L’eredità di Sebastiano Timpanaro
Massimo Raffaeli
In vista del centenario della nascita, una monografia rende omaggio a uno dei grandi filologi del XX secolo. Guardava a Leopardi per interrogare ciò che nella condizione umana – fragilità, malattia, dolore – rende impossibile la felicità che lui affiancava al marxismo
Presentando una sua raccolta di studi, Sebastiano Timpanaro (Parma 1923 – Firenze 2000)
disse che quelli erano gli scritti minori di un filologo che non aveva al suo attivo scritti
maggiori. Un simile understatement riflette la profonda umiltà di uno dei più grandi filologi
classici del secolo ventesimo, rubricabile tra le figure eminenti della cultura
contemporanea, «una delle menti più luminose e originali» scrisse Perry Anderson. Figlio di
un fisico (Sebastiano senior, colui che bollò Croce quale «analfabeta della scienza») e di
Maria Cardini, grecista di valore, Timpanaro è stato una figura di grande complessità
intellettuale in cui convivevano e si integravano interessi e attitudini d’ordine non solo
filologico-letterario ma anche, e costantemente, teorico-politico.
UNA FISIONOMIA di uomo schivo, la sua, sofferente sia per un impedimento a parlare in
pubblico sia per una grave agorafobia, cui aggiungeva ulteriore particolarità – nel suo caso
sinonimo di altrettanta dignità – il fatto di non essere mai salito su una cattedra
universitaria e di avere insegnato fra il dopoguerra e il ’59 nelle scuole di avviamento
professionale prima di impiegarsi, lui che era stato tra gli allievi prediletti di Giorgio
Pasquali, nella casa editrice La Nuova Italia di Firenze come redattore addetto alla
correzione delle bozze dei testi greci e latini.
Ora, in vista del centenario della nascita, da una piccola e benemerita collana pistoiese
esce la monografia che gli dedica Luca Bufarale, Sebastiano Timpanaro. L’inquietudine
della ricerca (Prefazione di Mario Bencivenni, Postfazione di Romano Luperini, Centro di
documentazione Pistoia Editrice, «I Quaderni dell’Italia antimoderata, pp. 112, euro 10), un
profilo nitido, equilibrato nei giudizi e diviso in quattro capitoli di struttura concentrica.
A partire ovviamente dalla formazione di Timpanaro che mai volle seguire il consiglio dei
maestri all’Università di Firenze (perché Pasquali voleva editasse l’arcaico Ennio,
argomento della sua tesi di laurea, mentre Eduard Fraenkel gli consigliava addirittura
l’integrale di Virgilio) viceversa applicandosi ad una quantità di minutissimi problemi
filologici e linguistici che gli altri studiosi puntualmente ricevevano alla stregua di soluzioni
cartesiane, come testimoniano i titoli di una sterminata bibliografia (Contributi di filologia e
di storia della lingua latina, 1978; Per la storia della filologia virgiliana antica, 1986;
Virgilianisti antichi e tradizione indiretta, postumo 2001) e a partire da una monografia
presto divenuta di fama internazionale, La genesi del metodo del Lachmann (1963), in cui
lo studioso torna ai fondamenti disciplinari della filologia quale scienza dell’edizione di testi
antichi, ne analizza la storia e i condizionamenti paventando una eccessiva
meccanizzazione delle procedure e optando invece per una disamina interpretativa più
consona alla entità materiale e storica dei testi medesimi.
E CHE PER TIMPANARO la filologia non fosse una pratica separata ma un vero e proprio
habitus lo dice d’altronde un altro suo libro fuoriclasse, Il lapsus freudiano (1974), dove lo
studioso demolisce un celebre passo della Psicopatologia della vita quotidiana muovendo
dalla interpretazione lambiccata, da parte di Freud, di un verso virgiliano riferitogli da un
paziente. Agli occhi di Timpanaro, Freud è un narratore epico, un complice della borghesia
prima che uno scienziato perché «vede una conferma della validità del suo metodo nella
grande molteplicità di spiegazioni tutte concorrenti ad un’unica meta, senza chiedersi se
questa sovrabbondanza, anzi inesauribilità, non sia piuttosto un indizio della debolezza
della sua costruzione».
È una critica che lo studioso allarga alle dominanti della cultura contemporanea in nome del
materialismo (la sua raccolta maggiore si intitola appunto Sul materialismo, 1970) che egli
rivendica recuperandone le prime tracce nell’antichità (Democrito, Epicuro, Lucrezio) per
collegarle agli illuministi e su tutti d’Holbach, di cui traduce per Garzanti nel 1985 Il buon
senso, e poi naturalmente Karl Marx che però non separa dal sempre sottovalutato Engels e
da quanto per lui non è affatto materialismo «volgare» bensì materialismo tout court: cioè il
solo mezzo per affrontare nudamente l’esistenza, con dignità e spirito di verità.
Ma un altro e ancora più essenziale suo riferimento, che un tempo sbigottiva taluni lettori
dei Quaderni Piacentini, è Giacomo Leopardi di cui Timpanaro avvalora finalmente il
pensiero (la sua filosofia «amara e trista, disperata ma vera») di contro all’immagine
bianca, reclusa e avulsa che era stata dei crociani. Ai suoi occhi, se il marxismo non è una
antropologia ma una critica in atto dell’economia politica, allora è necessario interrogare le
altre invarianti materiali della condizione umana (la fisica fragilità, la malattia, il dolore, la
morte) fino alle «conseguenze pessimistiche che, con maggiore coerenza e lucidità di
chiunque altro, ne ha tratto il Leopardi», come afferma in un saggio di Classicismo e
illuminismo nell’Ottocento italiano (1965) cui segue, dal titolo eloquente, Antileopardiani e
neomoderati nella sinistra italiana (1982) a chiudere il cerchio aperto nel ’55 con La
filologia di Giacomo Leopardi.
E I NOMI DI MARX, di Leopardi e del medesimo Freud costellano le carte dello studioso
ora ordinate presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, specialmente le scritture epistolari
di cui Timpanaro fu prodigo e maestro nella pregnanza di uno stile cristallino anche nella
vivacità polemica: e lo dicono i carteggi con alcuni suoi pari, quello con Francesco Orlando
(Carteggio su Freud, 2001) e, strepitoso, con il germanista Cesare Cases (Un lapsus di
Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di Luca Baranelli, Edizioni della Normale 2015).
Autentico fil rouge della sua bibliografia e della sua esistenza stessa, scrive Bufarale, «è la
difesa appassionata del legame tra aspirazione umana alla felicità e la lotta per il
socialismo» senza la quale non è pensabile nemmeno la sua più minuta attività di filologo
classico. Da sempre antifascista, iscritto al Psi nel dopoguerra e vicino alle posizioni di Lelio
Basso, entra nel Psiup per disaccordo con il neonato centrosinistra e infine, fra il ’74 e il ’76,
nel Pdup. Rimane un militante di base, assiduo, partecipe e alcuni compagni ancora lo
ricordano presente alle riunioni insieme con sua madre, anziana socialista. Antistalinista,
Bufarale ne sottolinea la «valorizzazione del Lenin ‘libertario’ di Stato e Rivoluzione e delle
battaglie condotte negli ultimi anni contro il burocratismo e contro l’eccessivo potere
assunto da Stalin» mentre lo avvicina al pensiero di Trockij che per lui «dovrebbe diventare
patrimonio comune di tutto il movimento operaio».
LUCIDO, leopardianamente smagato senza essere scettico, il suo testamento politico è in
una raccolta terminale, Il Verde e il Rosso. Scritti militanti 1966-2000 (a cura di Luigi
Cortesi, Odradek, 2001), che contiene testi sul presente politico, sul ritorno della guerra,
sulle forme del neocolonialismo e la ormai dirompente questione ecologica. Nel ’99, quasi
in punto di morte, indirizzandosi a coloro che protestano nel vertice di Seattle, Sebastiano
Timpanaro detta questa diagnosi dello stato di cose presenti: «Sempre più si capisce e si
dice chiaro che cosa significa la globalizzazione capitalistica: un aumento del gap tra paesi
ricchi e paesi poveri e, all’interno degli stessi paesi ricchi, un sempre maggiore
sprofondamento nella miseria del proletariato e di una larga fascia di ceto medio».
IL MANIFESTO, 09.03.2023© 2023 il manifesto – copia esclusivamente per uso personale
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