“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 gennaio 2024
N. HIKMET CI RICORDA CHE LA VITA NON E' UNO SCHERZO
JORGE DEBRAVO, L' amore è il miglior sacramento
L’uomo non è
nato
per tenere le
mani
legate al palo
delle preghiere
Dio non vuole
ginocchia umiliate
nelle chiese
ma gambe di
fuoco al galoppo,
mani che
accarezzano le viscere del ferro,
menti che
partoriscono brace,
labbra che si
fanno bacio.
Dico che io
lavoro,
vivo, penso,
e che tutto
ciò è una buona preghiera,
che a Dio
piace molto
e ne rispondo.
E dico che è
l’amore
il miglior
sacramento,
che vi amo,
che amo
e che non ho
un posto all’inferno.
Jorge Debravo
31 gennaio
1938
LA RIVOLTA DEGLI AGRICOLTORI
Cresce la rabbia degli agricoltori
Il rifiuto degli accordi di libero scambio e la richiesta di un reddito dignitoso sono alla base delle mobilitazioni degli agricoltori in Europa. Il Coordinamento europeo della Via Campesina chiede un cambiamento radicale sulla direzione delle politiche agricole e alimentari
In Germania, Francia, Polonia, Romania, Belgio e oltre, stiamo assistendo a un numero sempre maggiore di agricoltori che scendono in piazza. I bassi redditi e la mancanza di prospettive future per la grande maggioranza degli agricoltori sono alla base di questo malcontento, che è in gran parte legato alle politiche neoliberiste che l’Unione Europea ha perseguito per decenni.
Come European Coordination Via Campesina (ECVC) chiediamo che queste proteste vengano prese sul serio e che si lavori per un cambio di direzione delle politiche agricole e alimentari europee: è ora di porre fine agli accordi di libero scambio e di imboccare la strada della sovranità alimentare.
Nelle ultime settimane, massicce manifestazioni di agricoltori hanno occupato le strade di Germania, Francia e altri Paesi europei. Su molti agricoltori grava il peso delle politiche neoliberali che impediscono di fissare prezzi giusti. I debiti e i carichi di lavoro si alzano vertiginosamente, mentre i redditi agricoli crollano.
Gli agricoltori europei hanno bisogno di risposte concrete ai loro problemi, non di fumo negli occhi. Chiediamo la fine immediata dei negoziati sull’accordo di libero scambio con il Mercosur e una moratoria su tutti gli altri accordi di libero scambio attualmente in fase di negoziazione. Chiediamo l’effettiva attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali e il divieto a livello europeo di vendere al di sotto dei costi di produzione, utilizzando come esempio quanto sviluppato dallo Stato spagnolo nella sua legge sulle filiere agroalimentari. I prezzi pagati agli agricoltori devono coprire i costi di produzione e garantire un reddito dignitoso. I nostri redditi dipendono dai prezzi agricoli ed è inaccettabile che questi siano soggetti a speculazioni finanziarie.
Chiediamo quindi una politica agricola basata sulla regolamentazione del mercato, con prezzi che coprano i costi di produzione e la gestione di scorte pubbliche di derrate. Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della PAC vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. Tutti gli agricoltori già impegnati e che vogliono impegnarsi in processi di transizione verso un modello agroecologico devono essere sostenuti e accompagnati nel lungo periodo. È inaccettabile che nell’attuale PAC la minoranza di aziende agricole più grandi monopolizzi centinaia di migliaia di euro di aiuti pubblici, mentre la maggioranza degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo le briciole.
Siamo preoccupati dei tentativi dell’estrema destra di sfruttare questa rabbia e le varie mobilitazioni per promuovere la loro agenda, negando il cambiamento climatico, chiedendo standard ambientali più bassi e puntando il dito contro i lavoratori migranti nelle aree rurali. Non sono queste le cause del disagio, e non contribuiranno a migliorare le condizioni degli agricoltori.
Il coordinamento ECVC invita i rappresentanti politici europei ad agire rapidamente per rispondere alla rabbia e alle preoccupazioni degli agricoltori. È necessario un autentico cambiamento nelle politiche agricole, che metta gli agricoltori al centro e garantisca prospettive per il futuro. ECVC ha già proposto soluzioni reali a questa crisi, descritte nel nostro
Manifesto per la transizione agricola per affrontare la crisi climatica sistemica
30 gennaio 2024
RINO MAROTTA , L' ECONOMIA E' POLITICA
Propongo oggi un'agile recensione di due importanti libri di economia-politica che aiutano a capire quello che è accaduto in Italia e nel mondo negli ultimi anni. (fv)
Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti
hanno aperto la strada al fascismo – Einaudi 2023
Clara E. Mattei, L’economia
è politica. Tutto quello che non vediamo dell’economia e che nessuno racconta
– Fuoriscena 2023
La
Professoressa Chiara E. Mattei che
insegna economia alla New School for Social Research di New York è una
talentuosa ricercatrice che ha scritto un importante saggio – The capital
order- pubblicato negli USA nel 2022 e tradotto in italiano e pubblicato da
Einaudi nel 2023 con una copertina e un titolo assai discutibili: infatti la
prima, che rappresenta due mani che spezzano un pane circonfuso di luce, fa
pensare a un libro di una setta di ispirazione paleocristiana, il secondo
– Operazione austerità - al noto film con Gary Grant – Operazione
sottoveste -, potenza delle direzioni
editoriali che sanno di marketing.
A dispetto di tutto ciò, la ricerca che viene
condotta va alle radici della austerità, rintracciate negli anni Venti del
secolo scorso nelle iniziative di alcuni alti funzionari governativi dei
dicasteri economici britannici e, come viene detto nel sottotitolo, dagli
economisti, in particolare italiani, che hanno aperto la strada al fascismo.
Dopo la rivoluzione del 1917 e la Grande guerra, le aspettative dei lavoratori,
organizzati nei sindacati e nei partiti di classe, andavano nella direzione di
un miglioramento delle proprie condizioni materiali di vita e, soprattutto,
nella compartecipazione alle scelte economiche e politiche nei rispettivi
paesi. Le forze del capitale reagirono imponendo l’austerità, una politica
economica volta a disciplinare i lavoratori costringendoli a consumare di meno
e a produrre di più, garantendo, al contempo, adeguati livelli di profitto e
permettendo al sistema di mantenersi. Questa semplice ricetta ha funzionato
bene nei paesi di più antica democrazia parlamentare, in cui i partiti dei
lavoratori erano su posizioni riformiste, meno bene nei paesi come l’Italia con
forze del lavoro orientate in senso rivoluzionario, che hanno tentato di farsi
valere con l’occupazione delle fabbriche, per le quali è stata necessaria anche
la dura repressione fascista. L’austerità ha continuato ad essere durante il
regime fascista la stella polare della economia, ne sono la dimostrazione: la
difesa della lira con il conseguente aumento del costo del denaro e
l’abbattimento dei consumi interni, le privatizzazioni delle industrie in
difficoltà pagate col denaro pubblico per rimborsare gli imprenditori, i tagli
sistematici dei salari dei dipendenti pubblici e privati. Tale indirizzo di
politica economica non è venuto meno nemmeno dopo il secondo conflitto mondiale
e arriva fino a noi con i cosiddetti tecnocrati, cioè esperti di austerità,
come Andreatta, Ciampi, Dini, Monti, Fornero, Draghi, a cui la politica si
affida, in nome della economia pura, quando non riesce a contrastare
efficacemente le richieste dei lavoratori organizzati. Provvedimenti come l’aumento
del tasso di sconto, l’autonomia della Banca d’Italia, il taglio della scala
mobile, le privatizzazioni, i rapporti di lavoro flessibili e precari, licenziamenti
più facili, salari bloccati, aumento della disoccupazione, jobs act, pareggio
del bilancio in Costituzione, tagli delle risorse per lo stato sociale, in
particolare per scuola e sanità, sono la dimostrazione che l’austerità è più
che mai in auge. Il risultato è una insostenibile sperequazione sociale con
ricchi sempre più ricchi e poveri in aumento e sempre più poveri anche se
lavorano.
La
professoressa Mattei, nel suo lavoro documentatissimo, pieno di passione e
frutto di molti anni di fatica, dimostra di avere assimilato il meglio della
tradizione storicistica italiana e, in special modo, la lezione di Gramsci, di
cui riprende il rapporto tra sovrastruttura e struttura, con riferimento alla
economia ritenuta scienza esatta che impone l’austerità come necessità naturale
a vantaggio di tutti. Lo smascheramento di tale falsità diventata, ahinoi, una
vulgata largamente condivisa, è il merito grandissimo del saggio e dell’Autrice.
Gli stessi temi, appena esposti per sommi capi,
sono oggetto del secondo saggio, indicato nell’intestazione e scritto
direttamente in italiano, che risulta più agile e che rivela un chiaro intento
divulgativo.
Palermo 29 gennaio 2024
Rino Marotta
LA PEDAGOGIA DI FRANCO FORTINI
[E’ uscito da poco per Quodlibet Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università, di Lorenzo Tommasini. Ne proponiamo l’introduzione, seguita da un paragrafo sulla relazione tra didattica e autorità nel pensiero di Fortini].
Maestro non è chi sempre insegna,
ma chi d’improvviso apprende
L’attività didattica di Franco Fortini, prima nella scuola secondaria e poi all’università, copre un periodo che va dal 1964 al 1986 e che successivamente prosegue, con varie collaborazioni, almeno fino al 1989.
Si tratta dunque di un’esperienza che occupa una parte piuttosto estesa e intellettualmente intensa della vita di Fortini. In questo periodo infatti vengono pubblicati saggi rilevanti come quelli raccolti in Questioni di frontiera o in Insistenze e vengono date alle stampe importanti sillogi poetiche. Inoltre, la pratica dell’insegnamento lo mette a contatto con le giovani generazioni negli anni chiave dello sviluppo del movimento studentesco e della contestazione, prima nel Sessantotto e poi nel Settantasette, consentendogli un punto di osservazione privilegiato che rende possibile un tentativo di azione educativa presso i giovani che non gli sarebbe stato possibile in un’altra posizione.[1]
Ci troviamo dunque davanti ad un’esperienza che ha una grande importanza sia considerata in sé che messa in relazione con la coeva produzione e con la più generale riflessione sulla letteratura e la società. In particolare le esperienze saggistiche di questo periodo, se messe in relazione con le lezioni, mostrano una profonda organicità nei temi che può portar a ritenere gli appunti presi nelle occasioni didattiche come una sorta di prima elaborazione dei successivi articoli. Se si considera l’importanza della saggistica per Fortini, individuata come il luogo dove «il momento teorico e dialettico e l’intenzione politica»[2] si fondano reciprocamente e dove avviene la ricostruzione di «una eredità da riconquistare»,[3] si comprende altresì l’importanza capitale che viene ad assumere l’esperienza didattica per la definizione dell’esperienza intellettuale fortiniana nel suo complesso.
Non a caso il modo che Fortini aveva di insegnare la letteratura era tutt’uno con la sua esperienza di vita, sfociando spesso, come riconosce lui stesso, nell’«autobiografia». Così descrive l’atmosfera che si respirava a lezione uno dei suoi più stretti collaboratori durante gli anni dell’insegnamento:
Con Fortini non si aveva l’impressione che la politica fosse una pistolettata venuta a turbare […] l’ambiente protetto di una conversazione letteraria; la “sua” letteratura era da tempo preparata, non ad attutirla, non a restarne sconvolta, ma a riceverla con la massima attenzione e dignità.[4]
È quindi possibile cogliere l’importanza che le lezioni di Fortini hanno nella descrizione della sua parabola intellettuale. Nonostante ciò l’attività didattica di Fortini è rimasta, di solito, in secondo piano nei maggiori studi, in genere oggetto solo di qualche articolo[5] – pregevole ma necessariamente troppo sintetico per affrontare la complessità dell’intero argomento – e schiacciata dall’eco e dalla rilevanza della restante produzione saggistica e poetica, fino a veder misconosciuto il proprio valore.[6]
La consapevolezza dell’importanza di questo versante della produzione fortiniana e di uno studio che cominciasse ad esplorarla veniva però già espressa nell’introduzione al numero monografico che la rivista «Allegoria» gli dedicava all’indomani della morte, inserendola tra gli elementi necessari da approfondire per cogliere il profondo «nucleo di verità» che costituisce il maggior lascito di Fortini.
Dedicando a Fortini un fascicolo speciale […] abbiamo dunque cercato di ricostruire l’unità della sua ricerca e il senso del suo percorso, ponendo in risalto i vari aspetti della sua personalità, anche quelli meno studiati (per esempio, il suo rapporto con il cinema e con il mondo della scuola). Solo così potevamo cogliere il nucleo di verità che la sua esperienza contiene e contribuire a tramandarlo.[7]
Si può comprendere dunque l’intento che sta alla base del presente volume, cioè quello di studiare il materiale relativo ai corsi conservato presso l’Archivio Franco Fortini, tentandone un inquadramento all’interno dell’esperienza intellettuale fortiniana nella convinzione che ciò fosse utile e necessario per una miglior comprensione della sua figura umana e di studioso.
Per fare questo il volume è stato diviso in due parti. La prima presenta l’esperienza didattica di Fortini in rapporto alle sue riflessioni sull’eredità e la tradizione, a quelle sulla gioventù e l’autorità e a quelle sulla divulgazione e l’industria culturale cercando di metterne in luce i tratti peculiari. Vengono qui presentati e descritti i motivi per cui Fortini giunge all’insegnamento, le più importanti testimonianze dei suoi ex-allievi, le sue riflessioni sulle antologie, il confronto con altre esperienze didattiche e il senso degli incontri con un gruppo di studenti milanesi all’inizio degli anni Novanta.
La seconda parte invece prende in esame più direttamente le lezioni universitarie, cercando di delinearne l’andamento e di studiarne gli argomenti in relazione ai saggi coevi. Sono stati individuati tre percorsi tematici principali in cui è stata divisa l’esposizione: le riflessioni di critica e teoria della letteratura, nelle quali Fortini si confronta con Auerbach, Lukács, Adorno, Contini e altri studiosi e pensatori; il tema dell’“ordine” e del “disordine” che rappresenta la principale contrapposizione socio-culturale che percorre la fine dell’Ottocento e il Novecento attraverso le esperienze delle avanguardie, dei vociani, dei decadentisti, dei simbolisti e dei surrealisti; le lezioni sui classici nelle quali Fortini affronta autori capitali per la sua formazione e riflessione sulla letteratura come Dante, Manzoni, Tasso e Leopardi.
Infine, in appendice si è voluto dar conto della consistenza dei faldoni in cui sono conservati i materiali relativi ai corsi in modo da fornire un riferimento al lettore e una prima guida per un ulteriore approfondimento.
Note
[1] Cfr. Antonio Allegra e Lorenzo Giustolisi, Fortini, l’insegnamento e la formazione, in Dieci inverni senza Fortini. Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa, a cura di Luca Lenzini, Elisabetta Nencini e Felice Rappazzo, Quodlibet, Macerata 2006, p. 335.
[2] Francesca Menci, Dialettica e concezione figurale in Fortini, «L’ospite ingrato. Annuario del Centro Studi Franco Fortini», 3, 2000, p. 159.
[3] Luca Lenzini, Le parole della promessa, in SE, p. LIX.
[4] Giacomo Magrini, Modicum. Per Franco Fortini, «Paragone. Rivista mensile di arte figurativa e letteratura. Letteratura», XLV, n.s., 47-48, Ottobre-Dicembre 1994, p. 4.
[5] Tra i vari si segnalano almeno l’intervento di Antonio Allegra e Lorenzo Giustolisi appena citato, i due contributi di Emanuele Zinato, La battaglia per il «sapere comune»: Fortini e l’insegnamento in «Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura», VIII, 21-22, 1996, pp. 204-21 e Contro la dissipazione, per il sapere comune: Fortini e la didattica della letteratura, in Franco Fortini e le istituzioni letterarie, a cura di Gianni Turchetta e Edoardo Esposito, Ledizioni, Milano 2018 e la sezione Archivio in «L’ospite ingrato. Semestrale del Centro Studi Franco Fortini», VIII, 1, 2005, pp. 153-93 che contiene interessanti saggi e testimonianze.
[6] Una importante eccezione è la recente tesi di dottorato di Chiara Trebaiocchi, discussa nel maggio 2018 alla Harvard University dal titolo Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini. Tale lavoro si può consultare anche on-line all’indirizzo https://dash.harvard.edu/bitstream/handle/1/40050101/TREBAIOCCHI-DISSERTATION-2018.pdf?sequence=4&isAllowed=y.
[7] Ai lettori, «Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura», VIII, 21-22, 1996, p. 5.
*
Didattica e autorità
Un ulteriore documento coevo all’esperienza scolastica che non si può mancare di citare è il frammento Roversi, scuola, datato 1971 e incluso in Un giorno o l’altro, il diario pubblico fatto di frammenti editi ed inediti a cui Fortini lavorò a lungo e che infine venne pubblicato dopo la morte.[1] I temi principali toccati da questo testo sono due.
Il primo è la contraddizione insita nel ruolo sociale attribuito alla scuola a cui si chiede da una parte una formazione “spendibile” professionalmente, ma poi dall’altra si riconosce un fondamento legato all’idea di Bildung complessiva che si sottrae all’idea di impiego immediato e di profitto:
L’insegnamento non solo ha ma, secondo me, non può non avere e deve avere, un carattere (relativamente) astratto, ossia «intellettuale» e a verifica differita. Il giovane sentirà parlare nella scuola di amore, di politica e di lavoro prima di averne fatta esperienza. È chiaro che la quota di quella astrattezza o formalità intellettuale potrà variare; ma tendere ad abolirla equivale a voler abolire, insieme al momento dell’apprendimento, un’area che nella nostra società è momentaneamente sottratta alla produzione diretta a favore, certo, di una produzione differita ma che rimane simulacro prezioso di un tipo di lavoro sottratto ad un (immediato) profitto, a partire dal quale si può procedere verso un non-lavoro coatto o come altrimenti si voglia chiamare una più libera attività o lavoro volontario.[2]
Vale la pena notare che si tratta di una contraddizione esplicitata, sebbene in maniera meno approfondita, anche nello scritto Su un caso disciplinare,[3] a dimostrare la profonda organicità dei saggi di Fortini relativi alla pratica didattica che rende utile una loro lettura parallela.
Questa contrapposizione tra i due poli in cui si dibatte l’istituzione scolastica – quello della professionalizzazione e dello specialismo da una parte e quello della Bildung umanistica dall’altro – trova la sua rappresentazione nell’insegnamento dei processi di astrazione, su cui abbiamo già visto Fortini soffermarsi nel trattare la figura dell’intellettuale. La società capitalistica infatti, a chi deve svolgere determinati ruoli, richiede proprio l’acquisizione di alcuni livelli di astrazione, l’insegnamento dei quali delega alla scuola. Così avviene che l’apprendimento di tali processi mentali serva alla riproduzione della società presente, ma contemporaneamente anche alla «prassi sociale ossia alla modificazione della realtà sociale».[4] In questo senso, chi voglia cambiare lo stato di cose presente, non deve rifiutare l’astrazione in sé, bensì l’uso che ne viene fatto.[5] Per questo Fortini, come sostiene in un passo chiave, è convinto che «il riformismo sia, nell’ambito didattico, l’unica via ad esiti non riformisti».[6]
Il secondo tema del frammento è quello del rapporto con l’autorità, che abbiamo già trovato in Su un caso disciplinare. Infatti «la critica ai teorici della “descolarizzazione” […] si accompagna in Fortini alla distinzione fra “autorità” e “autoritarismo”».[7] Bisogna accettare «l’idea che esista una trasmissione da chi sa a chi non sa […] e questa trasmissione è – se non si ha paura delle parole – sempre fornita di autorità».[8]
Per l’epoca in cui sono stati composti, quella immediatamente post-sessantottesca, è bene collegare tali scritti con le istanze della contestazione e del movimento studentesco, con il quale, com’è risaputo – e come in parte s’è già visto – Fortini intrattiene un rapporto contrastante.[9] Da una parte infatti coglie l’importanza di alcune di esse – anche contro la condanna di altri intellettuali –[10] dall’altra se ne distacca profondamente, in particolare sulle tentate modalità di realizzazione.[11]
In particolare è possibile richiamare il celebre saggio su Il dissenso e l’autorità pubblicato, nella sua prima versione, nei «Quaderni piacentini» nel maggio 1968,[12] in cui Fortini avanza una serie di critiche al movimento studentesco perché, a suo dire, vive in maniera ingenua le parole d’ordine, le speranze e le mete della tradizione socialista.[13] Il principale rimprovero è il mancato riconoscimento della distinzione tra autoritarismo e autorità. «La lotta contro l’autoritarismo è positiva e va estesa ed intensificata nei fatti» – dice Fortini –, ma «oltre l’autoritarismo c’è l’autorità».
Mi pare che l’autorità […] si dia nella misura in cui tra due momenti della medesima persona, due persone diverse, due pensieri, due gruppi umani si realizza un consenso circa un ordine o gerarchia di valori. […] Autoritarismo è invece l’insieme dei modi con i quali si impone una data gerarchia di valori. L’autorità accettata è sempre stata imposta? Sì, dalla forza del padre, del maestro, del signore, eccetera; ma solo fino a quando, contestata, non viene sostituita da un’altra autorità, quella che si è venuta a costituendo nel corso della contestazione e che è l’altro nome della libertà.[14]
Quello che è necessario avere è, dunque, una meta, uno scopo, una «prospettiva» pubblica che sia in grado di indirizzare la contestazione all’autoritarismo. Bisogna essere capaci di dare il proprio «assenso», di riconoscere e scegliere un’autorità, per andare oltre l’apparente disuguaglianza e chiedere «l’uguaglianza delle conclusioni», cioè la «massima omogeneità dei destini e dei comportamenti come conseguenza della loro massima integrazione».[15]
Note
[1] Franco Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, Quodlibet, Macerata 2006. Il frammento Roversi, scuola si trova alle pp. 434-39.
[2] Ivi, pp. 437-38. I corsivi sono nel testo.
[3] «La scuola nella quale vivete non vi dà quasi nulla di quello di cui avete bisogno e diritto: vi costringe a orari e trasporti bestiali, non vi dà la mensa promessa, non la palestra efficiente, non il “tempo pieno”, non un insegnamento adeguato, divisa com’è fra aspetto formativo e aspetto professionale» (Franco Fortini, Su un caso disciplinare, cit., p. 163; corsivi miei).
[4] Franco Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 438. I corsivi sono nel testo.
[5] Si noti anche qui la convergenza di queste riflessioni con quelle di Intellettuali, ruolo e funzione in cui proprio su tale base argomentativa si rifiuta l’idea del “suicidio” degli intellettuali.
[6] Franco Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 439. I corsivi sono nel testo.
[7] Donatello Santarone, La dimensione educativa in Fortini, cit., p. 173.
[8] Franco Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 437. I corsivi sono nel testo.
[9] Per un primo inquadramento del rapporto tra Fortini e il Sessantotto si rimanda a Felice Rappazzo, Fortini e la cultura del Sessantotto, «Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura», VIII, 21-22, 1996.
[10] Tra tutti, il caso più noto è – ovviamente – quello di Pasolini, con cui Fortini polemizza in vari momenti. Tra questi il più significativo è probabilmente rappresentato dalla nota Contro gli studenti raccolta sotto il titolo di Tre scritti su Pasolini in Questioni di frontiera (QF, pp. 254-57).
[11] È possibile provare a ridurre in una estrema sintesi l’argomento: «Senza pregiudicare il giusto studio […] del rapporto diretto tra Fortini e il movimento del Sessantotto, qui voglio mettere in evidenza ciò che lo separava, non tanto da quel movimento, quanto dalle sue ricadute più funeste. Esse sono due: l’astrattezza ideologica, e l’ascetismo rivoluzionario, già in se stesso mistificatorio» (Giacomo Magrini, Modicum. Per Franco Fortini, cit., p. 4).
[12] Franco Fortini, Il dissenso e l’autorità, «Quaderni piacentini», VII, 34, maggio 1968, pp. 91-100; poi in QF, pp. 53-67 ed infine in SE, pp. 1409-25. Le citazioni sono da quest’ultima edizione.
[13] «Nulla esprime meglio la catastrofe della generazione che oggi è fra i quaranta e cinquant’anni: i giovani pronunciano le mete della rivoluzione socialista ignorandone i principi, sono più vicini agli utopisti che a Lenin. Non sanno; e dovranno imparare con pena» (ivi, p. 1411). Per un giudizio su queste posizioni, sembra equilibrata la sintesi di Felice Rappazzo: «Fortini sembra scrivere non di una materia bruciante e attualissima, non di una situazione in continua evoluzione, ma di temi generali di comportamento. Sta qui la forza paradossale dell’articolo: esso è lungimirante e profetico, coglie un fenomeno, sia pur di vasta portata, nella sua ripetitività storica, rivela i déjà vu; e, per di più, protegge i giovani dalla tentazione del “giovanilismo”; eppure dimostra, nello spazio immediato della cronaca, misconoscimento e incomprensione per le ragioni del movimento degli studenti, e non è privo di una punta di paternalismo» (Felice Rappazzo, Fortini e la cultura del Sessantotto, cit., p. 152).
[14] Franco Fortini, Il dissenso e l’autorità, cit., p. 1415.
[15] Ivi, pp. 1415-16.
Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=48551
LUCIO DALLA E ROBERTO ROVERSI
“LA LIBERTÀ È DIFFICILE E FA SOFFRIRE”
ROBERTO ROVERSI e LUCIO DALLA
Roberto Roversi è stato una delle anime intellettuali più vive della Bologna del '900. Lucio Dalla, con il quale collabora ai tre album che più determineranno la crescita artistica del cantautore, lo definisce un uomo straordinario, innamorato della vita e devoto alla sacralità della figura umana, in ogni sua forma.
Nato il 28 gennaio 1923 da una famiglia originaria di Pieve di Cento, nella
campagna della città metropolitana di Bologna, assiste al cambiamento epocale
che sta avvenendo nella società italiana degli anni '50, gli anni del boom
economico e della ricostruzione. Osserva in particolar modo l’abbandono delle
campagne e la fine della civiltà contadina. A questa, dedica una parte
importante dei sui testi poetici del periodo.
I suoi primi componimenti (le raccolte “Rime” e “Poesie”) risalgono agli
anni del Liceo Ginnasio Luigi Galvani, dove conosce Pier Paolo Pasolini, appena
più grande: un'amicizia nata dal confronto, dalla ricerca e dallo scambio
reciproco che si consoliderà negli anni del dopoguerra.
Partecipa alla seconda guerra mondiale, dapprima con gli alpini della
Monterosa in Germania per l’addestramento; poi, trasferitosi in Piemonte,
abbraccia la Resistenza partigiana.
L'impegno partigiano per Roversi non sarà solo parte del periodo bellico,
ma una sensibilità costante e perdurante nel tempo. Roversi diventa un “poeta
civile”, e ogni espressione della sua vita culturale sarà d’ora in poi
politica.
Nel 1948 si sposa con Elena Marcone e con lei fonda la Libreria Antiquaria
Palmaverde, che diverrà un punto di riferimento culturale ed intellettuale
fondamentale per Bologna, pur essendo contraddistinta dalla discrezione a cui
Roversi è legato: ogni sua sede, da via Rizzoli a via Caduti di Cefalonia, da
via Castiglione a via de’ Poeti, sarà “un buco nel portico”, come l'ha definita
lo scrittore Stefano Benni.
Fonda nel 1955, con Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti, la rivista
“Officina” con l'intento di dare corpo alle inquietudini interiori e con una
volontà di ricerca letteraria attraverso una nuova analisi del novecento, per
ridisegnarne la mappa oltre la visione ufficialmente accettata. Con la
successiva rivista “Rendiconti” (nata nel 1961), Roversi affronta nuovi
problemi e linguaggi, legati alla politica ed al contrasto sociale, sempre in
contraddizione con l’ufficialità.
Dalla metà degli anni Sessanta fino alla fine della sua vita non ha mai
partecipato a presentazioni o incontri pubblici né su suoi lavori né su quelli
di altri; non ha mai più pubblicato con le grandi major del libro, ma ha
diffuso i suoi testi autoproducendoli o affidandoli alle cure di piccoli e
battaglieri editori.
L'inizio della collaborazione con Lucio Dalla sarà determinante per aprire
nuovi orizzonti alla creatività del cantautore. Spinto a questa sperimentazione
dal produttore Renzo Cremonini, tra il 1972 e il 1975 Dalla realizza con
Roversi tre album che lo costringeranno ad evolvere il proprio stile e lo
prepareranno a divenire un autore completo. Lo dimostrerà con l'esordio alla
scrittura dei testi nell'album “Com'è profondo il mare”, del 1977. I tre album
sono “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride solforosa” e “Automobili”,
parzialmente censurato, ai quali si affiancano inediti pubblicati solo postumi
nella raccolta “Nevica sulla mia mano” del 2013.
Ma è soprattutto per Gaetano Curreri e gli Stadio che continuerà, dopo il
grande successo di “Chiedi chi erano i Beatles”, a scrivere testi di canzoni.
Hanno inciso brani con suoi testi Mina, Paola Turci, Claudio Lolli, Angela
Baraldi, Francesco De Gregori, Fabrizio Moro.
Così lo ricorda lo stesso Lucio:
“È capitato di recente: ero in
macchina e per caso alla radio ho ascoltato “Millemiglia”, una canzone che
avevo fatto nel 1976 con Roberto Roversi, il poeta che ha segnato la svolta
della mia vita professionale. Ho pianto.
L'incontro con Roversi è stato
una specie d’investitura. Ancora di più: è stata veramente una circostanza
astrochimica, nel senso che l’amore per questa persona così insopportabile per
il suo metodo di lavoro - mi ha fatto diventare più pazzo lui di mia madre
quando mi proibiva di uscire la sera - mi ha insegnato delle cose
ininsegnabili. Per partenogenesi, per osmosi, tirandomi da lontano delle
freccine con la cerbottana, mi ha fatto capire cose che non avrei mai capito nè
a scuola nè da solo nè andando tre volte sul monte Sinai. Ho capito soprattutto
l’organizzazione del pensiero nella canzone, la parola, il segno, la forza e
soprattutto la pietà per tutti quelli che devono ascoltare le tue canzoni o
leggere i tuoi libri. La vera pietà, l’amore. Amore e pietà sono la stessa
cosa. La partecipazione emotiva di una frase che ti piace, che scrivi e che dai
alla gente quando la canti, quando questo accade hai fatto centro non tanto sul
piano del mercato, ma sul piano di te stesso, perchè diventi un altro, ti commuovi
anche tu. Del resto non sono pochi i casi della mia storia in cui, finito un
testo, mi è venuto da piangere." (Lucio
Dalla)
GRAMSCI, CRITICO TEATRALE, sulla "CASA DI BAMBOLA" di E. IBSEN
Discutendo di Arbasino che loda il Gramsci critico teatrale, mi è venuta in
mente una recensione strepitosa di quest'ultimo del dramma di Ibsen, scritta in
un italiano traslucido, dramma che dà il destro al pensatore sardo-torinese per
stendere alcune stimolanti riflessioni sulla condizione femminile nella società
italiana dell'età giolittiana.
Questa recensione, che ripropongo di seguito, mi colpì fin da giovane. Non a caso la citai in un capitolo della mia tesi di laurea nel lontano 1975. (fv)
"Emma Gramatica, per la sua serata d’onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un
pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della "Casa di
bambola", di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la
maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha
applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece
sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola
chiamata, più per l’interprete insigne che per la creatura superiore che la
fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché
non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente
morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare
solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del
proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri
che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri?
Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole,
deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto
necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In
quanto l’urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli
spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le
motivazioni da quelle più elementari a quelle più squisitamente storiche. E
rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l’arte, la forma
artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato
in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono,
gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare
continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale,
immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le
dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente
necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto
vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi
disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è
immorale l’umanità di Enrico Ibsen?
Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro
costume alla morale più spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una
rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del
pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia
grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione
all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo, fascio di nervi e di
muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro
costume, a un’altra tradizione, superiore, più spirituale, meno animalesca. Un
altro costume, per il quale la donna e l’uomo non sono più soltanto muscoli,
nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia
non è più solo istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto,
che si completa per l’intima fusione di due anime che ritrovano l’una
nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna, non
è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un
amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, è una creatura
umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che
ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente.
Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non
comprende un mondo così fatto. L’unica forma di liberazione femminile che è
consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa
"cocotte". La "pochade" è davvero l’unica azione drammatica
femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà
fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei
muscoli e dell’epidermide sensibile.
Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che
la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è
esaltata l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale come una prova
del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l’istituto riguarda la donna come
persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma
che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i
rapporti di sesso e non intacca neppure superficialmente il costume. Questo non
è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri
paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane
come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni
spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando
ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria.
Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto è
più stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri
che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi
altri i suoi familiari, siano gli infermi i detriti d’umanità che la
beneficenza raccoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrifizio
benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro
costume.
Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia attuale, perché
è il costume della classe che è della storia stessa protagonista. Ma accanto a
esso è un altro costume in formazione, quello che è piú nostro, perché è della
classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che si
identifica meglio con la morale universale, che aderisce tutto alla morale
universale, tale perché profondamente umana, perché
fatta di spiritualità piú che di animalità, di anima piú che di economia o
di nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di
Nora Helmar.
Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio rappresentava l'altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza, senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio piú proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni."
Antonio Gramsci, 22 marzo 1917, in l' "Avanti!" ed. torinese.