ALTRE DIVAGAZIONI SUL LESSICO SICILIANO
Mario Pintacuda
Dopo una prima serie di vocaboli siciliani analizzati in un mio post del 20.10.22 (chi volesse, può rileggerli nel mio blog: https://pintacuda.it/2022/10/18/alcuni-interessanti-vocaboli-siciliani/), ne propongo oggi un altro decalogo. Si tratta di espressioni dialettali, che sono però molto utilizzate nell’italiano regionale parlato nell’isola; questi vocaboli sono ancora perfettamente compresi e spesso rendono un’idea in modo molto più vivace rispetto al loro corrispettivo italiano (ammesso che esista).
1. “Abbiliato” - Indica chi “fa bile”, è amareggiato e contrariato. Il verbo “abbiliàrisi” (“far bile, aver collera, incollerirsi”) è puntualmente registrato nel vocabolario di Traina; il participio passato “abbiliatu”, italianizzato con la -o finale, è comunemente usato nella conversazione quotidiana: “Ti vedo abbiliato; che ti è successo?”.
2. “Accucchiare” - Il verbo “accucchiari” significa “congiungere insieme due cose, accoppiarle”; Traina lo spiega così: «È lo stesso che “accuppiari”: se non che cambiamo in “cch” la “p” come “cchiù” in vece di “più”». Il verbo passa poi a indicare l’azione di “racimolare, ammassare, radunare”: ad es. si “accucchiano” soldi per un pagamento.
Sempre dall’idea di “accoppiare”, deriva un altro significato, cioè “avere a che fare”: “non ci accucchia niente” significa “non c’entra niente”.
In napoletano esiste il verbo gemello “accucchià”, anch’esso corrispondente all’italiano “accoppiare” e ugualmente usato nel senso lato di “radunare, riunire, mettere insieme”. Quando Eduardo Scarpetta fu accusato di presunto plagio della tragedia “La figlia di Iorio” di D’Annunzio, in tribunale sbottò così nei confronti dell’avvocato Enrico Cocchia che difendeva D’Annunzio: «Che cacchio m’accòcchia stu cacchio de Còcchia!». Scarpetta vinse la causa….
Infine, il verbo siciliano “ncucchiari”, parente stretto di “accucchiari”, significa “mettere insieme cose strampalate per confondere le idee a qualcuno”: in un passo de “Il bell’Antonio” di Vitaliano Brancati si legge: «Ma che dite, ma che cosa m’incucchiati?».
3. “Assuppaviddanu” - Letteralmente, significa “inzuppavillano”; si usa per indicare una pioggerella fine e costante, che però - protraendosi per ore - “inzuppa” soprattutto i contadini al lavoro nei campi. Ancora oggi si dice: “piove ad assuppaviddanu”. Sempre meglio dei torrenziali nubifragi, con o senza tsunami, che sono diventati comuni alle nostre latitudini a causa dei mutamenti climatici e del dissesto idrogeologico…
4. “Disfiz(z)iato” - Si dice di chi ha perso lo “sfizio” e quindi è “disgustato”, sfiduciato e disilluso, ha perso l’entusiasmo per una cosa. Il Traina registra il verbo “disfi(z)ziàrisi”, con i significati di “disgustarsi, sdegnarsi, disaffezionarsi”. Se vediamo qualcuno particolarmente depresso, stufo, privo di stimoli, vuol dire che è “disfizziato”, che ha bisogno di ritrovare le giuste motivazioni. Auguri, dunque, a tutti i disfizziati! (la doppia z è facoltativa nella grafia, ma obbligatoria nella pronuncia).
5. “Pizzuliari” - Il verbo per Mortillaro indica l’azione di “pigliar il cibo col becco, che è il proprio degli uccelli”; corrisponde dunque all’italiano “piluccare”, che significa sia “staccare a uno a uno i chicchi di un grappolo per mangiarli” (es. “piluccare l’uva”) sia anche “mangiare a piccoli bocconi, sbocconcellare”.
Ricordo che mio cugino Pietro Maggiore, bravissimo poeta dialettale e grande conoscitore della lingua siciliana, quando a casa sua mi invitava ad assaggiare qualcosa in modo rapido e informale (ad es. pane e olive, “càlia e simenza”, una fettina di primosale, qualche salume, un “muffulettu” con ricotta, una porzioncina di “sfincione” bagherese, ecc.) diceva: “Pizzuliàmu”; e non c’era invito più gradito… (in realtà non è detto che “piluccassimo” come uccellini, perché invece a forza di “pizzuliari” ci saziavamo…).
6. “Schiticchiata” - Mortillaro dà di “schiticchio” una definizione insolitamente lunga: «il sollazzevole cibarsi in più persone di buon umore, con bibita, sia di giorno, sia di sera, o in città, o in villa, o per rata, o a spesa di uno solo»; parallelamente, una “schiticchiata” è una mangiata particolarmente appetitosa e gradevole, il cui requisito essenziale però è la buona compagnia.
7. “Scordativo” - Come è facilmente intuibile, indica chi “si scorda” sistematicamente le cose; per Mortillaro lo “scurdativu” è “di poca memoria, dimentichevole”. Nella conversazione quotidiana, capita di rimproverare lo “scordativo” di turno, che ha saltato un appuntamento “dandoci buca”, ha dimenticato una scadenza, ha - soprattutto - “scordato” di renderci i soldi che gli abbiamo prestato. La colpa però è dell’origine latina del verbo “scordarsi”, che anche in italiano significa “allontanare dal cuore” (in latino “cor/cordis”); analogamente il “di-menticare” significa “far uscire dalla mente”; e se qualcosa ci esce dal cuore o dalla mente, significa che non ci teniamo poi così tanto…
8. “Scucìvulo” - Si dice di chi è “di malo carattere”, di chi (per dirla con Camilleri) ce l’ha “con l’universo creato”; è una persona arcigna, scostante, mal disposta. Si può usare anche per indicare chi è pigro e si sottrae a un’incombenza con vari pretesti.
Una volta ero in viaggio a Parigi; dovendo recarmi in auto in Bretagna e non esistendo ancora i navigatori satellitari, mi rivolsi alla ragazza della reception; era una biondina parigina sussiegosa che avevo già ribattezzato “decouchevoule” (con palese calco sul siciliano “scucìvulo”). Le chiesi dunque, nel mio francese approssimativo, la strada più breve per la Bretagna. Lei mi disse di seguire l’indicazione “Not”. Io non capii niente e le chiesi di ripetere. Lei ripeté: “Not”, con un tono che voleva dire: “Ma sei ignorante, non hai mai sentito nominare Not?”. Benché avvilito per la figuraccia, la supplicai di scrivermi la misteriosa indicazione stradale: e lei scrisse in un pizzino ghermito ferocemente, con palese disprezzo, la magica parola “Nantes” (che nella sua pronuncia francofona ultranasale era diventata tutt’altro…). Più scucìvula, anzi “decouchevoule”, di così…
9. “Sparritt(i)eri” - È chi sparla degli altri, chi ama spettegolare e denigrare alle spalle. Mortillaro lo definisce “biasimatore, maldicente, sparlatore”. Si tratta di una categoria purtroppo assai popolata, formata da gente che (non vedendo mai la trave nel proprio occhio) si dedica alla compiaciuta collezione delle pagliuzze altrui. Sarebbe bello che lo “sparrittieri” o la “sparrittiera” di turno vedessero la loro “audience” azzerata e fossero lasciati soli con le loro stizzite maldicenze; ma purtroppo raramente è così…
10. “Unni persi i scarpi u Signuri” - L’espressione significa “dove perse le scarpe il Signore” e indica un posto lontanissimo e difficilmente raggiungibile. Gli esempi sono innumerevoli: la suocera deplora il genero che ha portato la figlia a stare “dove perse le scarpe il Signore”; l’ufficio in cui si deve sbrigare la pratica è situato spesso in zone “arroccate” e remote, comunque lontano da casa tua; il posto di lavoro che hai trovato con grandi sacrifici è “dove perse le scarpe il Signore” e per raggiungerlo devi fare delle sfibranti levatacce.
C’è da chiedersi in quale occasione il Signore abbia perso queste scarpe, come mai non si sia mai accorto di averle perse e soprattutto come mai, con i mezzi potentissimi a sua disposizione, non le abbia ritrovate; ma sono domande destinate a rimanere senza risposta. O forse basta dire che la colpa è di noi umani, che non abbiamo ritrovato queste scarpe (anche se dovevano essere di una marca inconfondibile) e ne piangiamo le conseguenze…
Per oggi basta così: alla prossima…
MARIO PINTACUDA
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