23 marzo 2023

L' INTELLIGENZA ARTIFICIALE e LE TRADUZIONI LETTERARIE

 


Traduzioni, Saverio Tutino, Günther Anders, Altan

L‘intelligenza artificiale e le traduzioni letterarie, il fondatore dell‘Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, il filosofo ”scortese“, il papà della Pimpa


Collage:
DeepL Edizioni, Tim Parks, The New York Review of Books, 22 marzo 2023

-(i brani in inglese del testo di Parks (che peraltro usa anche brani in italiano) sono stati tradotti in italiano con DeepL – ovviamente)

As machine translation software grows more sophisticated, could it entirely replace human translators? 

Introducing his new publishing house, Orville Press, at an event in Milan on February 23, Matteo Codignola, once one of the pillars of the prestigious Adelphi Edizioni, was asked if he intended to give due importance to translators and translation. “We take translation very seriously,” he replied, “although in the future I expect the job will be done by computers.” This drew a collective groan from the audience, some of whom, I recognized, were themselves translators.

Is Codignola right? What would be the consequences if he were?

The day after the presentation I agreed to check a translation from Italian into English. An Italian colleague was applying to teach Italian literature at a foreign university and had translated her course proposal herself. Such texts necessarily adopt a certain jargon and follow a certain standard style. Out of curiosity I put a paragraph of the original Italian into the translation software DeepL: [Tim Parks trascrive a questo punto il testo in italiano e la traduzione in inglese fatta da DeepL]

[Questa è invece la traduzione del frammento di questo articolo di Parks che abbiamo chiesto a DeepL (non editata)]:

“I software di traduzione automatica, sempre più sofisticati, potrebbero sostituire completamente i traduttori umani? 

Presentando la sua nuova casa editrice, Orville Press, in occasione di un evento a Milano il 23 febbraio, è stato chiesto a Matteo Codignola, un tempo uno dei pilastri della prestigiosa Adelphi Edizioni, se intendeva dare la giusta importanza ai traduttori e alla traduzione. “Prendiamo molto sul serio la traduzione”, ha risposto, “anche se in futuro mi aspetto che il lavoro venga svolto dai computer”. Questo ha suscitato un gemito collettivo da parte del pubblico, alcuni dei quali, ho riconosciuto, erano essi stessi traduttori.

Codignola ha ragione? Quali sarebbero le conseguenze se così fosse?

Il giorno dopo la presentazione ho accettato di controllare una traduzione dall’italiano all’inglese. Una collega italiana stava facendo domanda per insegnare letteratura italiana in un’università straniera e aveva tradotto lei stessa la sua proposta di corso. Questi testi adottano necessariamente un certo gergo e seguono un certo stile standard. Per curiosità ho inserito un paragrafo dell’originale italiano nel software di traduzione DeepL.”

[…]

This brings us to a larger problem, beyond issues of accuracy. The style that Italian academics use in their syllabi is rather different from the style used by British or American academics. And the difference between academic copy and a tourist brochure, art catalogue, or political speech is greater still. The software cannot recognize this context; it has not been trained to reframe a text in a particular style, genre, or format. Nor is it in the brief of the post-editor to start reorganizing all the syntax as professional translators often do; if it were, the process might well take even longer than old-fashioned manual translation. Thus the widespread use of machine translation will very likely fill the world with texts that may be grammatically correct and even semantically accurate, yet nevertheless alien to the spirit of the language they were written in.

Traduzione di DeepL:

“Questo ci porta a un problema più ampio, che va oltre le questioni di accuratezza. Lo stile che gli accademici italiani usano nei loro syllabi è piuttosto diverso da quello usato dagli accademici britannici o americani. E la differenza tra un testo accademico e una brochure turistica, un catalogo d’arte o un discorso politico è ancora maggiore. Il software non è in grado di riconoscere questo contesto; non è stato addestrato a riformulare un testo in un particolare stile, genere o formato. Né è nelle possibilità del post-editore iniziare a riorganizzare tutta la sintassi, come spesso fanno i traduttori professionisti; se così fosse, il processo potrebbe richiedere ancora più tempo di una traduzione manuale vecchio stile. Pertanto, l’uso diffuso della traduzione automatica riempirà molto probabilmente il mondo di testi che possono essere grammaticalmente corretti e persino semanticamente accurati, ma tuttavia estranei allo spirito della lingua in cui sono stati scritti.”


Leggi anche: Alla Biblioteca del Parco Sempione a Milano parliamo di gruppi di lettura inclusivi


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Saverio Tutino. Il cronista della memoria, Piero Melati, Robinson 18 marzo 2023

Il “cronista della memoria” ha vissuto il futuro nel passato e il passato nel futuro. Nel centenario della nascita (Milano, 7 luglio 1923) un appassionato reportage, scritto da Stefania Marongiu, (La parte della memoria, storia privata di Saverio Tutino, Alcatraz editore) ricorda che il giornalista del mito della Cuba rivoluzionaria, il cantore della leggenda di Che Guevara, lo scrittore della Resistenza, è stato soprattutto l’inventore di una titanica impresa: l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, dove sono raccolti novemila diari privati di uomini comuni. Come se Pieve fosse l’approdo di tutta la sua esistenza avventurosa.

Ma prima? Il fotografo Mario Dondero apre la galleria dei testimoni di Stefania Marongiu. Partigiano in Val d’Ossola, poi “uno dei giamaicani”, quelli che si riunivano al milanese bar Giamaica (Luciano Bianciardi, Camilla Cederna, Uliano Lucas) Dondero è famoso per lo scatto dell’ottobre del ’ 59 agli scrittori del “nouveau roman”, dove Samuel Beckett posa in prima fila. Tutino, in un articolo del ’91 per Smemoranda, così descrisse l’amico fotografo: «Parla con i Tuareg del deserto come fossero anche loro genovesi. E capita, presentandosi come italiani a un nomade del Mali o in un villaggio boliviano, di sentirsi chiedere: lei è italiano? Conosce Dondero?».

Tira fuori da Cuba lo scandalo della “rieducazione” degli omosessuali, scrive di dissidenti torturati. Intanto in Europa si prepara già il ’68. Lui è disincantato: «La storia è arrivata a Cuba prima, e a volte penso che sia già sfinita. Ho scritto apposta sfinita e non finita » . La guerriglia, scopre Tutino, è diventata mitologia: «Guevara non è qui eppure è ancora qui. In tanti… cercano la sua presenza, come pellegrini che arrivano in un tempio». Il Che viene ucciso in Bolivia il 9 ottobre del ’ 67. Quattro anni dopo, ad Amburgo, la tedesca Monica Ertl, figlia di un nazista rifugiatosi in Bolivia e legato a Klaus Barbie, noto come il Boia di Lione, che lei da piccola chiamava “ zio Klaus”, chiede di parlare con il console boliviano Roberto Quintanilla Pereira. Lo uccide con tre colpi di pistola. Quel console era l’uomo che aveva mostrato al mondo il cadavere del Che.

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Günther Anders, filosofo ‘scortese’, Lelio Demichelis, Doppiozero, 22 Marzo 2023

Di Anders – ma il suo vero cognome era Stern; Anders, ovvero Altro, Diverso lo assunse come pseudonimo, scelta giornalistica ma anche esistenziale per l’irrompere in Germania del nazismo e insieme programmatica, lui filosofo diverso anche nel suo generare non sistemi di pensiero ma filosofia d’occasione (“un ibrido incontro tra metafisica e giornalismo […] che ha per oggetto la situazione odierna”) – di Anders torniamo a scrivere per tre ragioni. 

La prima – anche questa d’occasione – è la recente uscita dei suoi Stenogrammi filosofici, pubblicati nel 1965 e ora ripresi da Bollati Boringhieri (pag. 158, € 16,50), con la splendida cura e traduzione e la Prefazione preziosa di Sergio Fabian e con una partecipata Postfazione di Rosalba Maletta. 

La seconda ragione è quella di ricordare l’impegno pacifista di Anders e soprattutto contro la diffusione dell’arma atomica (“Mentre le armi atomiche sono letteralmente apocalittiche, i lager furono o sono apocalittici solo in senso metaforico” – e ampia fu anche la riflessione di Anders su Auschwitz e l’Olocausto). Problema atomico tornato di stretta attualità dopo l’invasione dell’Ucraina, Putin minacciando anche l’uso di quella bomba che rappresenta la totale subordinazione del mondo e dell’uomo alla potenza della tecnica. Cui oggi si aggiunge la nuova minaccia di annichilimento totale data dalla crisi climatica e ambientale, anch’essa prodotta dalla totale subordinazione dell’uomo alla potenza nichilista ed ecocida di quello che chiamiamo tecno-capitalismo (la tecnica associata e funzionale al capitale e viceversa), cioè della (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale. 

La terza – la più importante per noi che ci occupiamo di sociologia della tecnica – è appunto la sua fondamentale riflessione sulle macchine, racchiusa soprattutto nei due volumi di L’uomo è antiquato (sempre Bollati Boringhieri). Antiquato rispetto alla (onni o plus) potenza della tecnica e che ha fatto dell’uomo non più il soggetto della storia (quando ha potuto e voluto esserlo), ma l’oggetto di una storia fatta oggi soprattutto dalla tecnica (e dal capitalismo). 

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“Quando disegnavo su Playmen”, intervista di Luca Raffaelli a Francesco Tullio Altan, la Repubblica 23 marzo 2023

Intanto proviamo ad andare alla fine degli anni Sessanta, per i tuoi disegni ritrovati.
«Ero a Roma, tornato dal primo viaggio in Brasile. Realizzavo per “Playmen” delle vignette particolari e illustrazioni in cui mettevo un’altra firma per non inflazionare la mia presenza in quelle pagine. I disegni ritrovati hanno a che fare con quel tipo di produzione in cui provavo anche tecniche nuove e stili diversi».

Dicevi degli stili diversi. A volte andavi anche verso l’astrattismo.
«Era una ricerca alimentata dalla mia antica vocazione alla pittura, nata quando avevo 13, 14 anni. Quindi avevo la necessità di creare qualcosa di personale. E di variare lo stile. Cosa che nel fumetto è più difficile. Nei fumetti hai la necessità di disegnare dei personaggi riconoscibili. Anche per questo ho spesso disegnato dei nasi particolari. Così è facile riconoscerli».

Facciamo ora un salto di almeno cinque anni. È il 1974 e sul “Jornal do Brasil” pubblichi il fumetto Kika &Jaime
«Ero tornato in Brasile per fare un altro film con il regista Gianni Barcelloni e questa volta ho conosciuto Mara alla produzione del film. Quindi sono rimasto a Rio anche quando il resto della troupe è tornata a casa. Ho vissuto lì pensando di rimanerci. Poi i piani sono saltati quando è partito il lavoro in Italia con Marcelo Ravoni e la Quipos».

Il consiglio di rivolgersi a lui è arrivato da Miguel Paiva, fumettista brasiliano.
«Lui era l’allievo preferito di Ziraldo, il più celebre fumettista brasiliano. Allora era art director di un mensile che credo si chiamasse Playtime , per il quale devo aver realizzato anche una copertina e qualche illustrazione.
Forse Miguel ha a che fare anche con la mia collaborazione al Jornal do Brasil che è stata una bella opportunità. Tra l’altro io non avevo il visto per poter lavorare, ero clandestino e per questo era Mara a ricevere l’assegno».

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Immagine: da Rafael Zabaleta e Ibrahim Salahi

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