentimento (un terrore) secondo il quale la fin de siècle poteva coincidere con un orribile e apocalittico “annichilimento del mondo” (Degeneration, D. Appleton and Company, New York, 1895, p. 2). Da tale punto di vista, il discorso del 1887 di Crispi può essere ritenuto rappresentativo della reazione politica italiana non solo ai problemi interni del Paese (disoccupazione, emorragia migratoria, esclusione dal club delle potenze coloniali). Quel discorso era anche la risposta della nazione alla minaccia d’estinzione che angosciava l’Europa alla fine del diciannovesimo secolo (scriveva Nordau: “il sentimento prevalente è quello d’una imminente perdita, d’una incipiente estinzione”, ibidem). In tale contesto, la parola “estinzione” non è scelta a caso, poiché Nordau era stato profondamente influenzato da Darwin, sebbene in via indiretta, tramite l’antropologo e criminologo Cesare Lombroso (1835-1909). Lombroso aveva ripreso da Darwin la nozione di “regressione” (a uno stadio primitivo dello sviluppo umano e dell’evoluzione), allo scopo di rendere ragione, scientificamente, del “delinquente nato”, ovvero, in termini più generali, della degenerazione del comportamento criminale e della follia a esso associata (L’uomo delinquente, 1876). Nell’appassionata “Prefazione” dedicata a Lombroso, Nordau riconosce in pieno il proprio debito intellettuale con lo psichiatra italiano; al tempo stesso egli scrive che, mentre i criminali nati uccidono, gli artisti degenerati, ma anche gli scrittori e perfino i giornalisti usano la penna e i loro attrezzi del mestiere intellettuale come armi metaforiche (pp. vii-ix). Vedremo nel seguito che Svevo adotterà delle metafore simili in un appunto del 1902, capovolgendo però il significato e il valore che Lombroso attribuiva al paragone tra letteratura e violenza. Svevo, per così dire, fece dello scrivere modernista una questione di vita e di morte, uno strumento per la sopravvivenza da utilizzare per puntellare le rovine della modernità, e non solo un sintomo di corruzione e degenerazione.

 

In un brano di Degenerazione, Nordau fa riferimento all’ansia da “annichilimento del mondo” e all’effetto d’affievolimento, se non di spegnimento (Subialka), della modernità. Egli fa uso d’una immagine che sembra anticipare la nozione di “senilità” che Svevo impiegherà nel romanzo eponimo del 1898. L’emotività della fin de siècle, scrive infatti Nordau, è “l’impotente disperazione di un ammalato che sente di morire oncia ad oncia in mezzo alla natura che gli sopravvive fiorente, e eternamente altera è l’invidia dell’uomo sensuale vecchio e ricco che vede una giovane coppia di amanti muovere il passo verso un angolo silenzioso del bosco” (Degeneration, p. 3).  In questo brano Svevo, che lesse sia Darwin sia Nordau, potrebbe avere trovato ispirazione per il personaggio di Emilio Brentani in Senilità, un personaggio che non è tanto, o non è solo, rappresentativo della crisi personale d’un uomo di mezza età. Tale personaggio, infatti, è indicativo della crisi d’una intera cultura che è sul punto di perdere la propria presa sulla vita e il suo impeto energizzante, una cultura che, al tempo stesso, cerca di rivitalizzarsi e di non “evaporare” del tutto, per dirla con Marshall Berman (All That is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, Penguin Books, New York, 1982).

 

Sulla soglia critica del ventesimo secolo, Mantegazza in Italia e Nordau in Europa testimoniano un’ansia della modernizzazione che preme nelle opposte direzioni del progresso e dell’annichilimento, del rinnovamento e della morte, degli impulsi autoritari e di più evolute, o aperte, forme politiche.

[…]

 

Come Antonio Gramsci osservava nei Quaderni da una prigione fascista nel 1930, in un periodo di crisi “le grandi masse si staccano dalle ideologie tradizionali e non credono più in ciò in cui erano solite credere in precedenza […]. La crisi consiste precisamente nel fatto che il vecchio muore” – e abbiamo appunto visto che la modernità ha anche un effetto di spegnimento sugli individui – “e il nuovo non può ancora nascere; in tale interregno appare una grande varietà di sintomi morbosi”.

 

I protagonisti dei romanzi analizzati in questo libro, inclusi quelli di Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borgese, mostrano un’ampia gamma dei “sintomi morbosi” di cui scriveva Gramsci nel 1930. Infatti, Alfonso Nitti, Consalvo Uzeda e la sua “manata di pazzi”, Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda, Filippo Rubé – ma anche i sei Personaggi di Pirandello – soffrono in modalità differenti di problematiche collegate al loro essere nel mondo: adattamento, competitività sociale (o, nelle parole di Enrico Morselli, “competizione per la vita”, Rivista di filosofia scientifica, 1, 6, 1882, pp. 613-668), e perdita sia di scopi ideali sia di ricchezza materiale. Tali problemi, considerati insieme, riflettono in certa misura ciò di cui gli autori dei romanzi discussi in questo libro dovettero fare esperienza negli anni successivi all’unificazione.

 

L’origine della specie (1859) di Darwin trasmise ai nostri scrittori un vocabolario scientifico che era anche letterario. Infatti, dopo la crisi delle certezze epistemologiche della teologia naturale e dell’empirismo dogmatico (anche se quest’ultimo era ancora elogiato in Francia da Émile Zola nel 1880 ne Il romanzo sperimentale), Darwin risolutamente adottò un approccio non essenzialista e fallibilista alla scienza, un approccio in cui le metafore – innanzitutto la metafora della struggle for life – avevano un ruolo cruciale nell’opporsi a un’accezione ristretta del positivismo scientifico.

 

Il caso dell’innovazione darwiniana in biologia e del romanzo italiano moderno evidenzia l’importanza che la fiction e le storie possono avere quando, come scriveva Gramsci, le ideologie tradizionali collassano e qualcosa di nuovo ma spaventoso appare all’orizzonte. Le storie, in un certo senso, si fanno carico del mandato di analizzare, decifrare, (bio)finzionalizzare e rielaborare la negatività dei “sintomi morbosi” sparpagliati per l’”interregno” di cui scriveva Gramsci.

 

Tale mandato non è esaurito neppure oggi, in anni d’innovazione tecnologica, turbolenza politica, violenza sulle donne, guerra, crisi ambientale e pandemica; anni in cui, come sostiene il filosofo politico Dario Gentili, una versione specifica del pensiero di Darwin – il cosiddetto “darwinismo sociale” – è la vera ideologia del nostro contesto neoliberale (o tardo capitalista) d’esistenza (The Age of Precarity: Endless Crisis as an Art of Government, Verso, London, 2021).  Questo contesto depressivo è ben descritto dallo slogan There Is No Alternative e caratterizza ciò che Mark Fisher ha chiamato “realismo capitalista” (Capitalist Realism: Is There No Alternative?, Zero Books, Winchester, 2010).

 

Quel che emerge dalle nostre considerazioni sulla lotta per la vita e il romanzo italiano moderno, in ogni caso, è che l’approccio innovativo di Darwin al bíos (alla vita) pose le condizioni che rendono possibile il racconto d’una storia differente dalle storie pietrificate (e naturalizzate) dagli imperativi del darwinismo sociale e dall’apparente assenza d’una alternativa. In un certo senso, Svevo, De Roberto e Pirandello impararono da Darwin (forse in maniera indiretta, nel caso di Pirandello) che era possibile affrontare – tramite la letteratura – gli effetti maggiormente ansiogeni dell’impatto del darwinismo sulla biologia e sulla società, come ad esempio l’inevitabilità della lotta contro le avversità e il rischio d’estinguersi nel corso di questa lotta. Grazie a Darwin – e non nonostante Darwin – divenne possibile ripercorrere quegli effetti creativamente, in modo da continuare ad immaginare il mondo altrimenti, senza però ignorare la realtà. Nel caso di Svevo, ad esempio, tale altrimenti finì per consistere nella letteraturizzazione della vita (pensiamo che De Roberto in sostanza condividesse questa prospettiva). Per quanto riguarda Pirandello, invece, i sintomi morbosi della vita, in ultima analisi, dovevano essere agiti esteriormente (acted out) tramite un’inedita teatralizzazione della vita stessa.

 



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