21 marzo 2023

CARMELO BENE E IL PARADOSSO DEL MISTICO

 


MAGNIFICATIO MARGINIS.

CARMELO BENE E IL PARADOSSO DEL MISTICO

di minima&moralia pubblicato martedì, 21 Marzo 2023 · 

di Ludovico Cantisani

Crocifisso al linguaggio: è confinato sulla carta il Carmelo Bene che si trova ritratto in Si può solo dire nulla, l’imponente raccolta di interviste a C.B. curata da Federico Primosig e Luca Buoncristiano uscita per Il Saggiatore, forse il tassello principale delle iniziative culturali ed editoriali che l’associazione L’Orecchio Mancante sta mettendo in piedi per propagare la memoria di C.B. Dalla prima intervista nota all’un-tempo enfant prodige et sauvage del teatro italiano, realizzata da Ruggero Guarini ai margini dello scandalo di Cristo ‘63, fino alle ultime, testamentarie testimonianze risalenti ai primissimi anni duemila, nonostante l’aristocratismo di facciata Carmelo Bene tra i protagonisti del Novecento italiano è stato uno dei più disponibili nei confronti di giornalisti e inviati stampa – salvo poi invocare la “libertà non di stampa, ma dalla stampa” dal palco del Maurizio Costanzo Show, e intrattenere polemiche personali e collettive nei confronti della classe professionale dei giornalisti durate a volte anni. Impressionante è anche la caratura degli interlocutori avuti da C.B. lungo i quarant’anni della sua vita pubblica: nomi come quelli di Alberto Arbasino, Franco Quadri, Italo Moscati, Goffredo Fofi, Oreste Del Buono, Adriano Aprà, Gian Luigi Rondi, Franco Cordelli, Nico Garrone, Antonio Gnoli e persino Red Ronnie appaiono e a volte si ripetono tra le pagine di Si può solo dire nulla, a testimoniare il ruolo centrale, e al tempo stesso liminare, rivestito da Carmelo Bene nella cultura italiana del secondo Novecento.

Un paradosso sfacciato attraversa le pagine di Si può solo dire nulla, integralmente composte, dopo le introduzioni separate dei due curatori, dalle trascrizioni di queste interviste d’epoca. In altri tempi, lo si sarebbe definito il paradosso del mistico.  L’imperativo cioraniano di frequentare i mistici era stato accolto con inoppugnabile costanza da C.B., che già nel tripartito Nostra Signora dei Turchi – “romanzo”, spettacolo e anti-film – aveva saputo tratteggiare il dolore, secolare, di una santità impossibile, di un martirio mancato. Spesso, nelle sue interviste, Carmelo Bene si fa apertis verbis a nomi come santa Teresa d’Avila, san Giovanni Della Croce o Meister Eckhart, che paiono tratti da un indice di Zolla. Questo atteggiamento è, evidentemente, il contrario dell’esoterico, dello gnostico: il modo esplicito e spudorato con cui C.B. snocciola, ripercorre e ribalta la tradizione di tutti i mistici dell’Occidente a volte è compiaciutamente blasfemo. E come le antologie di Zolla avevano magnificamente dimostrato perdendosi tra i meandri di innumerevoli esempi, tutto lo sforzo esistenziale, stilistico e concettuale dei mistici dei secoli passati si concentrava in un’unica, macrologica questione: come rendere su carta l’estasi, come esprimere per i profani l’Ineffabile che il mistico aveva intuito, forse raggiunto, forse penetrato. Al principio del XX secolo, Ludwig Wittgenstein – un autore che Carmelo Bene non cita – aveva tratto le sue conclusioni di questa millenaria disputa con lapidaria durezza: “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Venuto al mondo al momento stesso della secolarizzazione, pochi anni prima che l’esplosione dell’atomica segnasse irrimediabilmente l’inizio dell’era della tecnica, Carmelo Bene riscoprì questo paradosso, secondo vie personalissime e in parte imperscrutabili.

Superfluo dirlo, Bene non era un mistico: ma già all’inizio del suo percorso artistico, al più tardi a metà degli anni sessanta, con la concezione maculata di Nostra Signora, C.B. aveva distintamente individuato questo arcano paradosso, cambiandolo però di segno: da dissidio a pantomima, da crucifixio mentale a principio strutturante di un intero percorso artistico. Tutta l’opera beniana è un’operazione di fuga: perenni sono gli atti mancati, i singulti, i conati, le aritmie, le afasie: interminabile la ricerca del silenzio, del nulla, del vuoto: interminabile, e infruttuosa. Dagli spasmi di Don Giovanni incapace di conquistare la più innocente delle donne, fino alle frustrazioni kleistiane di un Achille invulnerabile ovunque tranne là dove la freccia andrà a colpire, tutto l’op(u)s di C.B. esperienza la perenne fuga da un centro, da un nucleo, da un unicum che possa dirsi in senso positivo, che possa essere definito a parole. E più si affonda nell’opera di Carmelo Bene, più ci si accorge quel centro inesprimibile si scopre essere il contrario del principium individuationis, un’idea inafferrabile di identità frantumata, scissa, sconvolta, non meno della pellicola calpestata durante il montaggio di Nostra Signora.

Chiamatemi legione, perché noi siamo molti”, diceva uno dei più celebri indemoniati del Vangelo: quanto più C.B. avanzava nel suo percorso teatrale, quanto più riassumeva in un unico corpo e in una risonantissima voce il cast di un’intera opera shakespeariana, tanto più si faceva cruciale, nel suo pellegrinaggio sul palco, la negazione dell’identità – morto Dio, muore anche l’Io – la ricerca, in un certo senso, di una morte in-scena. L’ostinazione con cui Bene ha portato e riportato e tolto di scena Amleto, un Amleto più laforghiano che shakespeariano del resto, non è che l’epifenomeno di un cammino rivolto tutto contrattorno il principio di identità – uno sforzo post-moderno che, al di là del perenne rimando ai classici del teatro e della letteratura occidentali di ogni tempo, situa C.B. al centro di una specifica quest novecentesca — in mezzo ai nomi di Borges, di Kafka, di Joyce, di Pirandello, di Munch, di Musil, di Kirchner — di Nietzsche.

Per quanto intensa possa essere stata la riflessione su e contro il principio di identità lungo tutto il Novecento letterario, filosofico e teatrale, i mass media dal canto loro hanno un particolare potere egizio: quello di intrappolare i loro occupanti in predeterminate macchiette, in “personaggi pubblici”, in cliché ambulanti. È qui che la riflessione beniana sull’identità, trapassando dall’arte scenica fino al trash televisivo, a volte, ha trovato una dimensione nuova, inedita. Forse eroica. E al cospetto dei media, lungi dal trincerarsi in un baudrillardiano o platonico disprezzo nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa, Carmelo Bene si è buttato nella mischia allo scopo dichiarato di pervertire lo strumento. Non è più la guerra trasmessa in diretta a rivelarsi illusione ontologica, simulacro, sacrilegio sibillino dell’autentica comunicazione: ponendosi in televisione, C.B. bucava lo schermo pro-ponendosi come anti-simulacro, come irriducibile negazione della comunicazione nel cuore stesso della sua illusione, paradosso incarnato di un mistico redivivo, di un mistico del nulla, del linguaggio, del nulla del linguaggio. Testimoniare l’inenarrabile diventa per Carmelo Bene una vocazione anche al di là del palco, anche al di là dello schermo, una provocazione quotidiana da trasmettere per mezzo stampa o attraverso la televisione.

Il rapporto di Carmelo Bene coi media – la sua duplice apparizione al Maurizio Costanzo Show fu forse il suo ultimo capolavoro – è in una certa misura il punto di arrivo di tutto il suo percorso artistico, e di tutta la sua ricerca intellettuale. L’importanza di Si può solo dire nulla sta anche qui, nel proporre una prima e unica edizione critica e pressoché completa del dialogo di C.B. con i giornali e le riviste. Andando indietro agli anni sessanta, dopo gli esordi nel contesto delle cantine romane, il cinema di Carmelo Bene aveva tracciato una torturante abiura delle immagini: ma al paganesimo del visivo C.B. non contrappone una scrittura ebraicizzante, sacralizzante, “pura”, i suoi tentativi di romanzo avevano il ritmo febbrile di chi dalla crisi del romanzo è arrivato a scorgere la crisi della crisi stessa – non per nulla nell’ultimo decennio di vita più volte citò Derrida durante le interviste. Del resto, a proposito di decostruzione, C.B. si era sempre rifatto alla liturgia cattolica, si era sempre compiaciuto di come il suo nome di battesimo riassumesse il Carmen e il Melos: e questa raccolta di interviste testimonia una volta ancora, come se ce ne fosse bisogno, il complessissimo rapporto di Carmelo Bene con la parola orale. Orale di cui la tanto decantata phoné non era che una componente, la più eterea: nel faccia-a-faccia con i giornalisti, con il pubblico generalista, con gli invisibili lettori e ascoltatori, Carmelo Bene riscopre un personalissimo calvario del linguaggio, dove il silenzio è sempre invocato ma mai raggiunto.

Ci sono interlocutori con cui il dialogo è privilegiato – Giancarlo Dotto, Doriano Fasoli, Goffredo Fofi, che firma una delle testimonianze più straordinarie del libro, la Conversazione su Dio avuta con un C.B. moribondo – ma complessivamente Bene ingaggia un braccio di ferro con le sue stesse parole, buttandosi a capofitto tra ribaltamenti, doppi sensi, hapax, scioglilingua, giochi di parole che non hanno nulla di invidiare a quelli dell’Ulysses. Consapevole anzitempo di come utilizzare i media a loro danno, a dispetto delle loro stesse regole – degno allievo di Joyce, C.B. ha saputo proporre nel cuore dei quotidiani e della televisione l’Im-mediato, ciò che vi è di più disturbante nel mare di simulacri, di specchi, di rifrazioni, di mediazioni a cui le moderne tecnologie hanno costretto le comunicazioni di massa.

È così che Si può solo dire nulla ci restituisce il ritratto del Carmelo Bene più paradossale, quello antilogico. Contro il linguaggio, contro le parole, contro l’arte stessa, da sempre contro il cinema e ormai anche contro il teatro, Carmelo Bene qui si innalza contro il logos stesso, scinde e spezza ogni residuo legame causale, logico, concettuale. Non c’è idea che sorga per essere mantenuta, non c’è affermazione che venga detta per non essere ribaltata. Tutto arriva all’estremo, e all’esteriore, all’esterno di un’individualità pressante che proprio della negazione ha fatto il segreto del suo essere iconica. Si può solo dire nulla inchioda Bene al suo parossismo: nel momento in cui la dimensione meta-, metateatrale, meta-cinematografica, meta- e contro-tutto, si ribalta contro il Sé – stesso. “Gli specchi, e la copula, sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini” era una frase di Borges che Bene volle mettere nell’incipit del suo Don Giovanni. Lo stesso potrebbe dirsi del teatro, del palco, del corpo estrinseco dell’attore. Nelle parole delle interviste di C.B., theoria e praxis, arte e critica si fondono, e il risultato, bulimico e logorroico, si svela arcano e post-moderno a un tempo.


da minima&moralia pubblicato martedì, 21 Marzo 2023 ·  https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/magnificatio-marginis-carmelo-bene-e-il-paradosso-del-mistico/


 



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