30 marzo 2023

DIALOGO SU PACIFISMO E NON VIOLENZA


Dialogo su pacifismo e non-violenza

[Questo articolo è apparso sul n° 334 di marzo/aprile de “l’immaginazione” ed è dedicato al libro di Filippo La Porta e Luca Cirese, Perché non possiamo non dirci non violenti. Dialoghetto su un tema cruciale del nostro agire pubblico, Castelvecchi, Roma, 2021].

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Di Andrea Inglese

L’invasione russa dell’Ucraina ci ha di colpo ricordato che l’imperialismo travestito da guerra umanitaria non è una prerogativa degli Stati Uniti e dei governi occidentali suoi alleati. Questo fatto non ha creato grandi sorprese nella lettura della guerra che hanno dato i principali organi d’informazione europei (filoatlantisti), ma ha sollevato, soprattutto in Italia, un dilemma nella sinistra. Di questo dilemma, un libro uscito nel settembre 2021, ossia cinque mesi prima dell’invasione russa – ha costituito una profetica espressione. Mi riferisco a Non possiamo non dirci non violenti. Dialoghetto intergenerazionale su un tema cruciale del nostro agire pubblico, che raccoglie le voci di Filippo La Porta (classe 1952), critico e saggista, e quelle di Luca Cirese (classe 1988), giornalista e militante nonviolento.

Il titolo è per certi versi ingannevole soprattutto per il suo carattere assertivo e non d’interrogazione diretta, in quanto, nei fatti, lo scambio tra i due autori si svolge intorno all’esistenza o meno di clausole limitative dell’atteggiamento nonviolento in un’ottica pacifista e di condanna della guerra nelle sue varie forme. In estrema sintesi, il pacifismo è necessariamente sempre nonviolento? Posta in questi termini – che sono quelli che interessano La Porta e Cirese nel corso del loro dialogo –, si capisce bene come una tale questione sia emersa proprio all’interno della sinistra e del campo pacifista all’inizio di questa guerra. Ricorderò solo, a questo proposito, uno scambio avvenuto tra Adriano Sofri e Lea Melandri, intorno all’attitudine da prendere nei confronti della resistenza ucraina. Anche qui si è trattato di un dialogo (uno scambio epistolare pubblico) dove si poneva, in forma di dilemma morale, la questione delle clausole limitative nei riguardi di una presa di posizione radicalmente nonviolenta.

Il vero pregio del libro di La Porta e Cirese è illustrato, in realtà, nel suo sottotitolo: si parla di “dialogo”, e non di dibattito, e si parla di “tema cruciale del nostro agire pubblico”, ossia dell’impegno nei confronti della pace che non può non essere collettivo e riguardare tutti. I dialoghi veri si sono fatti assai rari, perché sul piano mediatico (sia mass-media tradizionali sia social) trionfa il dibattito, ossia il trattamento di un tema attraverso la giustapposizione di posizioni, che si presentano come merci nel mercato dell’opinione, tra cui il telespettatore e l’utilizzatore dei social debbono “liberamente” scegliere. Il dibattito, insomma, si basa sulla logica della comunicazione pubblicitaria: testimonial di diversi prodotti si affrontano per la conquista dei consumatori, posti come pubblico “esterno” alla scena. Il dialogo funziona su tutt’altre premesse ideologiche, come La Porta e Cirese ci insegnano. Innanzitutto, il dialogo – come il saggio, per altri versi – coinvolge non un portatore di opinioni, il veicolo di un’idea, ma una persona e la sua storia. Il suo terreno è quello esistenziale, non quello dell’astratta comunicazione di messaggi. Il tempo del dialogo è quello mutevole e evolutivo dell’esperienza, non quello della performance comunicativa (“chi è stato più convincente, in studio, stasera?”). Il dialogo, infine, nasce sempre da un interrogativo, ossia da un dubbio o un’indeterminatezza parziale o, in ogni caso, da un desiderio di confrontarsi con l’altro, e quindi di ascoltarlo nelle sue ragioni. Già per questo motivo, il breve “dialoghetto intergenerazionale” (una settantina di pagine) è ampiamente raccomandabile. A questa virtù, si aggiunge poi quella – anche qui saggistica – della digressione. E La Porta, in questo, eccelle, evocando Aldo De Capitini, Simone Weil, Guido Viale, John Belushi, Dante, Taika Waititi, regista di Jojo Rabbit, ma anche il Vietnam, la Resistenza, la guerra civile spagnola. Questa mobilità di sguardo, adottata con naturalezza anche da Cirese, blocca qualsiasi tentativo di argomentazione lineare, per costringerci a sottoporre senza sosta i nostri principi a controesempi o a situazioni ambigue, paradossali. Nonostante l’andamento sinuoso, il dialogo non sfocia in una sospensione del giudizio, ma ribadisce il dilemma di partenza, avendolo però arricchito di pensiero ed esempi storici, fornendogli insomma più spessore, ma anche, inevitabilmente, meno nettezza. E sono due esperienze che si confrontano, non due principi o due “opinioni politiche”: quello di una non-violenza intransigente e utopica, difesa da Cirese, e quella di un pacifismo che cerca di affermarsi, senza ignorare l’impossibilità di un’eliminazione totale dell’aggressività umana come costante socio-biologica o i contesti eccezionali che legittimano forme di violenza difensive, nel caso di La Porta. Entrambi gli autori, però, riconoscono che vi è un lavoro interminabile da fare su di sé, individualmente e collettivamente, per respingere innanzitutto ogni cultura più o meno compiacente con la violenza, affinché la guerra stessa diventi un tabù, anche quando è fatta al di fuori delle nostre frontiere e per ragioni che si pretendono “umanitarie”.



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