LA “LOGGIA FOTOGRAFICA” DI ENRICO SEFFER
Mario Pintacuda
Nella Palermo di fine Ottocento l’arte fotografica era oramai diffusa: in particolare la scena cittadina era dominata dagli studi di Giuseppe Incorpora (1834-1914, cavaliere del regno) e di Eugenio Interguglielmi che aveva la sua “loggia fotografica” (si diceva così) in Corso Vittorio Emanuele, Largo Santa Sofia.
A loro si aggiunse Enrico Seffer (1839-1919), figlio di un Pietro (1777-1860) che era stato “caffettiere” a Palermo (il suo corpo imbalsamato si trova nella Chiesa dei Cappuccini: nell’800 i "caffè" palermitani erano molto in auge e, gestiti anche da nobili, fungevano da ritrovo, bar o circolo).
Non è sicura l’origine della passione fotografica di Seffer: secondo una notizia, sarebbe stato colpito dalla vista di alcuni fotografi francesi scesi in Sicilia a documentare la presenza dei Mille; avrebbe così deciso di intraprendere questa nuova professione.
L’attività fotografica di Seffer iniziò dunque attorno al 1860, in coincidenza con la diffusione, in larghi strati sociali in ascesa, della moda del ritratto fotografico.
La prima sede si trovava in corso Vittorio Emanuele al n° 330, nel palazzo conte Capaci, casa Viola. Un successivo cartoncino pubblicitario attesta poi la nuova sede di “Fotografia italiana diretta dai fratelli Seffer” in corso Vittorio Emanuele - Strada Maqueda, Vicolo Marotta n. 36, palazzo Principe s. Vincenzo. Questa pubblicità lascia ipotizzare una società con il fratello Antonino, che però poi si trasferì a Napoli; Enrico divenne dunque direttore dello studio fotografico e unico gestore artistico ed amministrativo. Nel 1882 aprì un nuovo studio in salita San Domenico (oggi Via Giovanni Meli), passando da un civico all'altro della strada fino a fermarsi, finalmente in un’abitazione con un particolare loggiato a vetrate e ferro alle spalle della Chiesa di San Domenico.
Nella fase iniziale (come ricostruisce Dario Lo Dico in un articolo sulla rivista Kalòs nel 2006) Enrico fu finanziato da una zia materna, Donna Gesualda D'Alessandro che ebbe il merito di credere nelle attitudini fotografiche del nipote.
Enrico prima, poi i figli e infine i nipoti diventarono specialisti in ritratti: bambini, casalinghe, militari, religiosi, padri di famiglia, sposi, ecc. Infatti «nell’immaginario collettivo di questa piccola e media borghesia l’idea del ritrarsi venne vissuta come una vera e propria elevazione di rango. [..] Ecco quindi la famiglia borghese e medio borghese assumere nel “luogo” del ritratto l’aura accademica della posa e proporre il proprio status visivo come un valore da contrapporre alla oramai declinante aristocrazia locale. Ecco volti femminili immedesimarsi nelle espressioni delle attrici teatrali con lo sguardo trasognante da romanzo d’appendice» (Nosrat Panahi Nejad: si tratta di un iraniano trapiantato in Sicilia dopo aver studiato fotografia e cinema a Milano e Bologna). Come aggiunge Eduardo Rebulla, questo tipo di ritratto era «distante tanto dall’indagine psicologica che dal descrittivismo; ancora legato alla concezione aulica tramandata dalla miniatura, alla finzione e alla teatralità. […] Il fotografo era il gran regista di questa rappresentazione, l’artefice della scena e della posa».
La fama di Seffer crebbe quando eseguì diversi ritratti di briganti famosi; ricevette l'incarico nel 1877 dalla polizia per utilizzare tali ritratti come foto segnaletiche (questa collezione si può oggi visionare presso il Museo Etnografico Pitrè); queste foto sono a volte opere d’arte, giacché il fotografo riuscì a “nobilitare” l’aspetto di quei briganti, presentandoli al pubblico in pose eleganti e raffinate. Seffer fu poi premiato con un diploma di merito che gli fu consegnato in occasione dell'Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-1892.
La sede del “loggiato” diventò uno degli atelier più belli e moderni della Palermo della “belle époque”: aveva eleganti sale d’aspetto, una sala di posa e un gabinetto per i negativi; inoltre la veranda artistica in legno e vetro fu utilizzata a sua volta come scenario per le foto.
Enrico Seffer ebbe tre figli maschi: Pietro (1872-1947), Michele (1875-1948) ed Achille (1888-1932). Dopo l'Esposizione Nazionale i figli (almeno i primi due) si affiancarono al padre: di qui la nuova denominazione “Studio Fotografico di Enrico Seffer e Figli”. Michele in seguito si staccò dallo studio paterno, perché sposò Giuseppina Randazzo (appartenente alla famiglia degli ottici Randazzo) ed aprì un suo studio in via Libertà 16 ("Argo Foto").
Fra i nipoti, solo Domenico “Mimì” Seffer (1909-1970), uno dei 4 figli di Pietro, continuò l'attività del padre e del nonno, fino alla morte: anzi, morì di infarto proprio dentro la camera oscura dello studio.
Mimì aveva mantenuto le caratteristiche che avevano distinto la produzione artistica Seffer: «il ritratto eseguito secondo i dettami della tradizione: precisione, nitidezza, composizione soave dei personaggi ma mai verista» (così scrive ancora Nejad). Tuttavia proprio l’insistenza su una pratica ormai obsoleta fu l’inizio della fine dello studio, che chiuse la sua attività secolare in coincidenza con la morte di Domenico Seffer.
Due mostre sullo Studio Seffer furono organizzate nel 1983 e nel 1996 (quest’ultima allestita nel ridotto del Teatro Biondo e curata dal già ricordato Nosrat Panahi Nejad; vi erano esposte stampe originali su carta d’epoca e stampe tratte da lastre.
Nel 2000 il fondo Seffer è stato acquisito dal CRICD (Centro Regionale Inventario, Catalogazione e Documentazione); comprende 328 stampe di vario formato della seconda metà dell’Ottocento (di cui 10 montate in cornici d'epoca), 2693 lastre di vetro alla gelatina bromuro d'argento, 143 negativi di formato 10x15 cm e 554 pellicole a strisciata datate tra il 1958 e il 1963. Il Fondo comprende anche strumenti fotografici, sia da ripresa che da stampa, provenienti dalle Logge dei Seffer. Tra le attrezzature d’epoca si trovano anche un apparecchio fotografico del tipo camera-salon per il formato 18x24 cm (su cavalletto a terrazza), un otturatore con scatto a molla applicabile ad obiettivi delle fotocamere a banco, una macchina fotografica da campagna e viaggio (la cosiddetta “campagnola”) per il formato 30x40 cm, bromografi portatili per lastre di grande e piccolo formato, una lampada al magnesio e un ingranditore ad acetilene.
Nel sito http://sefferhouse.eu/sefferhouse.eu/I_Seffer.html è possibile trovare, oltre ad ulteriori interessanti notizie e dettagli, numerose foto di Seffer; ci sono persino 13 “nudi artistici”, così commentati dal curatore: «Non potete neanche lontanamente immaginare le mie sensazioni quando mi sono trovato tra le mani queste lastre! A pensarci bene non era poi così strano: siamo nel periodo delle case chiuse e gli album fotografici delle “signorine” dovevano essere ormai una comodità consolidata! Forse le pose poco volgari, forse la sapienza del fotografo, ma, da inguaribile romantico, avevo pensato a delle fidanzate intraprendenti che volessero mandare un loro ricordo “particolare” ai fidanzati/ragazzi/mariti che combattevano in qualche fronte lontano ... giudicate Voi stessi».
Io di Seffer ho un’unica foto, trovata nell’archivio di famiglia; fu scattata da Seffer (come si legge in basso) nei primissimi anni del Novecento a un fratello della mia nonna paterna Giovanna, che si chiamava Angelo Sciortino (1876-1952) e (come annotò mio padre dietro la foto) risiedeva a Santa Flavia.
Allego questa foto, insieme con altre quattro (tratte dal sito citato) che mostrano rispettivamente: la targhetta pubblicitaria; Enrico Seffer con i suoi figli; due dei tanti “ritratti”, quello di una giovane donna e quello del brigante Giuseppe Lo Zito. Quest’ultimo interessante ritratto viene così descritto da Paolo Morello in una pubblicazione di Sellerio, "Briganti- Fotografia e malavita nella Sicilia dell'Ottocento” (1999): «Lo sguardo in tralice; il cappello di sbieco; la barba folta; la mano sicura; il ritratto di di Giuseppe Lo Zito offre del brigante un'idea romantica: non quella di un delinquente feroce, finalmente tratto in arresto. Eppure, in galera venne eseguito questo ritratto, da Enrico Seffer, come fotografia segnaletica».
MARIO PINTACUDA
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