IN COLOMBIA SULLE TRACCE DI GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ
di Matteo Nucci pubblicato lunedì, 27 Marzo 2023 ·
MEDELLÍN. Fra tutte le città, le cittadine, le strade che calca l’appassionato lettore del genio letterario di Gabriel García Márquez, in cerca dei luoghi raccontati e delle atmosfere sognate, una sola racchiude in se stessa ogni cosa. Si chiama Santa Cruz de Mompox, più semplicemente Mompós, e venne fondata sulla riva sinistra del Río Magdalena attorno al 1540, visse tre secoli di splendore, scalo obbligato sul fiume, finché un altro braccio del Magdalena consentì una migliore navigabilità spingendo la città in una specie di oblio. Lontana da tutto, Mompós ha così mantenuto un aspetto coloniale fermo nel tempo, che ha spinto molti a immaginare qui il vero nucleo di Macondo, più che nell’Aracataca dove Gabo crebbe ascoltando i famosi racconti della nonna. “Mompós non esiste. A volte la sogniamo, ma non esiste” scrisse Márquez. E questo pensa il viaggiatore quando, dopo le sette ore di pullman per percorrere i duecentocinquanta chilometri da Cartagena, s’immerge nelle sue vie polverose, sotto un sole impossibile, fra ananas che scintillano sulle rive del fiume, aironi bianco paradiso che sbattono ali immense, iguane appollaiate su alberi rachitici, possenti esemplari di ceiba che aprono ombrelli d’ombra fresca e quel rettile chiamato basilisco piumato, per natura dotato della spirituale capacità di camminare sulle acque.
Tutto improvvisamente cambia a Mompós. Il fiume scorre, le pale dei ventilatori dentro le case coloniali girano in cerchio, la luce rimbalza nei patii verdi, donne e uomini oscillano su sedie a dondolo e il tempo si fa circolo continuo e lo spazio non è più quello a cui siamo abituati: si percorre la strada che porta al cimitero come fosse un lungo viaggio e fra tombe scoperchiate una colonia di gatti si aggira, le iguane tirano scudisciate ai visitatori, i gatti si ritirano in chiesa e lì si addormentano. Tutto allora appare vicino e lontano, tutto presente e eterno, mentre gli artigiani momposini lavorano da sempre le loro filigrane d’oro come i famosi pesciolini, tanto che l’illuminazione è repentina: il realismo magico è un’invenzione della critica letteraria. La magia definisce i libri di Márquez per chi la Colombia non la conosce. Ma in Colombia la realtà è un’altra cosa.
La realtà, oggi, per esempio, è il primo Presidente della Repubblica di sinistra nella storia del Paese. Ma vista da Mompós, questa realtà ha esattamente l’aria delle storie romanzesche. Gustavo Petro, 62 anni, ex guerrigliero del M-19, nome di battaglia durante la clandestinità Aureliano in onore del Gabo più noto, integerrima onestà e sorriso largo sul “cambio” che è stato la sua parola d’ordine. Promesse che infiammano gli animi e che già spingono a delusioni cocenti dopo solo sette mesi di mandato. Su un’automobile sgangherata che mi accompagnava da Mompós a un villaggio dove si preparava il Carnevale, ho ascoltato in un’ora ogni tipo di critica e difesa.
Poi, mentre si discuteva della pace totale che Petro ha promesso in un Paese abituato a una specie di guerra civile permanente, un posto di blocco carnevalesco, tanto magico quanto reale, ha bloccato la macchina, i ragazzi agguerriti, mascherati da soldati fantascientifici, hanno chiesto soldi e se non avessimo messo insieme un po’ di spiccioli facendo ciascuno la propria parte non saremmo ripartiti mai più. “La guerra non finirà mai” ho detto io e tutti si sono messi a ridere lanciandomi pacche sulle spalle. Oggi, d’altronde, dopo la pace conclusa con le Farc nel 2016, la fine completa delle ostilità continua a essere un miraggio. “Esiste qualcosa chiamato cocaina, in questo Paese” ripetono un po’ tutti quelli che Petro lo considerano un venditore di fumo se non un demagogo purissimo o un populista da strapazzo. Perché il Paese è diviso a metà. Fra chi dice che Petro porterà la Colombia sulle orme del Venezuela di Maduro e chi dice invece che cambierà davvero e che bisogna aspettare prima di giudicare, facile prendersela, è il primo di sinistra, ovvio che a destra lo condannino a prescindere. In mezzo invece sta la parola degli intellettuali. Di chi lavora con l’arte, con il teatro, con emozioni che devono scavare un solco. E che sembra conoscere bene la follia inestricabile dalla realtà colombiana.
“La pace è un processo lungo, ma il percorso su cui si è avviato il Paese è pieno di speranza” mi hanno raccontato, a Minca, Nube Sandoval e Bernardo Rey, autori di un teatro civile di cui in Colombia c’è bisogno come del pane quotidiano. Minca è sulla Sierra Nevada, a un’ora da Santa Marta dove Gabo visse e ambientò pagine geniali. Qui la figlia di Nube e Bernardo nacque fra sparatorie, guerriglieri e paramilitari, case spazzate via e gente sfollata. Ora è una località assediata principalmente da backpackers in cerca di avventura e libertà. Il teatro in cui mi accolgono lo hanno costruito loro. Si chiama Teatro Cenit: è soprattutto un luogo di lavoro, dove lo scorso anno è nato Develaciones, uno spettacolo di musica, danza, videoarte che ha avuto un successo travolgente. Voluto dalla Commissione della Verità che cerca di chiudere un’epoca di orrore spingendo a non dimenticare e non ripetere, il lavoro ha chiamato sul palco i diretti protagonisti delle principali tragedie colombiane, come le madri dei cosiddetti “falsi positivi”, quei ragazzi strappati all’estrema povertà con promesse di lavoro e uccisi dai paramilitari per poi venderne i corpi mascherati da guerriglieri all’esercito in cerca di prove del suo lavoro contro il nemico.
“Una tragedia che supera di gran lunga quella della Madri di Plaza de Mayo. Senonaltro numericamente” spiega Bernardo Rey “I casi ufficiali sono quasi 6000 ma quelli ufficiosi superano i 30.000. Vedere sul palco alcune madri che portavano in scena la loro tragedia brandendo pezzi di vestiti o scarpe appartenuti ai figli mi ha fatto vivere per la seconda volta in vita mia la vera catarsi”.
Purificarsi è la parola d’ordine. Ma come è possibile quando le vittime e le tragedie sono state così numerose che è quasi impossibile fornire cifre? Bisogna entrare almeno una volta nella Casa della Memoria di Medellín per rendersi conto delle proporzioni inumane della tragedia. Siamo lontani da Mompós. Ma anche in questa città che fu regno dei narcos più famosi e oggi è stata trasformata da sindaci illuminati, si respira quel senso di realtà a cui non siamo affatto abituati se non dalla letteratura. Il racconto sconvolgente delle tragedie in questo museo gratuito spinge i visitatori spesso alle lacrime. Marcela Calderón mi aspetta fuori. Artista, trentaduenne, ha esposto a Roma la sua opera nella galleria Mattia de Luca all’interno dell’esposizione “La fortuna della fragilità”. Le tre opere principali sono tele costituite da innumerevoli pezzi di quella sottile membrana che si forma nelle uova sode fra l’albume e la coccia.
“Quando ero bambina mi accorsi che bagnandoli, i pezzi di membrana si univano indissolubilmente. È come se la memoria della materia possa riunire parti strappate, lacerate, divise. Ho pensato a questo, mentre ero in Italia e nel mio Paese la Commissione della Verità lavorava perché criminali e vittime potessero trovare un modo di parlarsi. Sai, è stato calcolato che se dovessimo dedicare un minuto di silenzio per ogni vittima del conflitto dovremmo tacere per più di diciassette anni. Forse dobbiamo vivere. Trovare il modo di svegliare la memoria della nostra natura, trovare la via per riconciliarci”. Marcela non crede nella pace totale di cui si parla, non crede nella facilità che alcuni sbandierano, ma crede nella forza della dedizione. “Ottimista? Pessimista? Non lo so. Quando sono arrivata in Italia, per la prima volta ho vissuto la sensazione di poter uscire di casa senza provare paura. Riconoscere la paura è fondamentale nel processo di superamento. Qualcosa che dobbiamo fare tutti”.
Ma allora la pace totale di Petro dove va a finire in queste contraddizioni continue che neanche un romanziere saprebbe raccontare? A mezzora da Santa Marta, sui mar dei Caraibi, c’è Ciénaga. Noi amanti di Gabo ci passiamo a contemplare i luoghi dove l’esercito sparò ai bananeros, la scena famosa di Cent’anni di solitudine in cui José Arcadio Secondo risponde al colonnello che ha offerto un minuto agli scioperanti prima di sparare: “Stronzi, vi regaliamo il minuto che manca”, una frase vera, lì pronunciata, che – come ci racconta nel suo libro In Colombia con Gabriel García Márquez Alberto Bile Spadaccini – Gabo si premurò di far controllare sul campo a suo fratello, visto che lui era lontano. Tutti noi infatti ricordiamo anche che lo scrittore dalla Colombia se ne andò. Molti sono stati costretti a farlo. Uno di loro è un sublime scrittore che vive qui, a Medellín, dopo molti anni trascorsi in Italia dove si è laureato e dove è stato costretto a tornare nel 1987 quando suo padre, professore di medicina in lotta per i diritti umani, venne assassinato. Si chiama Héctor Abad Faciolince. È autore di un capolavoro introvabile che non si capisce perché Einaudi non ristampi: L’oblio che saremo. Mi accoglie a casa sua con un sorriso e un’ospitalità che fanno venire i brividi. Fa domande, chiede di me, dell’Italia. È gentile e curioso come solo i più grandi. Mi offre un pranzo meraviglioso, indicandomi lontano i tetti della sua città. Ma non si sottrae alle mie, di domande. E ha le idee chiare. “Petro dice cose giuste, giustissime. Ma una cosa è dire cose giuste, una cosa è realizzarle, ossia renderle realtà”.
Eccoci qua. Si torna sempre allo stesso punto. “Petro dà ordini magnifici, poi grida di dolore se questi ordini non si sono realizzati. Ho detto che non si doveva più morire di fame. Certo, lo hai detto. Ma chissà perché, non bastava dirlo. Io non mi fido di Petro”. E la pace? La conciliazione? “Io non sono un sostenitore della galera e della punizione. Se l’assassino di mio padre esce dal carcere non ho nessun problema. Ma che ne esca con un titolo roboante, di grande risonanza, come “mediatore di pace”, be’, allora provo rabbia. Rabbia e tristezza”. Mentre lascio il palazzo di Abad e mi immergo di nuovo fra le case senza intonaco di questa bella città, penso ancora a lui, a Gabo, e faccio andare avanti le parole che pronunciò durante la cerimonia di accettazione del Nobel. È una musica sublime. Suona così: “Davanti all’oppressione, al saccheggio e all’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né i diluvi né le pestilenze, né le carestie né i cataclismi, e neppure le guerre eterne attraverso i secoli dei secoli sono riusciti a ridurre il vantaggio tenace della vita sopra la morte”.
Pubblichiamo un articolo uscito sul Venerdì, che ringraziamo.
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