Si erge solenne
la montagna della mia poesia
che al suo centro si apre
come un enorme ventaglio[…]
Giacomo Giardina, Rocca Busambra, 1931
Rocca Busambra è stata la principale musa ispiratrice di Giacomo Giardina (Godrano, 1901- Bagheria, 1994). Lo prova, tra l’altro, l’epigrafe del suo primo libro, pubblicato dell’Editore Vallecchi di Firenze nel 1931, dove, a parte le dediche al Duce e a F.T. Marinetti, le parole più sentite sono rivolte: “Alla montagna natia, seminata di pecore, che mi ha reso poeta”
La Rocca, con una metafora che si ritrova anche nelle sue ultime composizioni, viene rappresentata come un enorme “ventaglio”. Essa gli appare ora “rameggiata di cerri scuri” e “verniciata di sole” (Cfr. Quand’ero pecoraio, pag.15), ora come una“grandiosa tavolozza dei colori del mondo”(Ibid. pag.152). La montagna, insieme al bosco che le fa corona, è il cuore e la linfa vitale della sua poesia, a tal punto da fargli dire, come se si rivolgesse alla propria amante: “lontano da te non posso vivere”.
Tutto questo Renato Guttuso l’aveva colto immediatamente. Anche per questo in tutti i ritratti che gli ha dedicato si trova Rocca Busambra. Tra la ricca corrispondenza di Giacomino con letterati ed artisti coevi, che sarebbe opportuno recuperare e pubblicare, spicca quella intrattenuta con il pittore bagherese. Particolarmente significativa la lettera scritta da quest’ultimo all’amico, il 22 giugno 1972, dove si afferma:
Cosa è cambiato da allora? Molto dall’esterno, ma ‘di dentro’ poco o nulla. Battiamo sempre lo stesso chiodo, quello che ci siamo portati addosso dalla nascita, forse con più esperienza e sapienza, forse con meno freschezza. Ma in fondo anche con freschezza perchè il nostro amore della verità e della realtà è un amore che non può finire. (sottolineatura mia)
Caro Giacomo, fin dall’ormai lontana adolescenza ho imparato ad amare la tua poesia, la fresca indipendenza della tua immaginazione, il tuo sentimento della natura e della gente umile. Ricordo brani bellissimi di un tuo romanzo che meriterebbe di vedere la luce. A te, al tuo lavoro, è legato uno dei miei primi dipinti ( del ’28, mi pare) che ti raffigurava davanti alla tua Rocca Busambra, circondato dalle pecorelle. Dove sia quel quadro non si sa, ma ho fiducia che prima o poi salterà fuori.
La lettera si chiude con uno schizzo, quì accanto riproposto, in cui si abbozza l’antico ritratto. Il documento è importante anche per il riferimento ad un “romanzo” inedito del poeta di cui si sono perse le tracce.
La prima scoperta del poeta pecoraio si deve, come è noto, a Filippo Tommaso Marinetti. E’ stato proprio il padre del futurismo italiano a presentarlo alla I Mostra Siciliana del Sindacato Fascista di Belle Arti che si tenne a Palermo il 3 aprile 1928. Certamente, se Marinetti non avesse intravisto nei versi di Giardina una singolare incarnazione del suo credo poetico, Giacomino, come lo chiamavano i suoi compaesani, sarebbe rimasto un venditore ambulante e uno dei tanti poeti contadini ignorati e dimenticati. Anche se la critica ha successivamente considerato riduttiva e forzata l’interpretazione del Marinetti, Giardina deve comunque gran parte della sua libertà espressiva e del suo spirito antiaccademico al movimento futurista. D’altra parte il futurismo, nel suo versante artistico, al di là della deriva fascista italiana, nel resto del mondo ebbe sviluppi ed un seguito progressista. Non a caso Trockij e Majakovskij seguirono con simpatia il movimento futurista. Per non parlare di quanto scrisse il giovane Gramsci su questo stesso movimento.
Un altro grande estimatore dell’opera poetica del Giardina è stato Francesco Carbone. Si deve a quest’ultimo la prima sottolineatura del posto privilegiato che occupa la natura nella vita e nell’opera del godranese:
la natura è nozione primaria di una forza originaria che genera, è l’idea stessa di nascita, origine, generazione, struttura persistenza, è legge che regola i fenomeni, include la riflessione su tutto ciò che ha o cui si attribuisce una nascita, un destino, un ciclo vitale e una morte. Giardina percorre così il tempo in una sorta di andata e ritorno caratterizzati da durate e tensioni capaci di incessanti ricambi, di sorprendenti rigenerazioni (…)
D’altra parte il poeta pecoraio ha sperimentato sulla propria pelle i cicli vitali della natura, provando anche la morte in vita. Il poeta, infatti, ha vissuto come una forma di morte l’afasia e l’arresto del proprio spirito creativo. C’è voluto un maieuta come Francesco Carbone per risvegliarlo da un lungo letargo. Cosìcché si deve, in gran parte, al fondatore di Godranopoli la seconda fioritura della poesia di Giacomo Giardina, i cui frutti migliori si ritrovano oggi nel volume prima citato, nell’antologia Dante ambulante al mio paese ( ila palma, Palermo 1982) e nella raccolta di scritti inediti e varianti (1928-1980), intitolata La corona di latta, curata da Aldo Gerbino (IPSA Editore, Palermo 1995). Carbone ha saputo cogliere un aspetto del Giardina, ignorato da tanti critici:
il lavoro di Giardina contiene, (…), forti cariche di sobillazione, una ironia sottile e provocatoria, le quali si incaricano di sommuovere dalla base le lunghe fissità dei contesti agro-pastorali in cui la sua poesia è nata ed è cresciuta; di scuotere i precedenti ristagni e gli attuali ibridi conformismi della cultura contadina, i cui valori e la cui memoria sono sempre state le ragioni portanti della scrittura di Giardina(…).
Non può sorprendere, pertanto, che Ciccino se lo sia trovato accanto, negli anni settanta, nel suo generoso tentativo di animazione socio-culturale della comunità godranese.
Francesco Virga
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