Vent’anni fa, la II guerra del Golfo
Non dev’essere esattamente per un caso che oggi a scuola, quando si parla di guerra (e certo non lo si fa mai abbastanza), di fatto si torna più facilmente alla “storia”, cioè alle due grandi guerre mondiali “lontane” del seolo scorso, piuttosto che a quella che dilaniò la Jugoslavia fino all’inizio di questo secolo o alle due guerre del Golfo. Per questo ci pare tanto utile l’attento racconto che comincia con questo articolo la nostra amica Alexik, a vent’anni dalla seconda guerra del Golfo, quella che comincia con George W. Bush che ottiene dal Congresso degli Stati Uniti l’autorizzazione all’uso della forza al fine di “difendere la sicurezza nazionale degli Usa contro la minaccia posta dall’Iraq ”. Si tratta, certo, di una colonna portante di quella che la propaganda bellica ha chiamato fino a ieri “guerra al terrorismo”, dove il terrorismo sono in modo del tutto indistinto tutti i nemici, ma anche di una guerra estrattivista per eccellenza. Sangue e petrolio, come titola Alexik sul sempre prezioso Ecor, Extractivism, Conflicts Resistances. Le centinaia di migliaia di persone morte, irachene e non, per “liberare” Baghdad sono state infatti sacrificate sull’altare della pretesa di controllo del Medio Oriente e della metà delle riserve mondiali di petrolio contenute nel suo sottosuolo. Per un obiettivo così ambizioso Bush è riuscito a convincere la popolazione degli Stati Uniti ad accettare che si spendessero almeno tremila miliardi di dollari (altrettanti ne hanno investiti Blair e il resto del mondo), cifre che facevano impallidire quelle impiegate in precedenza, nelle due guerre mondiali come in Vietnam e Corea, ma anche, per fare solo un esempio, i bilanci delle Nazioni Unite
Il 20 marzo di vent’anni fa ebbe inizio, sotto l’amministrazione di George W. Bush junior, l’invasione militare dell’Iraq da parte degli USA e dei suoi alleati di Regno Unito, Australia e Poloniai.
Scatenata col pretesto di (inesistenti) armi di distruzione di massa in mano a Saddam Husseinii e di presunte, e totalmente false, complicità del regime baathista con Al-Qaeda, la seconda Guerra del Golfo venne inaugurata da due giorni di (vere) distruzioni di massa sulle città irachene – 3000 bombe caddero sui 5,6 milioni di abitanti di Baghdad – per poi continuare con l’offensiva di terra.
L’invasione del 2003 era una delle varie fasi di una lunghissima storia di aggressioni subite continuativamente da quel paese, una storia iniziata 12 anni prima e le cui conseguenze permangono ancora adesso.
Nel 1991 la prima Guerra del Golfoiii aveva già lasciato in terra 100.000 morti iracheni facendo piovere la morte dal cielo, con i bombardamenti sulle città e con l’infamia dell’eccidio di migliaia di soldati iracheni in ritirata, bersagliati con il napalm e con le micidiali bombe FAE (Fuel Air Explosives).
All’epoca James Bakeriv– segretario di Stato di George Bush senior – aveva promesso di riportare l’Iraq all’età della pietra, distruggendo le centrali elettriche, le stazioni di pompaggio e depurazione dell’acqua, i ponti, i silos di cereali, i magazzini alimentari, 8.613 scuolev, e qualsiasi cosa assomigliasse ad una infrastruttura civile.
Il bombardamento dei siti industriali e dei complessi petrolchimici, l’avvelenamento di immense estensioni di suolo con l’uranio impoverito, lasciarono una pesante eredità tossica, che sarebbe ricaduta a lungo sui civili di un paese piegato per altri 12 anni da un pesantissimo embargo.
Nel 2000 si stimavano un milione e mezzo di civili iracheni – di cui centinaia di migliaia di bambini – morti di contaminazione ed embargo: leucemie, colera, malformazioni neonatali, denutrizione, mancanza di cure, di acqua potabile, di assistenza medica al partovi.
Morti che si aggiungevano a quelli dei bombardamenti quasi quotidiani che gli USA e i loro alleati continuavano a dispensare, anche in tempo di “pace”, su città, villaggi, campi coltivati, allevamenti di bestiame e infrastrutture pubbliche, imponendo una “no fly zone” che potevano violare solo loro, con più di 280.000 attacchi dal 1991 al 2001vii.
Citando Jean-Marie Benjaminviii: “durante la guerra del Golfo fino ad oggi [era il 2000] sono state riversate sull’intero paese oltre 135.000 tonnellate di bombe, tra cui più di 940.000 proiettili all’uranio impoverito: circa 700 tonnellate di uranio 238”. Materiali che rimarranno radioattivi per più di 4,5 miliardi di anni, e che presentano anche una tossicità indipendente dalla radioattività (l’uranio impoverito è teratogeno, citotossico, tossico per reni, pancreas, stomaco e intestino).
Gli “effetti collaterali”
Nel marzo 2003, l’offensiva di terra contro l’Iraq – che portò alla caduta e all’esecuzione di Saddam – e la successiva occupazione militare aggiunsero alla stima dei morti altre 100.000 persone nei primi 18 mesiix, un conteggio che salì a 655.000 nell’ottobre 2006.x
Fra queste, i resistenti e gli abitanti di Fallujah, massacrati in massa con le bombe al fosforo bianco, ma anche gli invitati e gli sposi di una festa di matrimonio a Mogr el-Deebxi, o i civili di Haditha, uccisi – donne e bambini compresi – per rappresaglia dopo la morte di un soldato USAxii (esattamente come facevano i nazisti, ma con una proporzione di 24 a 1).
Molti altri ne seguirono fino alla fine del 2011 (anno del ritiro della maggior parte delle truppe d’occupazione e della fine formale della seconda Guerra del Golfo) non solo per morte violenta ma anche per le contaminazioni da uranio impoverito, da metalli pesanti (torio, mercurio, piombo) prodotte dalle esplosioni ad altissima temperatura, da sostanze chimiche nocive rilasciate dagli incendi dovuti ai bombardamenti.
“Le statistiche ufficiali del governo iracheno mostrano che, prima dello scoppio della prima guerra del Golfo nel 1991, il tasso di casi di cancro in Iraq era di 40 su 100.000 persone. Nel 1995, era aumentato a 800 su 100.000 persone e, nel 2005, era raddoppiato ad almeno 1.600 su 100.000 persone”xiii.
Una ricerca basata sui dati del Ministero della Sanità dava in crescita dal 2000 al 2016 quasi tutti le forme di cancroxiv.
A Fallujah, una città pesantemente colpita da operazioni belliche, si riscontravano l’aumento della sterilità e infertilità, della mortalità infantile e del cancro infantile, la riduzione del rapporto fra i sessi dei nuovi nati, e terribili malformazioni congenite: bambini nati con due teste o con un occhio solo, tumori multipli, deformità facciali e corporee, displasia tanatoforica, complessi problemi del sistema nervoso. Una situazione descritta come “il più alto tasso di danno genetico in qualsiasi popolazione mai studiata“.xv
“Abbiamo tutti i tipi di difetti ora, che vanno dalle malattie cardiache congenite a gravi anomalie fisiche, entrambi in numeri che non puoi immaginare“.xvi
Una situazione simile si riscontrava a Bassora, città petrolifera del sud dell’Iraq, anch’essa intensamente bombardata dai britannici nei giorni di marzo 2003, e sottoposta oltretutto all’inquinamento provocato dal rogo dei pozzi petroliferi, incendiati dall’esercito iracheno nel tentativo di ridurre la visibilità e ostacolare i bombardamenti.
“Tra l’ottobre 1994 e l’ottobre 1995, il numero di difetti alla nascita per 1000 nati vivi nell’ospedale di maternità di Al Basrah era di 1,37. Nel 2003, il numero di difetti alla nascita nell’Al Basrah Maternity Hospital era di 23 su 1.000 nati vivi. In meno di un decennio, il verificarsi di difetti congeniti alla nascita è aumentato sorprendentemente di 17 volte nello stesso ospedale. Un resoconto annuale del verificarsi e tipi di difetti alla nascita, tra il 2003 e il 2011, in Al Basrah Maternity Hospital, è stato segnalato. Sono stati forniti anche livelli di metallo in capelli, unghie dei piedi e campioni di denti dei residenti di Al Basrah. La porzione di smalto del dente deciduo da un bambino con difetti alla nascita da Al Basrah (4,19 μg/ g) aveva un piombo quasi tre volte superiore rispetto ai denti interi dei bambini che vivono in aree non impattate. Il piombo era 1,4 volte più alto nello smalto dei denti dei genitori di bambini con difetti alla nascita (2.497 1.400 μg/g, SD media) rispetto ai genitori di bambini normali (1.826 1.819 μg/g)”.
Successivamente, sempre a Bassora, una ricerca effettuata nel 2016 sui bambini con difetti congeniti riscontrava altissimi livelli di piombo nei loro denti da lattexvii. Ancora nel 2016, vivere vicino ad una base militare americana in Iraq (Nassirya) comportava l’esposizione al torio e una maggiore probabilità di anomalie congenite fra i neonati.xviii
Pessime, nel paese, anche le conseguenze sanitarie della distruzione delle infrastrutture fognariee dell’acqua potabile, come dimostrano le statistiche sul colera.
Chi ci ha guadagnato?
Per quanto il termine non fosse in voga all’epoca (il concetto di imperialismo ci bastava), le guerre contro l’Iraq che hanno chiuso il vecchio millennio e aperto il nuovo sono state per eccellenza estrattiviste. Quelle centinaia di migliaia di morti, iracheni e non solo, furono gli agnelli sacrificali sull’altare del controllo del Medio Oriente, e del 50% delle riserve mondiali di petrolio nel suo sottosuolo.
La posta in gioco per gli USA era la riconquista di un’area strategica sottratta alla loro sfera di influenza dalla rivoluzione iraniana del ’79 e dal nazionalismo arabo, ma anche l’egemonia sul mondo, resa dal crollo dell’URSS priva di contraltari.
Fra gli obiettivi c’era sicuramente quello di disciplinare l’OPEC, tornando a stabilire il prezzo del petrolio, per eliminare la possibilità che un’altra “crisi del ‘73”xix mettesse a nudo la propria vulnerabilità di paese importatore.
E poi, rompere il monopolio statale del petrolio iracheno, mirando alle grandissime riserve sottoutilizzate.
Impedire o limitare, con gli stivali militari sul terreno, la disponibilità delle risorse strategiche per nemici e concorrenti.
Procurare prebende e contratti per le proprie multinazionali di riferimento, a cominciare dalla Halliburton, la seconda multinazionale al mondo per la costruzione di infrastrutture petrolifere, di cui il Segretario di Stato dell’amministrazione di George W.Bush – Dick Cheney – era stato amministratore delegato.
Obiettivi non precisamente raggiunti, o almeno non in misura tale da rendere “l’investimento” conveniente, tanto più che le previsioni iniziali dei costi della guerra si dimostrarono per l’aggressore decisamente sottostimate.
Nel 2008 lo studio condotto da Joseph E. Stiglitz e Linda J. Bilmesxx diede una misura dei costi della seconda guerra del Golfo, attestandosi “conservativamente” sui tremila miliardi di $ per gli Stati Uniti ed altrettanti per il resto del mondo.
Infinitamente di più di quelli previsti da George W. Bush all’inizio della guerra (quei 50-60 miliardi di dollari che le entrate derivanti dal petrolio avrebbero dovuto ripagare), e dalle cifre ratificate dal Congresso ($ 500 miliardi nel 2005), che non conteggiava miliardi di $ dispersi nei rivoli di una contabilità occulta, nelle enormi spese per i contractors, nelle assegnazioni degli appalti senza gara, nelle cure, assistenza e risarcimenti per migliaia di soldati feriti e mutilati. E non conteggiava nemmeno l’impatto sull’economia degli USA (e di tutti gli altri paesi importatori) del rialzo del prezzo del petrolio indotto dalla guerra.
Come commentava Aida Edemariam su The Guardian nel febbraio 2008:
“Il mese prossimo l’America avrà speso per cinque anni in Iraq più di quanto abbia speso in entrambe le guerre mondiali. Le operazioni militari quotidiane (senza contare, ad esempio, la futura cura dei feriti) sono già costate più di 12 anni in Vietnam e il doppio della guerra di Corea. L’America sta spendendo 16 miliardi di dollari al mese solo per i costi di gestione (cioè in aggiunta alle spese regolari del Dipartimento della Difesa) in Iraq e Afghanistan; si tratta dell’intero bilancio annuale delle Nazioni Unite. Grandi quantità di denaro scompaiono – il Fondo di sviluppo da 8,8 miliardi di dollari per l’Iraq sotto l’Autorità provvisoria della coalizione, per esempio; e i milioni meno pubblicizzati che cadono tra le crepe del Dipartimento della Difesa, che non ha superato l’esame di nessun audit ufficiale degli ultimi 10 anni”xxi.
Nel breve termine, se l’obbiettivo era riacquistare il controllo dei prezzi del petrolio – di cui all’epoca gli USA erano forti importatori – il crollo della produzione irachena produsse l’effetto esattamente contrario.
“Quali che siano state le motivazioni per giustificare il bombardamento di Baghdad, il risultato non è stato certamente il petrolio a basso costo. Di fatto negli ultimi cinque anni [2003/2008] il prezzo del petrolio è balzato da 25 a 100 dollari al barile: risultato eccellente per le imprese petrolifere e per i paesi produttori di petrolio i quali sono, insieme ai contractors, i soli beneficiari di questa guerra, ma solo per loro.
Un calcolo effettuato sulla base dei futures spinge Stiglitz e Bilmes a ritenere che una parte consistente di tale balzo sia direttamente conseguente dalle distruzioni e dalle instabilità causate dalla guerra in Iraq. La sola ascesa del prezzo del petrolio è costata agli Stati Uniti, che importano circa 5 miliardi di barili l’anno, una spesa extra annuale di 25 miliardi di dollari; con una proiezione al 2015 abbiamo un extra di solo petrolio pari a 1.600 miliardi di dollari nel periodo”xxii.
Gli USA avrebbero risolto la contraddizione solo durante il mandato di Barack Obama, quando la produzione interna di petrolio di scisto passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno, e forse non è un caso il fatto che il ritiro del grosso delle truppe dall’Iraq avvenne proprio in quel periodo.
Quanto alle prospettive di controllo del Medio Oriente, un risultato delle guerre irachene fu quello di ampliare il numero delle basi militari USA nell’area, ora presenti in Kuwait, Iraq, Gibuti, Oman, Bahrain, Giordania, Quatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, in aggiunta alle presenze storiche in Egitto, Israele e Turchiaxxiii.
Ma in Iraq, gli Stati Uniti consegnarono agli sciiti le chiavi del governo (ad esclusione del kurdistan iracheno) determinando automaticamente il suo passaggio nella sfera di influenza iraniana. Un bel risultato, per chi considera il paese degli ayatollah uno dei suoi peggiori nemici!
E’ vero che non si ritirarono mai del tutto, rinforzando la presenza militare in occasione dell’Operation Inherent Resolve contro il Daesh, e intervenendo dalla loro base di Al Asad nel tentativo di arginare l’influenza iraniana, con l’assassinio via drone del generale iraniano Qasem Soleimani.
Ma non è detto che col terrorismo possano assicurarsi il controllo del paese, o innalzare il loro indice di gradimento.
Un obiettivo parzialmente raggiunto fu la distribuzione di prebende per le multinazionali e imprese statunitensi, sicuramente per l’Halliburton, che al 2008 si era aggiudicata in Iraq contratti senza gara per 19,3 miliardi di $, e per gli affidatari dei lavori di ricostruzione, che secondo la legge sugli appalti degli Stati Uniti, andarono a costose aziende americane piuttosto che a quelle irachenexxiv.
Le compagnie petrolifere nordamericane, invece, dovettero probabilmente ridimensionare le aspettative iniziali sulle possibilità di saccheggio delle risorse irachene di idrocarburi.
“Per quanto riguarda il ritorno delle major occidentali, il governo iracheno ha impiegato fino al 2007 per redigere una legge sugli idrocarburi che stabilisse un quadro giuridico per gli investimenti stranieri, e poi non è riuscito a far approvare la legislazione al parlamento iracheno. Quando, nel 2010, ha finalmente assegnato i contratti, ha dato accesso alle imprese non occidentali al pari delle grandi compagnie...
In un’assurdità quasi perfetta, considerando gli scopi della guerra in Iraq, la maggior parte delle compagnie petrolifere occidentali hanno, negli ultimi anni, abbandonato o ridotto le loro operazioni, mentre il Ministero del Petrolio iraniano ha istituito un ufficio nel centro di Baghdad e le imprese cinesi sono in ascesa”xxv.
(1. Continua)
Note:
i Per quanto l’invasione fosse stata condotta dalle forze armate di USA, Regno Unito, Australia e Polonia (più un piccolo contingente ceco che non prese parte alle operazioni offensive), la coalizione (“Multi-National Force – Iraq” o “Coalizione dei volenterosi”) era formalmente composta da 48 paesi: Afghanistan, Albania, Angola, Australia, Azerbaigian, Bulgaria, Colombia, Corea del Sud, Rep. Ceca, Danimarca, Rep. Dominicana, El Salvador Eritrea, Estonia, Etiopia, Georgia, Regno Unito, Honduras, Ungheria, Islanda, Italia, Giappone, Kuwait, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Isole Marshall, Micronesia Mongolia, Nicaragua, Paesi Bassi, Palau, Panama, Filippine, Polonia, Portogallo, Romania, Ruanda, Singapore, Slovacchia, Isole Salomone, Spagna, Stati Uniti, Tonga, Turchia, Uganda, Ucraina, Uzbekistan.
iiAnna Lombardi, Iraq 20 anni dopo: la “Grande Bugia” di Colin Powell che diede il via alla guerra, La Repubblica, 20 marzo 2023. Accadde oggi: l’autocritica del New York Times sulle armi di distruzione di massa, Iniziativa Laica, 26 maggio 2022, con links ai servizi di Michael Moore. John Chilcot, The Iraq Inquire, 13 luglio 2012 (indice).
iii Sulla prima Guerra del Golfo si consiglia di leggere: Valerio Evangelisti, Lo scudo di Perseo. La guerra di “media intensità” del Golfo Persico: un paradigma per gli anni Novanta, Progetto Memoria, anno 4, n. 9, primavera 1991, pp.10/35.
iv Rahab S Hawa, Iraq: The Undeclared War, Third World Network Berhad, 22 febbraio 2001.
v Padre Jean-Marie Benjamin, lettera al Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, 13 settembre 2000. Padre Jean-Marie Benjamin era all’epoca assistente del Segretario di Stato Vaticano per le missioni all’estero.
vi Padre Jean-Marie Benjamin, op. cit.
Richard Garfield, Morbidity and Mortality among Iraqi Children from 1990 through 1998: Assessing the Impact of the Gulf War and Economic Sanctions, marzo 1999, pp. 89.
UNICEF Emergency Programmes: Iraq Donor, 8 Aug 2000. Iraq: Unicef, la guerra colpirebbe solo i bambini, Vita, 17 settembre 2002.
Camera dei deputati, mozione a firma di Violante, Castagnetti, Boato, Rizzo, Intini, Pisicchio, Pecoraro Scanio, Turco, Giovanni Bianchi, Sereni, Folena, Spini, 26/03/2003.
vii Rahab S Hawa, Iraq: The Undeclared War, Third World Network Berhad, 22 febbraio 2001.
viii Padre Jean-Marie Benjamin, op. cit.
ix Les Roberts, Riyadh Lafta, Richard Garfield, Jamal Khudhairi, Gilbert Burnham, Mortality before and after the 2003 invasion of Iraq: cluster sample survey, The Lancet, 29 ottobre 2004. Lo studio di coorte ha selezionato 33 serie di 30 famiglie confrontando il numero e le cause di morte prima e dopo l’invasione. “Due terzi di tutti i morti violenti sono stati segnalati in un cluster nella città di Falluja. stimiamo che 98 000 morti in più del previsto (8000-194 000) siano accadute dopo l’invasione al di fuori di Falluja e molte di più se il
includiamo il cluster di Falluja. Le principali cause di morte prima dell’invasione erano infarto miocardico, incidenti cerebrovascolari, e altri disturbi cronici, mentre dopo invasione la violenza è stata la causa principale di morte. Le morti violente erano diffuse, riportate in 15 dei 33 gruppi, e sono state principalmente attribuite alle forze della coalizione. La maggior parte delle persone uccise dalle forze della coalizione erano donne e bambini. Il rischio di morte per violenza nel periodo dopo l’invasione era 58 volte più alto (95% CI 8 1-419) che nel periodo prima della guerra. Facendo ipotesi conservative, pensiamo che circa 100 000 morti in eccesso, o più sono avvenuti dal 2003 l’invasione dell’Iraq. La violenza ha rappresentato la maggior parte delle morti in eccesso e gli attacchi aerei da parte delle forze della coalizione hanno causato le morti più violente”.
x Sarah Boseley, ‘655,000 Iraqis killed since invasion’, The Guardian, 11 ottobre 2006.
Angelo Stefanini, I terribili costi dell’invasione dell’Iraq, 2003-2018. Per non dimenticare, Salute Internazionale, 21 marzo 2018.
xi L’eccidio si svolse il il 19 maggio 2004, con 45 morti fra cui molte donne e bambini. Scheherezade Faramarzi, Iraqi survivors recount attack, Ocala StarBanner, 21/05/2004
xii Strage di Haditha, Wikipedia.
xiii Dahr Jamail, Iraq: War’s legacy of cancer, Al Jazeera, 15 marzo 2013.
xiv Ashraf MA. Hussain, Riyadh K. Lafta, Cancer Trends in Iraq 2000–2016, Oman Medical Journal n. 36 (1), gennaio 2021.
xv Chris Busby, Malak Hamdan, Entesar Ariabi, Cancer, Infant Mortality and Birth Sex-Ratio in Fallujah, Iraq 2005–2009, International Journal of Environmental Research and Public Health, 2010, 7(7), 2828-2837.
xvi Dichiarazione della dottoressa Samira Alani, specialista pediatrica presso il Fallujah General Hospital. In: Dahr Jamail, Iraq: War’s legacy of cancer, Al Jazeera, 15 marzo 2013.
Samira Telfah Alaani, Mohannad A.R. Al-Fallouji, Christopher Busby, Malak Hamdan, Pilot study of congenital anomaly rates at birth in Fallujah, Iraq, 2010, Journal of the Islamic Medical Association of North America, Vol 44 No 1 (2012).
xvii M. Savabieasfahani, S. Sadik, R. Bacho, O. Savabi, M. Alsabbak, Prenatal metal exposure in the Middle East: imprint of war in deciduous teeth of children, Environmental Monitoring and Assessment, Sep;188(9):505.
xviii M Savabieasfahani, F Basher Ahamadani, A Mahdavi Damghani, Living near an active U.S. military base in Iraq is associated with significantly higher hair thorium and increased likelihood of congenital anomalies in infants and children, Environmental Pollution, 2020 Jan;256:113070.
xix Durante la guerra del Kippur, i produttori di petroli medio orientali raddoppiarono il prezzo di vendita del petrolio a livello mondiale e diminuirono del 25% le esportazioni, in aperto contrasto alla NATO e agli Stati Uniti, storici alleati di Israele. Gli altri paesi arabi appartenenti all’OPEC appoggiarono la causa e bloccarono le proprie esportazioni di petrolio verso Stati Uniti fino al gennaio 1975.
xx Joseph E. Stiglitz, Linda J. Bilmes, La guerra da 3000 miliardi di dollari, Einaudi, 2009.
Recensione di Bruce Patsner: The Three Trillion Dollar War: The True Cost of the Iraq Conflict.
xxi Aida Edemariam, The true cost of war, The Guardian, 28/02/2008.
xxii Ibidem.
xxiii Matthew Wallin, U.S. Military Bases and Facilities in the Middle East, June 2018.
xxiv Aida Edemariam, The true cost of war, The Guardian, 28/02/2008.
xxv Helen Thompson, Black gold fuelled the Iraq War, Unherd, 13 marzo 2023.
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