31 ottobre 2023

INGEBORG BACHMANN, Tutti i giorni

 



Tutti i giorni

La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.
Viene conferita
per diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.

Ingeborg Bachmann, Poesie, Guanda, 1987 )

LA GRANDE CULTURA TEDESCA DI ELIAS CANETTI

 



L’EBREO SEFARDITA, COSMOPOLITA ELIAS CANETTI,
NON CEDETTE ALL’ODIO NEANCHE QUANDO
LE BOMBE DELLA LUFTWAFFE CADEVANO SU LONDRA

Così Susan Sontag in un bel saggio su Canetti, “La mente come passione”, apparso sulla “New York Review of Books” nel settembre 1980 (bisogna precisare che il saggio era già apparso in Italia nel 2005 nella “Lettera internazionale”, n. 86, col discutibile titolo, “Canetti, antihegeliano, antimarxista antifreudiano”), e che ora viene pubblicato nella bella raccolta dei brillanti saggi di Susan Sontag, “Sotto il segno di Saturno” (Nottetempo, 2023). Il libro, oltre al saggio su Canetti, analizza criticamente il pensiero di grandi, importanti autori “melanconici” della modernità come Antonin Artaud, Walter Benjamin, Roland Barthes, Paul Goodman, Hans Jürgen Syberberg.
Scrive Susan Sontag:
“Che il tedesco sia diventato la lingua del suo spirito è una conferma dello sradicamento di Canetti. I reverenti omaggi all’ispirazione goethiana, annotati nel quaderno di appunti mentre le bombe della Luftwaffe cadevano su Londra (“Se nonostante tutto dovessi restare in vita, lo dovrei a Goethe”), attestano quella fedeltà alla cultura tedesca che lo avrebbe sempre reso uno straniero in Inghilterra – dove ha ormai trascorso più di metà della propria vita – e che Canetti, benché ebreo, ha l’oneroso privilegio di considerare la più nobile forma di cosmopolitismo. Continuerà a scrivere in tedesco, nota in un appunto del 1944, “precisamente perché è ebreo”. Con questa decisione, non condivisa dalla maggior parte degli intellettuali ebrei in fuga da Hitler, Canetti scelse di non lasciarsi contaminare dall’ odio e di restare un riconoscente figlio della cultura tedesca, intenzionato a fornire il proprio contributo affinché fosse ancora degna di ammirazione. E così è stato” (Susan Sontag, “Sotto il segno di Saturno”, Nottetempo, 2023, p.182).

" PISCI FRITTU E BACCALA " : I DONI DEI MORTI A PALERMO

 


I doni dei morti

Chi ti purtaru i morti?
U pupu cu l’occhi torti (a pupa cu l’anchi torti)
U attu chi sunava
U surci chi abballava
Veni la zita
ca’ vesti di sita
La sita si vagna
alla faccia di to nanna.
To nanna muriu
e chiddu chi voli Diu
Veni so cugnata ca’ vesti riccamata
Veni u baruni cu i causi a pinnuluni
Veni u tavirnaru cu na buttigghia na manu
tirituppiti e lariula’
pisci frittu e baccalà

Filastrocca dello IORNU DI LI MORTI.

30 ottobre 2023

NETANYAHU HA PERSO LA TESTA AFFERMANDO "L' ONU DICHIARA GUERRA A ISRAELE"

 


L’antisemita Guterres


Patrizia Cecconi
30 Ottobre 2023

La logica aristetolica avrà pure fatto il suo tempo ma ha sempre un certo fascino e ha le sue forme fondamentali di argomentazione. Una è il sillogismo, il ragionamento per eccellenza: se l’Onu dichiara guerra a Israele e chiunque lo faccia, negandogli di fatto la legittimità a esistere e il diritto a difendersi massacrando, è un terrorista antisemita, allora le Nazioni Unite sono terroriste e antisemite. Questa sorprendente affermazione, quasi una macabra boutade, ci viene suggerita dal titolo di un quotidiano nazionale – “L’ONU dichiara guerra a Israele” – tutt’altro che clandestino, Libero, che è solito lanciarsi nell’avventura della provocazione. Non ci si faccia però trarre in inganno, perché il giornale fondato al cambio di millennio da Vittorio Feltri – di proprietà di un imprenditore stimatissimo in campo sanitario, edile ed editoriale, peraltro eletto ben quattro volte al parlamento italiano, Antonio Angelucci – esprime, anche in questo caso, il pensiero di molta gente autorevole: dal Ministro degli Esteri di Israele al Vicepresidente del Consiglio dell’Italia tricolore Matteo Salvini. Mica robetta. Dice: ma si tratta solo delle dichiarazioni deliranti del Segretario Generale: si dimette Guterres e tutto torna a posto. Magari. Pare infatti, come racconta qui Patrizia Cecconi, penna acuminata che con l’illegalità dell’occupazione dei Territori ci “tormenta” da decenni ed è sempre molto informata sul gossip delle diplomazie internazionali, che tra l’Onu e lo Stato ebraico una divergenza d’opinioni sia storia vecchia, perfino antecedente all’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso e all’insediamento di Guterres. Possibile? Sarebbero addirittura un centinaio le Risoluzioni delle Nazioni Unite verso le quali Israele non ha mai mostrato il minimo segno di interesse, comprese quelle del Consiglio di Sicurezza la cui inadempienza, per altri Stati, ha significato gravi sanzioni o addirittura il via libera ad aggressioni militari. Figuriamoci oggi. Intanto, però, il numero dei dipendenti dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani a Gaza è per ora salito a 63. E l’antisemita Guterres? Beh, oggi, 30 ottobre, un’agenzia di stampa ne ha dato notizia. Così ha scritto il segretario delle Nazioni Unite: “Sono qui in Himalaya dove i ghiacciai si stanno sciogliendo a un livello record. Come in Groenlandia, come in Antartide…”.

Al Khalil, Hebron, foto Cpt Palestine/Flickr

La fabbrica del falso seguita a produrre a gonfie vele, e tra i suoi più zelanti operatori vediamo, more solito, i media mainstream. L’ultimo atto, per ora, è la campagna calunniosa nei confronti del Segretario ONU Guterres accusato di sostegno ad Hamas, inteso come sostegno al terrorismo antisemita, per aver enunciato  una semplice verità, peraltro inserita in un discorso in cui non risparmiava critiche ad Hamas e alla sua sanguinosa azione del 7 ottobre. Ma ogni verità  scomoda che riguardi Israele è considerata inaccettabile e, quindi, ecco che scatta la macchina del fango, anche contro il Segretario dell’ONU.

A brillare in modo particolarmente abbagliante in quest’azione calunniosa è il quotidiano Libero, il quale titola: “L’ONU dichiara guerra a Israele”. Abbagliante al punto che il ben più rispettabile Fatto Quotidiano e il suo direttore Travaglio vengono oscurati e a nulla vale il tentativo di quest’ultimo di leggere –  in uno dei talk show televisivi definiti democratici – il discorso incriminato per mostrarne al pubblico il contenuto reale. Ma la macchina del falso potrebbe incepparsi di fronte alla verità e l’opinione pubblica potrebbe perfino capire che la gogna mediatica cui è sottoposto Antonio Guterres è solo una tecnica servile per proteggere il genocidario e nazistoide progetto israeliano che ha già fatto circa 7mila morti civili di cui oltre 3mila bambini, cuccioli di quegli “animali umani” che Netanyahu, Gallant e i loro sostenitori hanno dichiarato pubblicamente di voler eliminare radendo al suolo la Striscia di Gaza.

In altri talk show televisivi l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, ha dichiarato con la sicumera di chi si sente portatore unico del diritto di decidere le sorti del mondo, che il discorso di Guterres è “dimostrazione della degenerazione morale” e ha gridato ripetutamente  “per noi c’è un unico scopo, distruggere Gaza, distruggere Gaza, questo male assoluto”. Per molto meno un ospite qualunque sarebbe stato allontanato dagli studi televisivi, ma a questo assetato di sangue è stato consentito di seguitare a urlare il suo “diritto” alla più disumana vendetta in nome di quella inaccettabile strumentalizzazione della tragedia della Shoah che, come dice lo storico ebreo israeliano Raz Segal, è un vergognoso uso della lezione dell’Olocausto e, come scriveva già 23 anni fa un altro storico ebreo, Norman Filkenstein, rientra ne “L’industria dell’Olocausto”, titolo di un suo saggio in cui dimostra come la strumentalizzazione di quell’immane crimine abbia corrotto l’autentica memoria dell’Olocausto utilizzandola  per tacitare ogni violazione commessa da Israele.

Ma vediamo in cosa consisterebbe la “degenerazione morale” rappresentata dal discorso di  Guterres che ha indotto l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan e il ministro degli esteri Eli Cohen a chiedere le dimissioni immediate di Guterres e a vietare l’entrata dei funzionari ONU (ma non è la prima volta) dichiarando fieramente alla stampa “è ora che diamo una lezione all’ONU”, frase che ancelle e servetti mediatici di Israele hanno evitato di stigmatizzare.

Ma a Israele tutto è concesso, compresa la  condanna al Segretario Guterres per essersi ispirato ai principi della Dichiarazione dei diritti umani chiedendo che si fermi questo massacro di civili innocenti e ribadendo che “anche la guerra ha delle regole. Dobbiamo esigere che tutte le parti sostengano e rispettino i loro obblighi ai sensi del diritto umanitario internazionale… risparmiare i civili; e rispettare e proteggere gli ospedali e rispettare l’inviolabilità delle strutture delle Nazioni Unite”.

I nostri media si sono ben guardati dallo specificare che Israele non ha mai rispettato neanche una sola delle circa cento Risoluzioni delle Nazioni Unite, comprese quelle del Consiglio di Sicurezza la cui inadempienza, per altri Stati, ha significato gravi sanzioni o addirittura il via libera ad aggressioni militari e che, dalla sua fondazione ad oggi, lo Stato ebraico ha calpestato continuamente il diritto universale umanitario e il diritto internazionale.

Salvo pochissime eccezioni, i nostri media hanno supportato la pretestuosa quanto isterica indignazione israeliana estrapolando dal discorso di Guterres soltanto la frase indebitamente considerata assolutoria verso Hamas, e cioè “È importante riconoscere anche che gli attacchi di Hamas non sono venuti dal niente. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Poco importa che questa frase seguisse la sua decisa e inequivocabile accusa ad Hamas che riportiamo di seguito: “Ho condannato inequivocabilmente gli atti di terrore terrificanti e senza precedenti compiuti da Hamas in Israele il 7 ottobre. Niente può giustificare l’uccisione deliberata, il ferimento e il rapimento di civili  o il lancio di razzi contro obiettivi civili” e aggiungendo che tutti gli ostaggi devono essere “rilasciati immediatamente e senza condizioni”.

Si sono anche ben guardati, i nostri opinion maker,  dal ricordare che l’esercito israeliano ha deliberatamente preso di mira le sedi dell’agenzia ONU per i rifugiati assassinando, oltre agli “animali umani”, anche 39 dipendenti delle Nazioni Unite, quelle vittime alle quali il “degenerato” Guterres ha riservato alcune parole di rispetto e di dolore. Male, molto male, perché le bombe che li hanno uccisi erano tutte a servizio del “diritto di Israele a difendersi” e pertanto la colpa di quegli omicidi, come pure quella dell’orrendo massacro che si sta compiendo a Gaza, non è a carico di Israele, al quale si riconosce il diritto a difendersi anche quando è chiaro come la luce che quello sbandierato diritto è solo sete di sangue, di vendetta e di occasione per accaparrarsi altra terra palestinese.

Nonostante il compiacente atteggiamento dei media, e i reportage di croniste/i che fanno il tifo per l’invasione da terra ripetendo con tono di approvazione frasi come: Netanyahu “garantisce” che l’attacco da terra ci sarà, oppure Netanyahu “deve rispettare la promessa” fatta al popolo israeliano di invadere Gaza; nonostante si facciano servizi di molti minuti per seguire commossi il funerale di una delle povere vittime della furia di Hamas mentre non si dedichi neanche qualche secondo al funerale di una delle 7000 vittime della furia israeliana; nonostante sia scomparsa la notizia dell’atroce bombardamento dell’ospedale Al Ahli dopo aver tentato di far credere – a seguito di un moto d’indignazione generale – che Israele non era colpevole (!) e non si faccia menzione degli altri 12 ospedali e 30 centri sanitari bombardati, dei numerosi medici assassinati, al pari dei circa venti giornalisti palestinesi; nonostante molto altro che i media maistream non dicono e nonostante ciò che seguitano a dire sebbene sia ormai chiaro che si tratta di menzogne; ebbene, nonostante tutto il lavoro dell’esercito mediatico fedelmente a suo servizio, Israele sta mostrando al mondo che dietro il leit motif del “diritto a difendersi”, appare sempre più chiara la natura genocidaria, suprematista e razzista che caratterizza il disegno colonialista dello Stato ebraico, iniziato già prima del 1948 con crudeltà non dissimili a quelle che si dice abbia commesso Hamas il 7 ottobre e che altro non erano se non l’inizio del “genocidio incrementale” come lo definisce un altro storico ebreo israeliano (Ilan Pappé) che da oltre 75 anni avanza senza sosta con lo scopo che da Ben Gurion in poi non sembra essere mai cambiato, se non nelle forme, di annettersi tutta la Palestina storica.

Roma, foto Riccardo Troisi

Forse, se questo processo criminale fosse stato fermato per tempo, se l’ONU avesse deciso di far rispettare le sue Risoluzioni, se il mondo occidentale non fosse caduto nella strumentalizzazione del terribile crimine di cui è stato responsabile nel secolo scorso, forse Hamas neanche esisterebbe.

Al momento però i Paesi che si piccano di essere civili e di rispettare il diritto universale umanitario i cui principi sono i pilastri che sorreggono le vere democrazie, hanno un compito ineludibile: quello di fermare i massacri. Lo sanno tutti che questo genocidio non è diritto a difendersi, quella è la frase di propaganda buona per tutti gli usi, ma in realtà l’odio che il massacro genera per i carnefici è una vera mina contro quel diritto. Dovrebbe saperlo pure il ministro Tajani, il quale però, forse perché poco sensibile verso gli “animali umani” che Israele sta sterminando, si è dichiarato contrario a un cessate il fuoco. Resta solo la società civile –  sia quella che conosce bene la questione, sia quella che neanche si pone il problema di cercare ragioni e torti ma che, semplicemente, ha conservato una sensibilità umana verso il dolore – a manifestare nelle piazze per chiedere di cessare il fuoco e di far arrivare cibo, acqua e medicine agli assediati. Una richiesta che viene perfino da molti israeliani, alcuni dei quali superstiti di quel terribile 7 ottobre. Una richiesta la cui negazione dice chiaro da che parte sta chi la rifiuta: dalla parte dei criminali di guerra e contro l’umanità.

IL CORTOMETRAGGIO DI FARAH NABULSI "NIGHTIME OF GAZA"



Lo straordinario filmato di F. Nabulsi

30 Ottobre 2023

La regista Farah Nabulsi ha rilanciato in questi giorni un filmato dedicato a Gaza (disponibile con i sottotitoli in italiano, grazie al prezioso contributo di Assopace Palestina).

Scrive Nabulsi nel suo profilo fb: “Nell’estate del 2014, durante una precedente intensa offensiva israeliana su Gaza, prima di diventare una regista, ho scritto un pezzo che catturava le emozioni crude e le realtà tragiche come le ho sentite e immaginate se fossi stata madre a Gaza in quel momento. Nel 2017, l’ho adattato e pubblicato come cortometraggio di tredici minuti intitolato Nightmare of Gaza. Lo rilancio in questi giorni: il suo messaggio è ancora toccante e fin troppo rilevante… Per aiutare chi in tutto il mondo vuole capire e connettersi, ma trova troppo travolgenti le immagini dure dell’attacco attuale, questo film offre una finestra astratta ma profondamente emotiva sull’esperienza palestinese. Vi invito a condividerlo con i vostri amici e familiari, ma soprattutto con comunità e persone che conoscete in tutto il mondo che non capiscono cosa significa essere palestinesi a Gaza in un momento come questo…”.

Farah Nabulsi è nata e cresciuta a Londra da madre palestinese e padre palestinese-egiziano. Nel 2016 ha promosso una casa di produzione non profit, Native Liberty, per raccontare la Palestina attraverso progetti cinematografici. Nello stesso anno ha lanciato il sito Ocean of Injustice, una piattaforma educativa in lingua inglese con notizie provenienti dai territori occupati.


PRIMO LEVI e LEONARDO SCIASCIA

 


La Repubblica oggi anticipa il contenuto di un magro carteggio tra l’autore de “La tregua” e lo scrittore siciliano

Levi e Sciascia carissimi sconosciuti

Marco Belpoliti

Pur pubblicando da vari anni dal medesimo editore, entrambi a partire dal 1958, Primo Levi con Se questo è un uomo e Leonardo Sciascia con Gli zii di Sicilia , i due scrittori non si sono mai incontrati. Si leggevano e si stimavano. Però si sono scritti. Due sole lettere in andata e ritorno, entrambe per iniziativa di Levi. La prima nel 1968 e la seconda nel 1984. Due epoche diverse della storia personale e anche della storia italiana, e più in generale del mondo. Ora queste lettere, quattro in tutto, vedono la luce in un numero di Todomodo , la rivista di studi sciasciani che pubblica da tredici anni la “Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia”. Sono incluse in un bel saggio di Domenico Scarpa, indefesso ricercatore, intitolato Su due frontiere , che le presenta, commenta e le inserisce in un contesto più ampio. Era stato il narratore ebreo a prendere l’iniziativa di corrispondere con lo scrittore siciliano, entrambi autori “di frontiera”, come sottolinea Levi. La prima del 26 febbraio 1968 si apre con un avverbio: «Caro Sciascia, veramente è un pezzo che Le volevo scrivere, per dirLe che i Suoi libri sono molto belli e importanti: della Civetta ho spedito almeno 5 copie in diverse parti del mondo, e proprio adesso lo sto rileggendo (con immutata ammirazione) dopo aver visto il film, per verifica. Verifica del film beninteso». Cosa spinge il chimico torinese, autore a quel punto di tre libri, di cui uno, Storie naturali (1966), pubblicato con lo pseudonimo di Damiano Malabaila, a prendere questa iniziativa? È la guerra in Vietnam, che gli Stati Uniti del presidente Johnson stanno combattendo contro i vietcong e il Vietnam del Nord comunista. Levi ha scritto un appello diretto al leader americano e lo sottopone a Sciascia per la firma. Il testo è pubblicato all’interno del saggio di Scarpa. C’è da dire che in quel momento il Vietnam è diventato un argomento quotidiano in Europa, come negli Stati Uniti, e sarà proprio quella guerra a scatenare alcune delle rivolte studentesche nei mesi seguenti, anche per l’arruolamento di giovani americani nelle forze armate che combattono nelle giungle asiatiche. La risposta di Sciascia non è positiva dal momento che segnala due aspetti di dissenso con la lettera redatta dall’ex deportato di Auschwitz: «Caro Levi, firmerei senz’altro la Sua lettera se non ci fossero due punti su cui non sono d’accordo». La lettera a Johnson è un testo in stile primolevi: garbato, acuto, problematico e insieme deciso. Ci sono molte delle sue convinzioni, la prima delle quali che la guerra è «radicata nella natura umana», tema che trae dalle letture etologiche sull’aggressività umana, da Konrad Lorenz, premio Nobel di lì a cinque anni, e da Erich Fromm, psicoanalista, che s’era interrogato sulle pulsioni distruttive degli umani sulla scia di Freud. C’è anche l’idea della guerra come legittima difesa dall’attacco di altri. Quello che gli preme è che ora l’Americasembra perdere «il buon nome che si era guadagnato nella “crociata in Europa” contro il fascismo». Si parla positivamente di «volontà buona», ma già all’epoca gli Usa cominciano a essere paragonati, per quanto accade nei villaggi vietnamiti, all’esercito tedesco in Europa. “Yankee Go Home” era scritto sui muri italiani dal 1967. Del resto, lo stesso Levi paragona il soldato americano in Vietnam all’occupante nazista. Si sente dal testo che Levi soffre per questo; per quanto sia stato liberato ad Auschwitz dai sovietici, per lui il riferimento agli Stati Uniti è importante. Sciascia gli manifesta la sua ripugnanza a rivolgersi a Johnson e gli propone di indirizzarla «ai rappresentanti del popolo degli Stati Uniti». L’altra obiezione riguarda «l’affermazione che la guerra è radicata nella natura umana». Sciascia gli chiede di fare questi due cambiamenti e di pubblicare l’appello sulle pagine del New York Times a pagamento, come hanno fatto «certi gruppi dissidenti in America». L’atteggiamento dello scrittore siciliano è decisamente critico verso l’America. Con una frase dura e a effetto dice: rivolgersi a Johnson, per far finire i bombardamenti americani, è come «se per far finire la mafia in Sicilia mi rivolgessi a Genco Russo», il capo mafioso legato alla Democrazia cristiana. Che la guerra in Vietnam abbia costituito la vera perdita dell’innocenza è evidente per la generazione cui appartiene Levi. Più della guerra in Corea, è questo avvenimento contestato dalla gioventù mondiale che costituisce un punto di svolta. Ne tornerà a parlare Levi più volte negli anni successivi insieme alla guerra in Algeria, alla repressione del dissenso in Urss, al Cile di Pinochet e all’Argentina dei generali, per arrivare al Sud Africa e all’auto- genocidio della Cambogia di Pol Pot. L’appello non uscirà. Scarpa riproduce anche una lettera di Natalia Ginzburg cui Levi aveva mandato il testo. La scrittrice risponde all’autore di Se questo è un uomo in modo diretto e con durezza, come sua abitudine. La seconda lettera del 5 dicembre 1984 di Levi a Sciascia riguarda la lettura di Occhio di capra(1984), libro dedicato a detti e proverbi siciliani, da cui ricava una domanda riguardante una parola che si pronunciava nel gioco da lui praticato da bambino, “nascondino”. Si ricorda di un grido, una misteriosa parola, “marsa”, che corrispondeva a “alimorta!”. “Marsa” in arabo è il porto, l’asilo, scrive; forse viene da Marsala. È quella l’origine? chiede a Sciascia. Come si diceva in Sicilia negli anni Venti? La risposta del 21 dicembre è interlocutoria: forse non è “marsa” ma “massa”; lui non sa e chiederà ai suoi coetanei di Racalmuto. La missiva contiene un passaggio amaro e pessimistico: «Per la vita che mi resta da vivere». Sciascia morirà cinque anni dopo aver lottato contro la malattia che l’affliggeva. Levi tornerà su questo tema dei giochi infantili più volte nella sua vita. In un testo, prima apparso su un quotidiano, poi in un libro, recensisce un volume di due coniugi inglesi sui giochi di strada e pone ai suoi lettori lo stesso interrogativo rivolto a Sciascia: come si chiama “tregua”? Si dice “marsa!” o in altro modo? Cosa si urlava in Sicilia? Come ha spiegato Stefano Bartezzaghi in uno dei capitoli di Scrittori giocatori, Levi possiede un profondo spirito ludico, ama i giochi, a partire da quelli linguistici, e la dimensione comica è ben presente nei suoi libri, cosa invece assente dalle pagine del barocco Sciascia, più volto al tragico, alla visione dolorosa dell’esistenza che è propria degli scrittori siciliani. Occhio di capra inizia con un modo di dire: «Abbrusciatu vivo come a Caleddru», «bruciato vivo come Caleddru » sia in senso effettivo che figurato: la maledicenza, la diffamazione. Non è tutto così, ma questo aspetto dolente è molto forte. Due caratteri diversi e antitetici. A chi verrebbe in mente di scrivere a un altro scrittore per domandargli il significato d’un antico gioco d’infanzia? In Primo Levi vive un carattere infantile, nel senso positivo della parola: semplice, ingenuo, innocente. La sua infanzia, di cui ha parlato molto, è piena di tonalità allegre e curiose, le stesse che si leggono tra le righe di tutti i suoi libri, anche quelli più scuri e drammatici.


 


UNA PAGINA DI MARIO PINTACUDA TRATTA DAL VOLUME FRESCO DI STAMPA "CAMILLERIADE"

 






IL PICCOLO MONTALBANO E IL GIORNO DEI MORTI

Nel romanzo "Riccardino", pubblicato postumo nel 2020 e scritto da Andrea Camilleri nel 2005 con l’intento dichiarato di farne l’epilogo della storia di Montalbano, l’autore introduce una splendida digressione che ricorda un episodio dell’infanzia del commissario.
Nel brano viene ricordata la tipica usanza siciliana di far trovare ai bambini, la mattina del 2 novembre, dei regali che si dicono portati nottetempo dai defunti.
Il piccolo Salvo Montalbano aveva da poco perso la sua mamma, morta prematuramente, ed era stato affidato dal padre a una coppia di zii senza figli, che vivevano in un altro paese.
Il primo di novembre il padre di Salvo viene a trovarlo e lo sveglia, con grande gioia del bambino (che a distanza di tanti anni ricorda ancora con profonda emozione quel momento): «La matina del jorno avanti a quello dei morti era arrivato sò patre che lui era ancora addrummisciuto. La filicità d’essiri arrisbigliato da ‘u papà! A cinquant’anni di distanzia l’emozioni di quel risveglio se la portava ancora appresso, ancora risintiva quella gioia accussì intensa d’addivintari dulurosa quanto a ‘na firuta».
Il padre comunica al bambino che l’indomani andranno al cimitero a far visita alla mamma e gli spiega che, nella notte fra l’uno e il due novembre, i morti scendono dal cielo e portano regali ai bambini buoni, riempiendo un canestro di giocattoli e di dolci (“cosi duci”). Chiede allora al piccolo quale regalo spera di ricevere dalla mamma («a portare i regali non potiva essiri che lei»). E Salvo risponde senza esitazioni: «Un triciclo».
Il bambino aspetta dunque la notte, sperando di poter rivedere la sua mamma, di cui ha solo un vago e luminoso ricordo: «‘na speci di luci biunna ‘n movimento, come le spiche di frumento quanno supra ci batte il soli». Allora si chiede, disperato, perché sia capitato proprio a lui di perdere la madre; e non gli basta la vaga consolazione della zia, che gli dice che quella era stata la volontà di Dio (“‘u Signuruzzu aviva addiciduto accussì”).
Salvuccio però decide di restare sveglio, fingendo di dormire, per poter rivedere, anche solo per un istante, la sua mamma: «Giurò che l’occasioni di quella notti non l’avrebbi perduta. Finalmente avrebbi potuto vidiri ‘a mamà, s’appromittì di ristari vigliante. Non provava scanto. Che scanto ti pò fari ‘na morta se è tò matre? Lo pigliò però un pinsero: se ‘a mamà s’addunava che lui non era ancora addrummisciuto, capace che si nni tornava novamenti ‘n celo senza farisi vidiri da lui. Abbisognava perciò fari finta di dormire, come ai gatti che pari che tenno l’occhi chiusi e invece contano le stiddre».
Il bambino, però, è troppo piccolo e il tentativo di restare sveglio fallisce miseramente: «Arrisistì tanticchia con l’occhi a pampineddra e di colpo, senza addunarisinni, calumò nel sonno».
L’indomani mattina, al risveglio, il piccolo trova un grande canestro che contiene «un triciclo russo fiammanti, tutto circunnato da cosi duci: frutti che parevano veri fatti di pasta reali, rami di meli, mustazzola di vino cotto, carcagnette, tetù , viscotti regina. E c’era macari un pupo di zuccaro che arrapprisintava un bersaglieri».
Al cimitero il bambino va con il triciclo; e pedala felice per i vialetti, incontrando tanti altri bambini che giocano come lui con i regali “dei Morti”: «Mentri che i granni pregavano davanti alla tomba d’a mamà, si misi a curriri col triciclo nei vialetti del camposanto chini di genti e ‘ncontrò a ‘na quantità di picciliddri come a lui che jocavano coi regali che gli avivano portato i morti: monopattini, atomobili a pedali, trenini, fucili, aeroplanini, bambole. E si chiamavano, arridevano, si passavano di mano i regali, cangianno il jorno dei morti in un jorno di festa. Lui no, lui pedalava e arripitiva: “Grazie, mamà, grazie, mamà...”. E gli viniva di chiangiri e di ridiri».
Colpisce, in questo bellissimo episodio, l’estrema delicatezza nella descrizione della psicologia del bambino, che ha subìto una terribile disgrazia e si rivela sensibile e bisognoso d’affetto; al tempo stesso, emerge da qui la remota spiegazione di tante caratteristiche del futuro commissario: la solitudine connaturata nella sua esistenza, l’abitudine alla riflessione, l’estrema sensibilità, la determinazione ma anche la fragilità.
Se Riccardino voleva essere una sorta di “testamento” camilleriano, brani come questo contribuiscono indubbiamente a caricare di una sorta di aura “mitica” la storia di Montalbano, risultando al tempo stesso una commossa testimonianza su un’antica usanza tradizionale siciliana così suggestiva. Contestualmente, direi, si fa giustizia di tanti giudizi frettolosi su Camilleri, ritenuto spesso, a torto, autore “facile”, superficiale e ripetitivo.
E basterebbero quelle due righe che descrivono il bambino impazzito di gioia, che gira per il cimitero con il suo triciclo, ringraziando la sua mamma perduta, piangendo e ridendo al tempo stesso, per fare di Camilleri l’autore straordinario che è.

MARIO PIANTACUDA

P.S.: Per questo episodio, rinvio al volume “Camilleriade”, da me scritto con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio, ed. Diogene Multimedia, pp. 129-131.

SUSAN SONTAG E' TUTTA DA RILEGGERE

 








Benjamin Moser, Sontag, Una vita, Rizzoli, 704 pp.


Una biografia della grande scrittrice, filosofa, saggista americana (1933-2004) pubblicata negli Stati Uniti nel 2020 e ora tradotta in italiano da Rosa Prencipe e Lucila Rondinò.
Moser non si limita alla parte della vita che riguarda la scrittura e l’analisi filosofica ma si occupa degli affetti e a quella che la Lettura definisce “il rapporto sofferto con la propria omosessualità“.

Alla biografia aggiungo anche la segnalazione della riedizione italiana delle opere di Sontag che dobbiamo a Nottetempo. Ora esce Sotto il segno di Saturno, 216 pp. È una raccolta di saggi pubblicata in volume nel 1980 raccogliendo alcuni interventi usciti sulla New York Review of Books e un altro testo/ritratti di Antonin Artaud uscito sul New Yorker. Come scrive Emanuele Trevi su La Lettura (29 ottobre 2023), al di là dei soggetti trattatti, l’argomento centrale del libro è la malinconia.
Argomento, ci ricorda Trevi, presente in molti libri importanti del XX secolo, fra i quali, Gli anelli di SaturnoAdelphi, bellissimo lavoro – fra romanzo, saggio, memoir, riflessione filosofica – di  W.G. Sebald (amatissimo da questo modesto presidio della condivisione culturale). 
Per chi volesse leggere Sontag nell’originale inglese, qui trova il saggio su Walter Benjamin, incluso in Sotto il segno di Saturno; qui quello su Elias Canetti.


29 ottobre 2023

LA BANCA D' ITALIA E L' AUTONOMIA DIFFERENZIATA

 



La Banca d’Italia e

 l’autonomia differenziata

di Filippo Veltri

Il Governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco ha scritto una lettera al prof Sabino Cassese sui lavori della Commissione istituita dal Ministro competente per la definizione dei Livelli effettivi di prestazione (Lep).

Come è ormai noto i Lep sono considerati un passaggio indispensabile per arrivare a decidere in materia di autonomia regionale differenziata e la lettera di Visco è un potenziale siluro alla discussione in corso al Senato sul disegno di legge di legge Calderoli. Ma a questa posizione esplicita e argomentata non è stato dato dagli organi di informazione il peso che ha. Del resto le guerre in corso hanno ormai preso il sopravvento su tutto.

Per questo vale la pena di farne comprendere l’importanza. La lettera è argomentata e richiama l’attenzione su una operazione politica che rischia di creare seri problemi per la finanza pubblica, senza che il parlamento sia stato messo in condizione di pronunciarsi sulle scelte da fare. In sostanza si rischia un furto con destrezza di denari pubblici senza alcuna decisione parlamentare, con conseguenze imprevedibili su rating e spread.

Se stiamo alla Nadef che il Governo ha fatto approvare dal parlamento non ci sono risorse previste per l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione che prevede che vi siano interventi di riequilibrio a favore delle regioni e delle aree del nostro paese che hanno meno risorse e meno servizi, quindi che non sono in grado di garantire diritti costituzionali fondamentali agli stessi livelli di altre aree del paese che dovrebbero invece essere uniformi. La norma del Ddl Calderoli che esclude nuovi oneri per lo Stato dovrebbe portare a togliere l’aggancio alla legge di bilancio, che è palesemente finto, infatti se una legge non ha oneri (o risparmi) come può essere una legge collegata a quella di bilancio ?

Proprio questo collegamento con la legge di bilancio porta altri argomenti alle osservazioni della Banca d’Italia che infatti afferma che “le relazioni finanziarie tra Stato e regioni e gli strumenti di finanziamento delle prestazioni (debbono essere) definiti in modo trasparente, efficiente e coerente”.

Queste affermazioni chiamano in causa direttamente non solo il Ministro dell’Economia che non può continuare a fare come le 3 scimmiette e che giustamente la Commissione affari costituzionali del Senato ha convocato per avere la sua opinione ma anche l’insieme del Governo che ha lasciato Calderoli andare fin troppo avanti e che ora dovrebbe semplicemente bloccare l’esame del progetto per consentire un ripensamento di fondo. Ad esempio non è accettabile che la commissione Cassese in sostanza rinvii alla “Commissione tecnica fabbisogni standard” l’assorbimento delle funzioni di definizione, rendicontazione e verifica delle prestazioni prestate, quindi una commissione che rinvia ad un’altra commissione, con conseguenti difficoltà a controllare le spese ma anche e soprattutto i diritti che verranno effettivamente garantiti.

La lettera del Governatore entra nel merito di diversi capitoli: sicurezza del lavoro i cui Lep sono definiti spesso generici; istruzione, anche in questo caso Lep generici e viene sollevato, ad esempio, il rapporto tra Pnrr e tempo pieno, per non parlare del personale di cui viene ricordato che alcune regioni rivendicano dimensionamento ed aspetti retributivi; tutela e valorizzazione dei beni culturali da cui si evince con chiarezza che i vincoli di uniformità assoluta servono in realtà a togliere il vincolo dei Lep da rispettare; tutela della salute; ordinamento sportivo; porti e aeroporti e grandi reti di trasporto e navigazione; punti che per brevità elenco soltanto.

Quello che si comprende è che la definizione del Lep in realtà è un’operazione sostanzialmente finta, per arrivarci seriamente sarebbe necessario ben altro tempo da quello annunciato da Cassese, fine ottobre, e quindi in realtà le questioni vengono risolte o con generiche definizioni e con rinvii della definizione del merito alle Commissioni tecniche che sono una sorta di circolazione extra corporea e ed extra istituzionale. Questo per consentire alle Regioni di procedere anche in assenza di Lep o con Lep che sono tali solo nel titolo, ma non contengono vincoli reali di prestazione e poi per lasciare ai tecnici delle regioni di concordare direttamente con i tecnici del governo soldi e poteri da trasferire.

In altre parole siamo arrivati di nuovo al nodo denunciato da tempo. Ciò che interessa Calderoli è garantire comunque alle regioni (ben note) di ottenere i poteri e le funzioni, ottenendo l’assegno dello Stato per quanto le riguarda e lasciando le altre regioni nella situazione attuale, in attesa di risorse che non ci sono e non arriveranno, alla faccia del regionalismo solidale. Come si possa riuscire a dare più risorse ad alcune regioni senza sottrarle alle altre e per di più ad invarianza complessiva di spesa è un vero mistero. Anzi non lo è, è chiarissimo che alcune regioni si approprierebbero di più risorse e altre ne soffrirebbero, visto che risorse aggiuntive non ci sono.

Il Governatore offre a tutti l’occasione per comprendere la posta in gioco e di trarne le conseguenze. Del resto questo allarme viene dopo quello dell’Ufficio parlamentare di bilancio e le dimissioni di Amato, Bassanini ed altri dalla Commissione sui Lep sostanzialmente per i motivi ripresi dal Governatore.

Vale la pena di leggere la lettera del Governatore e ricavarne la conseguenza che il percorso parlamentare del Ddl Calderoli va fermato e si deve tornare ad una riflessione più di fondo ridando al parlamento il ruolo decisionale centrale che deve avere, togliendo di mezzo l’intesa tra singola regione e governo, ridando alla legge il ruolo di affidare e togliere poteri, se necessario, definendo effettivi standard nazionali di diritti che tutti i cittadini debbono avere garantiti in modo uniforme, senza subire discriminazione per il codice postale.

Inoltre siamo vicini al tempo previsto per portare in aula al Senato il disegno di legge costituzionale popolare su cui sono state raccolte 106.000 firme con l’obiettivo di fare vivere la richiesta di discutere le modifiche degli articoli 116 c.3 e 117, perché prima di pensare alla legge ordinaria, come è il Ddl Calderoli, occorre chiarire quale sarà il testo della Costituzione che come sappiamo ha bisogno di essere modificata come abbiamo indicato.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 ottobre 2023

Gruppo 63 e la "Scuola di Palermo"

 


L' OBBEDIENZA NON E' PIU' UNA VIRTU'

 


28 ottobre 2023

H. MARCUSE SULL' OSCENITA'

 


immagine presa dalla rete


L' oscenità è un concetto morale che appartiene all'arsenale verbale dell'establishment...
Oscena non è la foto di una donna nuda che mostra il pelo del pube, bensì quella di un generale vestito di tutto punto che sfoggia le medaglie delle sue guerre in giro per il mondo.


Herbert Marcuse


ANTICA SAGGEZZA POPOLARE

 


27 ottobre 2023

C.E. GADDA INVITA AD ESERCITARE LO SPIRITO CRITICO

 



"La cosiddetta «civiltà contemporanea» ha reso inetti i cervelli di miliardi di uomini a esercitare la benché minima funzione critica nei confronti della carta stampata, del proprio giornale in ispecie. Davanti il su’ giornale, uomo gli è come passero, passero ipnotizzato dal serpente. Quello magari mente a tutto ispiano, con lingua e fronte di consumata e leccativa meretrice, di provocatore, di ruffiano, di ladro, di affiliato a bande assassine, e di lor zelante e trasudata spia. Ma «io sono il tuo giornale e tu non avrai altro giornale avanti di me»."

Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo

LA POTENZA DEI MASS MEDIA

 


Vedrai solo ciò vogliono loro!

CALVINO FAVOLOSO ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE

 


FAVOLOSO CALVINO, LA MOSTRA ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE

Tra i tanti pregi che possiede “Favoloso Calvino”, la mostra in corso alle Scuderie del Quirinale per celebrare il centenario dalla nascita dello scrittore, quello che ho trovato il più clamoroso è il fatto di consentire un viaggio a più livelli dentro il concetto di genio. Fino a poterlo quasi toccare con mano. La (ri)scoperta visiva e tattile – sensoriale come può esserlo una mostra ben riuscita – di una mente vivacissima e multidimensionale, vorace e curiosa, elegante e innovativa, tra le migliori che sia possibile frequentare. Tutto questo mentre di sala in sala, attraverso pagine scritte, fotografie, dipinti, sculture, note e incisioni scorre il Novecento; nella sua versione migliore, quella emersa dopo la sconfitta del nazifascismo, con tutta l’aria fresca che si levò dal ’45 in avanti.

Sulla scelta dell’aggettivo da apporre a “Calvino”, favoloso, c’è poco da discutere. La fiaba, il fantastico, la favola, gli artifici e le magie – fino ai tarocchi – sono i contrassegni più evidenti di tutta una vita dedicata alla scrittura. «Fabulous Calvino: questo il titolo dell’articolo di Gore Vidal apparso sulla “New York Revivew of Books” del 30 maggio 1974, a breve distanza dall’uscita delle Città invisibili tradotte da William Weaver, che rappresenta un momento decisivo nella ricezione di Calvino in America. […] Favoloso Calvino. Calvino straordinario, certo: lo hanno decretato milioni di lettori, in Italia e nel mondo. E Calvino favolista e cultore del meraviglioso, ma anche scrittore capace di far interagire l’osservazione e la fantasia, l’attenzione alla realtà e la trasfigurazione fiabesca», scrive Mario Barenghi, curatore della mostra, nel saggio introduttivo al catalogo, disponibile con le edizioni Electa.

Tutto inizia a Santiago de las Vegas. Uno scatto del 1924 ritrae un piccolissimo Italo – visse a Cuba soltanto i primi due anni di vita – tra il padre Mario e la madre Eva Mameli. Entrambi i genitori si occupano di piante; la madre è una botanica, mentre il padre lavora come agronomo specializzato in coltivazioni tropicali, viaggiando tra il Messico e il Nordafrica. «Il sapere dei miei genitori convergeva sul regno vegetale, le sue meraviglie e virtù. Io, attratto da un’altra vegetazione, quella delle frasi scritte, voltai le spalle a quanto essi m’avrebbero potuto insegnare; ma la sapienza dell’umano mi restò ugualmente estranea», raccontò Italo Calvino nel 1980. Eppure, curiosamente, qua e là nei pannelli del percorso espositivo capita di cogliere nelle frasi di Calvino più di un riferimento a quel mondo vegetale al quale voltò le spalle, in un legame ora consapevole ora inconscio.

Ai manoscritti, alle prime edizioni e agli oggetti direttamente riconducibili all’autore, Favoloso Calvino aggiunge una quantità di opere altre, legate a Calvino per intenti dichiarati – rimandi ai suoi testi, o ispirazioni per le sue storie – o per giustapposizione sinestetica, ma mai artificiosa. Ecco così tra le oltre duecento opere esposte un magnifico arazzo cinquecentesco di fattura franco-fiamminga, l’arazzo millefiori di Pistoia, un trionfo di natura e fate, creature animali e vegetali, per sostenere con lo sguardo la scrittura del Calvino fiabesco. O le incisioni di Albercht Dürer, citate direttamente nell’Album Calvino, riferimento alla duplice rappresentazione di San Girolamo. Studioso contro eremita, ma in un «deserto per modo di dire perché spesso si vede una città che spunta in fondo al quadro, come una famosa incisione di Dürer. Ma forse questo è il vero modo in cui essere eremiti ha un senso, trovare la propria solitudine senza staccarsi troppo dalla vita degli altri, creare una distanza che può essere la vera vicinanza», scrisse Calvino nell’Album.

I ritratti che Carlo Levi fece di Calvino, dal 1959 al 1965, ogni anno mostrando un volto diverso. Miniature del Quattrocento e le fotografie di Luigi Ghirri.  Tantissima arte contemporanea, dalle sculture di Fausto Melotti ai dipinti Giorgio De Chirico. In un paesaggio così fitto di suggestioni, l’orientamento può apparire complesso; e invece è sorprendentemente naturale. Lo noti nello sguardo dei visitatori, occhi che abbracciano quanto vedono, riconoscendosi, aggiungendo nuove configurazioni, scrutando e annuendo. Scene immagazzinate e ricreate, o scaturite dalla profonda e incontenibile immaginazione dello scrittore: Favoloso Calvino è un gioco di specchi tra parola e visione, e a noi spettatori sta capire chi è nata prima.

«Milioni di lettori in Italia e nel mondo», scrive Barenghi nel saggio introduttivo, ed ecco l’altro pregio di Favoloso Calvino: fa capire quanto uno scrittore possa essere sfidante, complesso, avanguardista, sperimentale, e al tempo stesso popolarissimo. Ora, davanti a tutta questa popolarità è possibile che ci sia chi nel corso del tempo abbia storto il proverbiale naso. Accade che alcuni scrittori abbiano il dono di essere comprensibili e ben ricevuti dal pubblico; incredibile. Dopodiché questa ricezione va declinata secondo canali diversi: esiste un pubblico che conosce solo e soltanto il Calvino dei Nostri antenati o delle Lezioni americane, e in effetti chi la sa lunga ha riempito il bookshop delle Scuderie con borse e gadget che citano proprio le Lezioni. Ma: prima di tutto: già va bene così, che esiste una quota di lettori che conoscano/abbiano letto Calvino; che si siano fermati al Barone rampante o alla Leggerezza, va bene, e sto. Siamo lo stesso Paese che periodicamente si lamenta di una quota di lettori tremendamente ridotta. A mostre come Favoloso Calvino, poi, sta il compito di restituire tutto il prisma, i dettagli dello spettro, la misura del genio nella sua completezza.

Pezzo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/favoloso-calvino-la-mostra-alle-scuderie-del-quirinale/