16 novembre 2022

ANNIBALE C. RAINERI SU DEMOCRAZIA e GIUSTIZIA

 




Ripropongo di seguito, con il consenso dell'autore, l'intervento di ANNIBALE C. RAINERI al Festival delle filosofie” svoltosi a Palermo lo scorso 29 ottobre, dedicato al rapporto fra Giustizia e democrazia, in dialogo con Giovanni di Benedetto e Roberto Pomelli. 


GIUSTIZIA E DEMOCRAZIA:

DALLA FORMA-DENARO ALLA GIUSTIZIA COME ECCEDENZA

Annibale C. Raineri


0. Questione

Cosa si presenta innanzi ai nostri occhi? A fronte dei principi di uguaglianza

che regolano la vita delle democrazie, l’ingiustizia si mostra in tutta la forza di

realtà dominante le relazioni sociali e la condizione degli individui. Giovanni

si è soffermato su questo punto mostrandoci ciò che è necessario vedere. Ma

anche limitatamente al tema della democrazia, cioè del potere del popolo, la

situazione non è meno contraddittoria: a fronte dei principi che regolano la

sovranità nell’ordine democratico, la disparità nella capacità di esercizio del

potere è abissale. Lo stesso aumento dell’astensionismo, fenomeno comune a

tutto l’occidente democratico, non è causa ma piuttosto effetto della

percezione di impotenza dei singoli nel determinare i reali indirizzi del potere

sovrano. Il fatto che l’astensionismo sia di gran lunga maggiore fra gli strati

subalterni conferma questa interpretazione. E d’altra parte come non

considerare, in tema di esercizio della sovranità attraverso il voto, quanto pesi

nella formazione della opinione la distribuzione ineguale della istruzione (e

quindi nella capacità di leggere adeguatamente i messaggi politici) o, ancor

più, il controllo oligopolistico, pubblico e privato, dei mezzi di

comunicazione e la forma di messaggio pubblicitario che ha assunto la

comunicazione politica?

Ragionare intorno al tema del rapporto fra democrazia e giustizia significa

interrogarsi su questa antinomia fra i principi che regolano la sovranità e

l’esercizio della giustizia nelle società che si autodefiniscono democratiche e la

condizione di ingiustizia in esse largamente maggioritaria. Significa chiedersi

se questa divaricazione sia un mero accidente, superabile nel tempo, o se esso

non attenga piuttosto alla struttura elementare della democrazia e della forma

che in essa assume l’esercizio della giustizia. Naturalmente si tratta di

questioni enormi sulla quale mi limiterò ad accennare ai punti che,

soggettivamente, più mi premono. Dovremo chiederci: Cosa è democrazia?

Cosa in essa è esercizio della giustizia? Quali le loro strutture elementari?

Quale il fondamento reale di tali strutture e che rapporto con la ingiustizia

reale? Ed infine: è pensabile un’altra direzione dell’esser giusto nell’esercizio

della giustizia?


2


1. Democrazia

Democrazia è termine troppo ampio, ambiguo se non equivoco. In senso

ampio ha designato ogni regime politico non autoritario o dispotico, ma oggi,

cancellato l’universo simbolico novecentesco con le sue antinomie e

problematizzazioni, esso sembra aver acquisito un significato univoco. È

quello dettato dalla pressione che l’attuale guerra in Europa è tornata ad

imporre: la democrazia (liberale, l’unica che abbia realtà effettuale)

contrapposta alle diverse forme del dispotismo: autocrazia (Russia)

comunismo (Cina), teocrazia (Iran). Sottolineo unica (democrazia), diverse

(dispotismo).

1.a. Democrazia è sovranità del popolo nelle forme della legge, quindi non il

popolo in quanto tale o come realtà sociologica o storica, ma popolo in

quanto legalmente costituito. Popolo è l’insieme dei cittadini, quindi soggetto

di esercizio della sovranità è il cittadino in quanto essere giuridico nelle

condizioni formali di esercitare tale sovranità 1 .

Per associare al ragionamento una rappresentazione, proviamo a ricordare

dove, in via primaria, esercitiamo il nostro potere sovrano.

Il nucleo duro, il punto elementare (nel senso di principio, Aristotele), in cui

si esercita in democrazia il potere sovrano, è l’atto elettorale. In che

condizione ci troviamo nella cabina elettorale? Siamo non soltanto soli, ma

isolati, nel segreto di un luogo dove nessuno può vederci, e quindi liberi di

decidere con indipendenza di giudizio.

Chiamo democratica quella società in cui l’esercizio della sovranità popolare

avviene nelle condizioni di libertà (autonomia-indipendenza) ed uguaglianza dei

cittadini nella forma della legge, ed in forza di legge, cioè garantite dall’esercizio

della forza, dal dominio della forza (della legge), cioè ancora della violenza

legittima. Sottolineo: in forma ed in forza.


1 So bene che, a seguito della crisi di civiltà che ha raggiunto il culmine con la seconda guerra

mondiale, il costituzionalismo europeo ha posto limiti a tale principio assoluto di sovranità, ed

ha anche indicato forme collettive di partecipazione alla vita democratica (in particolare nella

costituzione della Repubblica Italiana). Tuttavia ritengo che non ha potuto intaccarne il

meccanismo fondamentale, il nucleo duro, come mostra l’evoluzione delle nostre società negli

ultimi decenni. Eguale discorso vale per i tanti esperimenti di “democrazia partecipativa” a

livello di enti locali. Il problema è evidentemente altrove.


3

1.b Che significa che il cittadino che esercita la sovranità è un soggetto libero

ed uguale, secondo la natura universalistica della legge? Significa che si fa

astrazione dalla concretezza del suo essere sessuato, con determinate fedi e

credenze, con un corpo determinato (ad es. il colore della pelle), con una

determinata collocazione socio-culturale (di classe, etnica), inserito in un

determinato tessuto di relazioni. Vorrei essere chiaro intorno a questo punto,

utilizzando semplificazioni da “Prima repubblica”: un cittadino nel voto,

l’atto con cui esercita la sua sovranità, poteva essere influenzato dalla sua

condizione sociale (un operaio di una grande fabbrica del nord avrebbe

votato comunista), dal suo orientamento sessuale (un gay un tempo avrebbe

votato Partito radicale), dalla fede religiosa (un cattolico Democrazia

Cristiana). Ma queste collocazioni sociali, questi orientamenti sessuali, queste

appartenenze religiose, nel condizionare l’opinione politica dell’elettore,

rientravano nella sua dimensione privata, nel suo essere concreto, ma egli

votava non in quanto operaio, gay, cattolico, ma in quanto cittadino. Egli era,

nell’atto di votare, puramente e semplicemente cittadino, senz’altra

determinazione. Cittadino in generale. È questo l’universalismo della forma

democratica della sovranità 2 .

1.c La legittimità ad esercitare il potere sovrano, per delega dell’insieme

astratto ed indifferenziato dei cittadini, è conseguente alla misurabilità del

consenso conseguito. Tale misurabilità implica l’uniformità qualitativa del

consenso espresso: una testa un voto, ma un voto vale quanto l’altro.

Qualitativamente indifferenti, vanno contati: 1,1,1,1….

1.d Riassumendo. Democrazia è una forma sociale di esercizio del potere

sovrano che implica/presuppone l’essere astratto del soggetto e l’essere

misurabile della sua azione.

2. Giustizia

La democrazia si autorappresenta come il risultato di un processo storico

volto alla eliminazione dell’arbitrio del Signore rispetto all’esercizio della

sovranità. Analogamente anche per la giustizia sembra potersi delineare un

percorso volto all’abolizione tendenziale dell’arbitrio di fronte all’ingiustizia,

cioè dell’arbitrio nella risoluzione dei conflitti fra individui, fra gruppi, o in

2 Ne consegue il divieto del vincolo di mandato: se il rappresentante, nell’esercizio della

potestà che gli deriva dall’esser stato eletto, non rappresenta i suoi elettori ma il popolo in

generale, nella sua unità indistinta ed indifferenziata (l’insieme dei cittadini in quanto enti

astratti), egli non è vincolato alle opinioni di chi lo ha eletto, ma esercita il potere che gli

deriva in piena libertà, indipendenza ed autonomia.


4

generale fra l’individuo (o un gruppo) e l’intera comunità. Eliminare l’arbitrio

nella decisione di chi detiene legittimamente il potere di (ri)condurre tale

relazione ad una condizione di “giustezza”, sembra possibile unicamente

riconducendo l’esercizio della giustizia all’ambito del diritto. È questa

l’operazione che fa la democrazia. Come è possibile l’eliminazione

(tendenziale) dell’arbitrio? cioè come sono possibili giudizi oggettivi intorno

all’esser giusto di qualcosa? Affinché ciò sia possibile è necessario (questo il

paradigma democratico) che la giustizia abbia misura “oggettiva”, che ciò che

è oggetto del giudizio di giustezza sia comparabile, quindi misurabile rispetto

a parametri di equivalenza o di proporzionalità (es. nella giustizia penale:

proporzionalità fra reato e pena). Il giudizio consisterà nel sussumere la

singolarità dell’evento o della situazione fattuale dentro una codificazione

universale (la fattispecie). Ciò presuppone che il soggetto che compie l’azione

oggetto di giudizio, e specialmente il soggetto giudicante sia un soggetto

astratto, privato della sua concretezza corporea-individuale e relazionale.

3. Forma-denaro

Da cosa deriva la forza di questo modello, tal che esso si presenti oggi come

l’unico modello sociale da contrapporre all’arbitrio di un potere senza legge?

Vi è nella realtà qualcosa che fa esistere realmente dei soggetti astratti, così da

dar forza sociale all’astrazione giuridica del soggetto titolare della sovranità

politica e del soggetto che, per superare la condizione sentita come ingiusta,

reclama innanzi allo Stato la soddisfazione di un diritto sancito dalla norma

universale?

Abbiamo visto l’isomorfismo tra l’esercizio democratico della sovranità e il

diritto alla eliminazione della condizione di ingiustizia, individuando tale

isomorfismo 1) nell’esistenza reale, cioè socialmente efficace, di un soggetto

astratto (ed in questo senso libero ed indipendente), che esercita la sua capacità

di azione in modo che da tale esercizio risulti “oggettivamente”, cioè a

posteriori, la volontà comune (sovranità) ed il bene comune (giustizia)

secondo criteri universali, e conseguentemente 2) nella misurabilità delle azioni

secondo parametri universalistici.

3.a Da dove proviene tale capacità di astrazione reale? Questa fonte

l’abbiamo danti gli occhi ogni istante della nostra vita. Ogni volta che

guardiamo una vetrina, accanto all’immagine della merce vi è apposto un

numero, un valore meramente quantitativo: il prezzo, l’equivalente in denaro

del valore. Nel mercato si confrontano merci comparabili in quanto si fa

astrazione, nella unità di misura della equivalenza di valore, della loro


5

determinatezza qualitativa, del loro esser differenti. Ma tale comparazione di

cose è nient’altro che la forma sociale del rapporto fra soggetti che, in questa

determinata forma sociale, esistono unicamente come soggetti astratti, eguali

perché astratti, legati l’uno all’altro nella forma della libertà e

dell’indipendenza (sottolineo: legati nella forma dell’indipendenza). Questa

forma specifica di legame sociale li costituisce come individui, soggetti

astratti, cioè – nella loro esistenza sociale – privati del loro essere differenti,

corporei e relazionali. È la penetrazione della forma-valore, attraverso la

figura del denaro, in tutti gli ambiti della vita a partire dalla conquista dei

processi produttivi (capitalismo), che rende possibile e socialmente ovvia una

cosa così strana come un “soggetto astratto”, un uomo incorporeo e a-relato,

che rende naturale una astrazione reale, secondo la lingua di Marx e del

neomarxismo 3 .

3.b Possiamo adesso comprendere come sia possibile, anzi necessario, il

paradosso dal quale ha preso le mosse questo mio intervento: la coesistenza

fra l’uguaglianza e la libertà dei soggetti nel duplice ordine della sovranità

politica (democrazia) e del diritto alla giustizia da un lato, e le evidenti

condizioni di diseguaglianza e ingiustizia così palesemente davanti agli occhi

di ognuno di noi dall’altro.

Il lungo processo storico, carico di violenza, con cui la forma-denaro si è

imposta come l’unica (tendenzialmente) forma della sintesi sociale,

producendo come soggetto della sfera pubblica (tanto politica che

economica) il soggetto astratto, ha ricacciato nell’ombra – e reso socialmente

ininfluenti – le condizioni concrete di esistenza dei singoli esseri umani. Tali

condizioni vengono espunte dallo scambio sociale sia rispetto all’esercizio

della sovranità che rispetto alla pretesa di giustizia. La concretezza delle

condizioni di ingiustizia diviene a tali fini (sovranità e giustizia) irrilevante. Ma

essa, ovviamente, continua a segnare le vite degli esseri umani e la loro

effettiva disparità di godimento del potere sociale. È questa la grande lezione

di Marx: nelle nostre società l’uguaglianza è la forma della disuguaglianza, la libertà è

la forma del dominio.


3 In altre parole: è il lungo processo storico, iniziato nel seicento, attraverso cui la forma-

denaro si è imposta come il (tendenzialmente unico) soggetto della sintesi sociale, ad aver

generato la figura dei soggetti astratti che si incontrano negli scambi materiali e simbolici (e

quindi anche cognitivi) della vita sociale. Il capitale nella forma-denaro costituisce il soggetto

trascendentale rispetto al quale i singoli individui costituiscono gli io empirici. Oltre ai testi

marxiani, cfr. Adorno Parole chiave e Alfred Sohn-Rethel Lavoro intellettuale e lavoro manuale.


6

Mi preme sottolineare un altro aspetto di questa «uguaglianza come forma

della disuguaglianza»: sotto l’apparenza di universo sociale in cui si svolge la

concorrenza fra esseri liberi, in realtà la scena che sottostà a quella apparenza

è la guerra. Guerra per l’acquisizione di quote del mercato, o la conquista di

nuovi mercati. Non appena appare la crisi, la guerra diviene nuovamente

evidente, ma essa è la vera dimensione dei rapporti fra gli uomini che sottostà

all’apparenza della libertà. Le parole ci dicono molto, se le prendiamo sul

serio: pensate quante volte si usa l’espressione «guerra dei mercati» per

giustificare scelte politiche «di emergenza». Ma pensiamo anche a ciò che da

ultimo accade in Ucraina, alla determinazione a vincere e non ad ottenere la

pace, per comprendere come la guerra è non solo l’essenza degli imperi

autocratici, ma anche delle civiltà democratiche, a partire dall’antica Atene, su

cui la “guerra del Peloponneso” ha molto da dirci intorno alla sua verità 4 .

4. Un’altra giustizia

Possiamo immaginare un’altra idea della giustizia, al di fuori dello

formalizzazione democratica e della uguaglianza dell’astratto individuo

proprietario?

4.a Marx non amava dire nulla di positivo intorno alla sua immagine della

società comunistica. Vi sono tuttavia due piccoli accenni, l’uno nei materiali

dai quali Engels ricaverà il terzo libro de Il capitale, l’altro nella Critica al

Programma di Gotha. Sono niente più che due frammenti, dai quali però,

leggendoli sinotticamente (anche a rischio di forzarli, ma non credo), si

possono ricavare elementi per un prospettiva di ricerca. In ambedue Marx fa

riferimento ad una prima ed una seconda fase del comunismo. Sebbene sia

stato già soppresso il dominio di una classe sull’altra, la prima fase del

comunismo sarebbe ancora segnata dalla necessità, ed in essa la libertà

potrebbe consistere unicamente nella razionalità strumentale (con linguaggio

novecentesco) di calcolo per regolare il ricambio organico con la natura. Si

tratta quindi di una razionalità vincolata alla necessità. A questa regolazione


4 L’espressione «mercato politico» ha quindi un valore non meramente fenomenologico (le

parole dicono, al di là delle intenzioni soggettive: l’«offerta dei partiti», la forma pubblicitaria

della comunicazione politica, etc.). Essa rimanda all’isomorfismo fra mercato economico e

politica in democrazia (come si è venuta configurando): come la libera concorrenza e lo

scambio di equivalenti sono la forma con cui si realizza la guerra (feroce quanto occorre) di

appropriazione della natura da parte e fra i più forti, così il “mercato elettorale”, cioè la libera

concorrenza per l’acquisizione del consenso, è la forma con cui si realizza la guerra per

l’appropriazione del potere legittimo. Quanto in tali conflitti (economici e politici), in tali

guerre, i singoli siano oggetto e non soggetto mi sembra sia sotto gli occhi di tutti.


7

razionale delle necessità del lavoro corrisponde una distribuzione legata ad un

sistema di equivalenza fra lavoro erogato e compenso ricevuto. Ma essendo le

condizioni di ciascuno differenti come differenti sono gli esseri umani, il

diritto derivante da una eguale misura «è un diritto diseguale…esso è perciò,

per il suo contenuto, un diritto alla disuguaglianza, come ogni diritto».

Attenzione all’espressione di Marx: ogni diritto è diritto alla disuguaglianza.

Solo successivamente, con un ulteriore sviluppo, «la società può scrivere sulle

sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi

bisogni» 5 . Cosa significa questa frase? Significa che in un tal tipo (ipotetico) di

società vige un’altra razionalità della giustizia, per la quale nello scambio fra il

dare e l’avere – che regola i rapporti fra l’individuo e il gruppo – non vi è

calcolo contabile ma, diremmo oggi, relazione simbolica. La giustizia esce così

da ogni criterio astratto di misurabilità e apre al mondo della libertà (non più della

necessità): «lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso, il vero

regno della libertà». Non mi interessa in questa sede discutere la teoria

marxiana delle fasi storiche, mi interessa notare come Marx evidenzi

l’esistenza di due diverse razionalità di giustizia: l’una derivante dal vincolo

della necessità e che implica l’uguaglianza e la commisurazione (l’uguale

misura), l’altra che deriva dal un legame di libertà emancipatosi dalla misura

perché assume la differenza e non l’uguaglianza come principio ispiratore 6 .

5 Questa frase in realtà non era altro che un motto presente ampiamente nel socialismo

ottocentesco, e d’altra parte corrisponde ad una idea di comunismo che ha nel primo

cristianesimo una sua statuizione. Nella prima comunità cristiana: «Nessuno infatti tra loro

era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di

ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a

ciascuno secondo il suo bisogno» (Atti degli apostoli, 4,34-35).

6 Elementi in una direzione simile a quella prospettata da Marx si sono intravisti nella nostra

società a seguito della pressione dei grandi movimenti di massa degli anni settanta. In

continuità con la costituzione repubblicana, l’ideale dello stato sociale, con l’erogazione

universale e pubblica dei servizi ritenuti essenziali, aveva questa prospettiva. Quando allora si

diceva che il servizio sanitario nazionale avrebbe dovuto rivolgersi non solo ai proletari ma

anche ed egualmente ad Agnelli (e da questo si sarebbe misurata la sua effettività), si faceva

riferimento non solo alla qualità sanitaria del servizio, ma anche al fatto che tale servizio

dovesse essere gratuito anche per il ricco “padrone” Agnelli, contribuendo Agnelli al “bene

comune” attraverso la fiscalità generale e non attraverso il pagamento di un “prezzo”.

Quell’idea di stato sociale, cioè, era più simile al comunismo marxiano che non il successivo

criterio monetaristico introdotto anche nei servizi pubblici. Quel diverso universalismo si

associava, ed era preceduto, da una produzione normativa che forzava (ed infrangeva) i

principi di astrazione e generalità proprie dello stato di diritto, assumendo la disimmetria

delle condizioni di vita e prospettando azioni volte a tutelare le posizioni più deboli (l’esempio

più eloquente è il c. d. “diritto del lavoro”). Ne conseguiva il superamento della rigida

divisione dei poteri e la trasformazione della norma in senso de-giurisdicizzato, in cui il

formalismo kelseniano si legava alle politiche keynesiane, ed in generale alla struttura del c. d.

stato sociale (cfr. L. Cavallaro, Giurisprudenza, in particolare il primo capitolo). Mi preme


8

4.b Fra i tanti racconti che Luca mette in bocca a Gesù, che mi affascinano,

ce n’è uno il cui inizio mi lascia perplesso, quello conosciuto come Parabola del

figliol prodigo. Non mi piace per questa figura del padre che resta lì, fermo, non

va a cercare il figlio che potrebbe star soffrendo. Lo immagino sulla porta di

casa col suo sguardo giudicante ed immobile. Eppure l’epilogo di questo

racconto ci dice qualcosa su ciò che stiamo interrogando. Il figlio, dopo aver

sperperato con una vita dissoluta la parte di proprietà che gli spettava, torna

dal padre appesantito dal senso di colpa per le scelte compiute.

 «“Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di

essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il

vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai

piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo

festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è

stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. (…) Il figlio maggiore si trovava

nei campi. Al ritorno (…) (indignato disse), al padre: “Ecco, io ti servo da

tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai

dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo

tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai

ammazzato il vitello grasso”» 7 . Certo l’azione del padre è animata dal forte

sentimento di compassione, ma in essa vediamo in azione un preciso senso di

giustizia, una precisa razionalità di giustizia. Il senso di giustizia che muove il

padre alla fine del racconto è legato alla relazione fra due esseri singolari e

concreti e alla contingenza della separazione e della riconciliazione (sottolineo

relazione singolare e contingenza) in opposizione al senso di giustizia rivendicata

dal figlio maggiore, proprio di una dimensione astratta e misurabile.

Attenzione, il figlio maggiore non è malvagio, egli semplicemente rivendica

un diritto, il diritto alla sua giusta parte. L’una prospettiva di giustizia è ingiusta

con i parametri dell’altra, e reciprocamente.

Il racconto di Luca ci offre un altro elemento: l’atto di giustizia del padre è la

celebrazione di una festa. Una festa non è semplicemente la modalità di

espressione della gioia per l’avvenuta riconciliazione, per la ricucitura della

lacerazione. È un’azione corale. Essa esprime, nella forma della coralità

gioiosa, la dimensione comunitaria necessaria alla realizzazione di questa

forma di giustizia. La giustizia che qui è messa in opera non è un fatto


sottolineare il fatto che si tratta di due razionalità opposte, la cui coesistenza instabile non

sembra poter durare a lungo, come mostra la storia occidentale a partire dagli anni ottanta.

7 Luca 15


9

privato, ma un evento comunitario, come comunitaria era la relazione lacerata

che, con quell’atto di giustizia, viene ricucita.

Due giustizie, due razionalità, come in Marx, ma in Luca l’elemento

comunitario presente in Marx si specifica come dimensione relazionale,

singolare e contingente.

Proprio il momento della festa 8 , che è interruzione del continuum dell’ordine

sociale, ci fa comprendere come la logica della giustizia-senza-misura è una

logica che sovverte l’ordine della giustizia-secondo-misura, l’ordine della

giustizia delle equivalenze e del diritto su di essa fondato.

È questo ciò che impariamo dal pensiero della differenza sessuale. La critica

femminista all’universalità astratta del soggetto, cioè all’universalizzazione

neutra del soggetto maschile, non ci consegna infatti l’immagine dell’essere

umano come individualità, ma piuttosto come essere in relazione, ancorché

segnato nel suo essere singolare-corporeo dalla differenza sessuale. Questo

spostamento non è (soltanto) un fatto teorico, è l’esperienza di una pratica in

cui la libertà non è né una condizione futura da attendere né un diritto da

rivendicare, ma la realtà in atto conseguente alla pratica della relazione fra

donne che fonda l’autorità femminile. È l’esperienza di una “pratica politica”,

nel linguaggio del femminismo della differenza, che può metterci sulla buona

strada in riferimento alla questione della giustizia con la quale ci stiamo

confrontando.

A questo punto del cammino che stiamo conducendo, mi sento di dire che

non c’è giustizia se non in riferimento ad una esistenza singolare, ad un

concreto tessuto di relazioni, alla contingenza dell’essere-in-comunità.

5.b Inverto la prospettiva marxiana 9 : l’altra giustizia, quella senza-misura,

senza contabilità del dare/avere, non è primariamente un fine da raggiungere

(es. l’ultima fase del comunismo), lo è anche, ma è anzitutto e primariamente il


8 «So che ci sono tra di voi giovani che vogliono fondare delle comunità, è di moda oggi. Che

non dimentichino che non fonderanno se non sanno festeggiare. Perché la comunità viva,

occorrerà saper lavorare. Ma se sapete lavorare e non sapete fare nient’altro, se siete come

uccelli senza ali e senza voce, allora la vostra comunità diventerà talmente pesante che cadrà»

scrive Lanza del Vasto (L’Arca aveva una vigna per vela, p. 234. E fare festa significa, nell’Arca,

anzitutto danzare insieme. Senza festa non c’è comunità possibile. «Se non posso ballare non

è la mia rivoluzione» sentenzia l’anarchica russa Emma Goldman. La festa è elemento

presente in ogni (vera) rivoluzione, quando si guardi ad esse ponendo lo sguardo sotto la

superficie delle dinamiche politiche.

9 In realtà si tratta di una inversione rispetto alla linea maggioritaria del marxismo, essendo la

posizione di Marx più complessa, ove si legga in modo unitario il suo laboratorio intellettuale

ed esistenziale, a partire dagli scritti filosofici giovanili fino alle ricerche dell’ultimissima fase.


10

fondamento reale del nostro essere-in-comune. Solo grazie a questo esser-già

può costituirsi come termine ad quem di un agire secondo giustizia. Trovo

ispirazione per questa inversione nel cristianesimo («Il Regno è già qui», si

tratta “solo” di saperlo vedere) e nel movimento delle donne, nella coscienza,

da esso fatta emergere, che la vita umana ha continuato a fluire, nonostante

tutto, e a realizzarsi come essere-in-comune, non grazie alla sintesi sociale del

denaro-capitale ma grazie alle pratiche primariamente femminili di

generazione e di cura che, invisibili nella scena pubblica, hanno trasmesso la

capacità di legame, ripeto nonostante tutto.

6. Obbligo

Quale forma di coscienza può promuovere una tale inversione?

Fra il dicembre del ’42 e l’aprile del ’43 a Londra, Simone Weil è incaricata di

esaminare i materiali provenienti dagli ambienti della resistenza francese,

come lavoro “istruttorio” affinché le Commissioni Nazionali istituite da De

Gaulle potessero gettare le basi della nuova Francia. Simone Weil non si

limita ad elaborare tale materiale, ma, riflettendo su di esso, elabora una serie

di scritti in cui indica ciò che secondo lei è necessario affinché tale opera

possa realizzarsi. Si tratta dei testi conclusivi della sua lunga riflessione

politica. Il punto centrale di tale riflessione è che occorra prendere le distanze

dalla tradizione politica europea la quale, a partire dalla Dichiarazione dei diritti

dell’uomo e del cittadino, pone come principio assoluto il concetto di diritto. La

nozione di diritto, nella nostra tradizione giuridica, scrive, è «legata a quella di

spartizione, di scambio, di quantità. Essa ha qualcosa di commerciale. Evoca

un tono di rivendicazione; e quando questo tono è adottato, vuol dire che la

forza non è lontana, dietro di esso, per confermarlo, altrimenti è ridicolo».

In evidente opposizione alla rivoluzione francese, il testo fondamentale in

questo gruppo di scritti è indicato dalla stessa Weil col titolo di Preludio ad una

dichiarazione dei doveri verso l’essere umano.

Non quindi i diritti dell’individuo astratto (il cittadino o la persona), ma i doveri

nei confronti dell’essere umano, nella sua singolarità concreta. Questo il

fondamento. L’inizio del Preludio pone da subito i termini della questione:

«La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e

subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo

cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da

chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti,

obbligati a qualcosa (…) Un uomo, che fosse solo nell’universo, non avrebbe

nessun diritto, ma avrebbe degli obblighi».


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Non contabilità dare/avere, ma obbligo incondizionato nei confronti dell’altro,

ciascuno, che ci interpella con la sua semplice presenza, dovere nei confronti

dell’altro che mi appella con la sua domanda di giustizia: «Perché mi fai

questo?» «Perché mi accade questo?» A questo ci chiama Simone Weil.

7. Essere in debito

7.a L’atto iniziale di questa nuova coscienza è la consapevolezza di essere in

debito. Essere-in-debito, perché non mi sono dato la vita da solo, perché non

vi è maggior menzogna del soggetto moderno, il soggetto che si autofonda, si

autocostituisce. Essere-in-debito perché non sono nato da solo, ma sono nato

da una donna che mi ha donato la vita. Perché la vita ed il vivere sono

l’effetto di un dono ripetuto nel tempo, finché la vita dura, affinché la vita

duri.

Questa dimensione del dono gratuito che non attende il ritorno speculare, è

quell’invisibile fondamento dell’esser-comune che da sempre ha fondato

l’esser-in-comune degli umani, perché scaturisce dalla relazione asimmetrica

della posizione materna, che struttura, nella sua asimmetria, il prendersi-cura-

di; scaturigine del legame sociale: relazione con l’altro orientata alla

trascendenza che è immanente al suo essere parlante. (Come vedete non sto

parlando di Dio, ma di una struttura antropologica).

L’incommensurabilità dell’aver-avuto è la grazia, la gratuità del dare, un’altra

realtà rispetto al sistema della logica di potenza, al dominio della forza

(violenza) che si manifesta nella legge della macchina sociale e nella sua

gravità (pesantezza); la libertà che si incarna nella gratuità del dono,

fondamento, attraverso il sentimento di una gratitudine originaria, del legame

sociale.

Solo la coscienza dell’essere in debito, e non la posizione del titolare di

diritto, può aprire ad una prospettiva di giustizia incompatibile con il dominio

della forma-denaro del capitale come medium della sintesi sociale, e della sua

controfigura giuridico-statuale. Solo questa dimensione apre ad un’idea di

giustizia come libertà incondizionata.

7.b Questo spostamento di prospettiva, proprio in quanto è connesso alla

libertà del dono e alla tensione verso l’altro (trascendenza), implica

l’allontanamento dalla sfera del dominio della forza, ovvero della violenza

come fondamento dell’ordinamento sociale, strutturalmente implicato tanto

nel principio di sovranità democratica quanto nella sussunzione della giustizia

nel diritto (e di cui le guerre imperialistiche sono solo la manifestazione più

esplicita, e ancora ricordo come il modo in cui l’Occidente si sta opponendo


12

all’aggressione russa dell’’Ucraina, cercando non la pace, ma la vittoria, sia

coerente con questo dato strutturale).

Questa diversa idea di giustizia si muove nella prospettiva di una progressiva

azione pacificatrice che disarticola la struttura violenta delle società. Qualcosa

comincia a penetrare perfino nell’ambito così lontano della giustizia penale e

della esecuzione della pena. Sono i percorsi della giustizia riparativa o, come

preferisco dire, della giustizia rigeneratrice. Non mi interessa entrare in

questioni tecniche, sulle quali ho sempre una qualche riserva perché tentano

l’impossibile di conciliare gli opposti del dominio della forza (diritto) e della

libertà o obbligo verso l’altro. Mi interessa però fare riferimento alla

possibilità di una giustizia che si generi nell’incontro e muova verso

l’incontro. Rimando ad un libro straordinario, che mi ha colpito

profondamente, perché esso mostra che il miracolo esiste, ma miracolo è ciò

che più profondamente sta al centro del cuore degli uomini: Il libro dell’incontro,

edito meritoriamente da Il saggiatore nel 2015, «racconta dell’incontro

avvenuto, nell’arco di oltre sette anni, tra alcune vittime (e loro familiari) e

alcuni responsabili della lotta armata che ha segnato l’Italia negli anni settanta

e ottanta del secolo scorso. (…) Il nostro proposito era, ed è tuttora, quello di

compiere un tragitto insieme, noi mediatori “nel mezzo”, tra persone che

avevano subito un male terribile e chi quel male lo aveva causato, tutti uniti da

qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile,

decisivo: la domanda, o la ricerca di giustizia. (…) Nessuna vetta è stata

conquistata, nessun traguardo è stato tagliato. Ma il tragitto compiuto assieme

da questo gruppo, nato in sostanza in modo spontaneo, ci ha da subito rapiti

dai mondi che abitavamo, ci ha ri-direzionati, ci ha radicalmente trasformati.

(…) questo cammino, come il lettore scoprirà, si è – letteralmente –

“imposto”. (…) una piccola, grande, speranza divenuta per noi un fatto

tangibile e concreto: è possibile, nonostante tutto, cercare assieme la giustizia, ed è

cercandola assieme che, forse, la si può almeno un poco avvicinare» 10 .

Un’altra idea di giustizia, un altro fare giustizia, che trasforma non solo il

“colpevole” ma anche la “vittima”.


8. Eccedenza.

Vorrei concludere spostando ulteriormente il piano del discorso:


10 Dal Prologo. Sottolineature mie.


13

Cosa pensiamo quando diciamo: «Quegli è un uomo giusto»? quando ad un

nome proprio apponiamo l’espressione «è un uomo giusto»? O meglio, cosa

sentiamo? Proviamo a ripetere questa espressione rivolta ad un singolo,

determinato, essere umano, a qualcuno di cui abbiamo conoscenza, e

ascoltiamo, sentiamo cosa risuona in quel suono: «è un uomo giusto». Dico

«risuona» con proprietà, perché nell’esser-giusto è implicata una tensione

verso quell’armonia che dalla composizione di certi suoni ci penetra

nell’anima.

Sentimento di armonia dell’esser-giusti, desiderio di armonia nel fare giustizia.

Desiderio, potenza vitale di ogni essere umano, priva di oggetto, perché ciò

cui tende non si trova in nessun oggetto concreto, ma lo trascende. Spinta

verso ciò che trascende, ed insieme verso l’altro cui si rivolge e non può non

rivolgersi, perché desiderio è sempre tensione verso l’altro che diviene parola

comune.

Eccedenza è il buco del desiderio, l’essere assente che muove il soggetto, il

Bene (non la sua idea!) al di là di ogni oggetto. Buco nel simbolico, l’Altro del

dicibile che muove ogni dire. Ecco perché il Bene come causa dell’obbligo in

Simone Weil è libertà e non colpa, come invece lo è nel cattolicesimo e

nell’ebraismo.

In questa diversa dimensione dell’esser-giusto c’è qualcosa che eccede

qualsiasi ordine sociale, che eccede il codice dello scambio intorno a ciò che

mi spetta per diritto ed in esso trova misura e proporzione.

Noi sentiamo che c’è più giustizia in quel «Portate qui il vestito più bello …

prendente il vitello grasso… mangiamo e facciamo festa... » che non nel

calcolo di quanto spetti all’uno e all’altro, perché sentiamo che in quella frase

qualcosa dell’esser-giusto di un uomo si è manifestata, e che ciò sarebbe stato

impossibile se essa in anticipo fosse stata sottoposta al giudizio di parità dei

diritti comunque codificati.

Questo esser-giusto non ha propriamente misura, non ha proporzione. Esso

non procede da un codice sociale e per ciò non può divenire attuale grazie

all’esercizio della forza legittima, perché, pur manifestandosi attraverso lo

scambio (simbolico), attiene ad un piano dell’essere che lo precede e lo

eccede ad un tempo. È quel venire da dentro che si manifesta in una parola o

in una azione senza mai saturarsi in esse, ma senza le quali (parola ed azione)

non avrebbe realtà, effettualità (Wirklichkeit). Ed infatti l’esser-giusto, per se

stesso preme verso il suo divenir-effettuale attraverso l’azione, ma rimanendo

trattenuto al di qua di essa.


14

Nello spazio determinato dalla tensione fra la giustizia come norma e l’esser-

giusto ad essa irriducibile, si apre la possibilità di un’azione orientata alla

giustizia, purché di quella tensione e di quella irriducibilità si abbia

consapevolezza.


Annibale C. Raineri


Palermo 29 ottobre 2022, intervento al Festival delle filosofie di Palermo

nell’incontro dedicato a “Giustizia e democrazia”.


TESTI DI RIFERIMENTO

Karl Marx, La sacra famiglia

Karl Marx, Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico

Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica

Karl Marx, Il capitale

Karl Marx, Critica al Progamma di Gotha

Alfred Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale

Luigi Cavallaro, Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento

nell’Italia contemporanea, Quodlibet 2015

Luisa Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale

Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere diritti

Simone Weil, La persona umana e il sacro

Simone Weil, La prima radice

Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici

Roberto Esposito, Communitas

Jaques Derrida, Forza di legge

Jaques Derrida, «Justices»

Il libro dell’incontro


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