23 giugno 2013

ASCESA E CADUTA DELLA GRANDE LETTERATURA





.  Riprendiamo da il Foglio  il testo dell’ultima lezione accademica del professor Cesare De Michelis prima del pensionamento. “Ascesa e caduta della grande letteratura italiana”. 

Cesare De Michelis
 Addio ragazzi vi rivelo chi ha ucciso la grande letteratura.

La letteratura non è e non è stata un valore corrente in ogni età della storia; al contrario, sono esistiti periodi, anche assai lunghi, durante i quali la scrittura si è ridotta a umili funzioni di servizio: pensando alle vicende della penisola, basti ricordare per tutti, la millenaria stagione medievale nella quale, forse con il sostegno di un cristianesimo penitenziale, certamente un po’ iconoclasta e in ogni caso poco attratto dalla conturbante seduzione del bello, della poesia e anche del racconto è difficile trovare tracce significative per molti secoli tra la donazione di Costantino e l’affermarsi dei primi testi poetici in volgare.
Dopo i primi testi, ora cortesi – nei quali l’invenzione si esercitava per il comune divertimento e sollazzo intrecciando argute schermaglie amorose -, ora, invece, piamente cristiani – sollecitati cioè dal desiderio di innalzare lodi o preghiere al Signore – la svolta decisiva la segnò Dante, che, dopo un complesso itinerario di formazione filosofica e teologica, accingendosi nella Commedia a dar conto del suo davvero straordinario viaggio nell’oltre-tomba sino al più alto dei cieli, scelse per guida e duca il sommo Virgilio, insuperato cantore delle origini di Roma nel momento della sua gloria più grande e, quindi, inequivocabilmente pagano.
Dante fu da subito percepito come una voce provocatoria e dissonante in quel luminoso autunno del Medioevo, persino sospettato di sovversivi propositi ereticali, e pertanto severamente controllato, se non apertamente combattuto, ma la sua lezione classicista apriva agli uomini di lettere scenari straordinariamente innovativi e riconsegnava loro una millenaria e gloriosa tradizione che si confondeva con la storia di Roma caput mundi e poteva quindi comprendere quell’altra, non meno solenne, di Atene e della Grecia.
Si scoprirono, soprattutto negli scaffali delle biblioteche conventuali, i codici e le pergamene di testi pazientemente copiati e conservati nonostante la trascuratezza e la disattenzione, allargando sempre di più il corpus dei classici sopravvissuti, e da quel giorno non ci fu letterato di qualche ambizione che ad essi non si rivolgesse cercando i modelli di un esercizio espressivo altrimenti povero di grazia e di nobiltà. Già Cavalcanti e gli stilnovisti elaborano la loro laica teoria dell’amore profittandone senza imbarazzi, ma nelle generazioni seguenti sarà più di tutti Francesco Petrarca a percorrere, “nano sulle spalle di quei giganti”, il cammino a ritroso che, grazie al senno di poi, doveva invece condurre in avanti, costruendo i fondamenti di quella civiltà umanistica nella quale riuscirono a convivere, arricchendosi reciprocamente, la tradizione classica e quella cristiana.
La nuova cultura non poteva imporsi senza conseguenze sempre più vaste e profonde, le quali, escludendo di mettere direttamente in discussione l’autorità e il magistero spirituale della chiesa, riproponevano la necessità di articolare e distinguere poteri e autorità diversi a seconda delle attività degli uomini, e, così come l’impero era riuscito a farsi riconoscere autonomo rispetto alla chiesa dal più radicale pensiero ghibellino, l’affermarsi della civiltà umanistica pretendeva da parte dei letterati per se stessi uno spazio di studio e di ricerca esclusivo e a loro proprio nel quale potersi esprimere liberamente, inseguendo il vero, il bello e il buono come l’intelligenza, la sensibilità e la fantasia degli uomini erano capaci di pensarli e di immaginarli.
L’affermazione di una letteratura con queste caratteristiche non poteva realizzarsi d’un tratto; aveva, anzi, bisogno di essere pazientemente assimilata attraverso una pratica appassionata e costante e un esercizio quotidiano e duraturo, accumulando testi e risultati che con la loro stessa esistenza rendessero evidente l’esigenza di non frenare o reprimere questo indispensabile sapere. Al tempo stesso l’umanesimo doveva costringere la società degli uomini a volgere lo sguardo oltre ogni immobile condizione dell’esistenza, liberandosi dai vincoli di una dottrina preoccupata soprattutto di allontanare le tentazioni e preservare gli uomini dal peccato, uscendo contemporaneamente dalle angustie di una gestione del benessere basata solo sui beni fondiari, che infatti ancora chiamiamo feudale: per diffondere migliori condizioni di vita c’era bisogno di innovazione e di mobilità, come suggeriva l’esperienza delle società urbane con i loro traffici mercantili e la loro produzione manifatturiera artigianale.
Agli inizi del Quattrocento – la prima testimonianza scritta è di Francesco Barbaro in una lettera a Poggio Bracciolini del 6 luglio 1417 -, cominciò a radicarsi tra gli uomini di lettere la convinzione di far parte di un’ideale quanto reale Respublica litteratorum, autentico stato senza territorio del quale potevano essere cittadini tutti gli uomini dotti e sapienti, pronti a condividere i frutti dei loro studi e delle loro riflessioni senza gerarchie precostituite e in assoluta libertà, perché solo in questo contesto, affatto diverso dalla società civile o dalla comunità cristiana, era possibile sviluppare la ricerca del vero con i mezzi a disposizione degli uomini.
Poco dopo, fu l’invenzione della stampa a favorire la più ampia circolazione dei testi, a consentire la lettura solitaria e silenziosa e a imporre criteri filologici di edizione e scelte linguistiche coerenti e uniformi, anche con l’obiettivo dì estendere la circolazione dei libri: è la straordinaria stagione di Manuzio, di Bembo, di Erasmo, che in sorprendente comunità di intenti disegnarono una nuova geografia letteraria d’Europa e dentro di essa un intreccio di strade che la cultura percorrerà ostinata con sempre maggiore libertà e indipendenza, costruendo i solidi valori di una comune letteratura, in latino e in volgare, in prosa e in poesia, condividendo lo stesso canone di testi classici e moderni, della quale restarono a lungo esemplari in volgare il petrarchismo lirico o le raccolte di novelle modellate sul Decameron.
Il trionfo rinascimentale della nuova cultura travolge la consolidata distinzione delle arti e dei generi, investendo l’intero universo della civiltà europea e rimescolandone le tradizioni e gli stili in una comune grammatica e retorica: se i libri corrono lungo le rotte dei mercanti, affollandosi nelle fiere e nelle librerie di tante città, i quadri, le sculture, gli oggetti, le vesti li inseguono, sempre più ricercati e quindi preziosi e pregiati, cosicché la bellezza, l’eleganza, il decoro, il buon gusto, il galateo finirono per essere simili, se non eguali, in ogni dove del continente, quantomeno tra le classi agiate e anche colte.
Il principio, classicheggiante prima e poi petrarchesco, dell’imitazione non avvilisce affatto quell’altro contrario della creatività e dell’invenzione; diventa, anzi, la necessaria premessa scolastica e retorica – pedagogica – di una profonda unità culturale, che sempre più contraddice le pratiche contemporaneamente invalse nelle altre dimensioni dell’esistenza: dal drammatico scisma luterano, che disintegra l’unità cattolica dei cristiani, alle interminabili guerre, non meno dolorose e cruente, che dividono e contrappongono i centri del potere politico e trasformano i vicini in nemici, aprendo improvvise voragini tra un paese e l’altro e innalzando frontiere ogni volta insuperabili e minacciose.
In questo contesto la cultura e la lingua vennero rapidamente percepite non più come i segnali di una fraternità universale, quali erano state durante l’affermarsi e il diffondersi dell’umanesimo, ma piuttosto come le nuove insegne identitarie di una diversità esibita e proclamata, che a sua volta divenne fondamento di una perseguita supremazia, prima di tutto militare e poi politica, economica e civile.
Conseguentemente il principe non rivolgeva più la sua attenzione alle arti con liberale spirito mecenatesco, ma animato da desideri di personale affermazione di superiorità e da propositi aggressivamente rivendicativi, che lasciavano ben poco spazio alla collaborazione e al dialogo.
E’ quanto accadde soprattutto nella Francia seicentesca di Richelieu prima e di Mazzarino poi, che, promuovendo il Collège e l’Académie, sfidava apertamente il primato italiano con le opere di Corneille, Racine e Molière e poi collegava il rinnovamento letterario con quell’altro scientifico che intanto Bacone, Galileo e, oltralpe, Cartesio avevano imposto in Europa, letteralmente capovolgendo la visione del mondo, fermando il sole e facendo ruotare la terra e, parallelamente, il corso del tempo, che non precipitava più dalle origini nell’Eden sino alla vergognosa decadenza dei peccatori per poi cercare con ogni sforzo di riguadagnare il punto di partenza, ma correva sempre più lineare e spedito come un fiume verso la foce, inseguendo le novità del progresso, al punto che proprio Cartesio poteva consigliare spavaldo che, piuttosto di raccogliere eruditamente le errate o manchevoli teorie o conoscenze di un passato superstizioso e supponente, era molto meglio “dimenticare tutto” per costruire coraggiosamente la scienza nuova.
Cominciò così lo scontro secolare tra le due culture, che si confronteranno duramente, oppure si ingegneranno a immaginare complicati intrecci, rinnovando sempre più arditi tentativi di mediazione e, solo dopo una storia che arriva sino alla fine del Novecento, giungeranno a una decisiva resa dei conti.
La storia della letteratura umanistica comunque non finisce con la pretesa d’oblio annunciata da Cartesio; contemporaneamente, a partire dal secolo d’oro di Luigi XIV, si rinnoveranno le discipline storiche e filologiche affrontando senza pregiudizi i temi della storia sacra e profana, restituendo ai documenti del passato la loro voce più autentica grazie a strumenti concettualmente analoghi a quelli delle scienze, rigorosamente razionali appunto, come per primi insegnarono, di nuovo in Francia, i sapienti padri Maurini, diffondendo poi ovunque in Europa il loro metodo e le loro scoperte.
Che lo scontro tra tradizione e innovazione si radicalizzasse, tuttavia, emerse ben presto e con chiarezza nelle discussioni all’interno della stessa Académie, sfociate nella querelle des Anciens et des Modernes – ricostruita con efficacia da Marc Fumaroli, il quale alla pericolosa trama dei ragni innovatori, che ne producono da sé il filo, autoreferenzialmente, ha contrapposto il prezioso tesoro che le api raccolgono dalla natura, pazienti e laboriose – e, subito dopo, sul finire del XVII secolo, nella polemica apertamente anti italiana accesa dal gesuita Dominique Bouhours nel 1687 e fatta propria dai giornalisti delle Mémoires de Trévoux, che provocò nel 1704 la risentita replica del letterato modenese Giovan Gioseffo Orsi, sostenuto e sorretto da molti altri letterati della penisola e soprattutto dal più autorevole tra loro, quel Lamindo Pritanio – al secolo Ludovico Antonio Muratori – che intanto arditamente disegnava le regole e gli obiettivi della nuova Repubblica dei Letterati d’Italia (1703), anch’essa immaginata per opporre alla egemonia francese la resistenza della tradizione italiana, che, abbandonando le ridondanti stravaganze della stagione barocca, aveva riconquistato il buon gusto e restaurato secondo la tradizione, che da Petrarca arrivava a Bembo e alla Crusca, la lingua e la poesia lirica, riformato con Zeno e Metastasio il fortunatissimo melodramma adeguandolo alle regole del teatro classico, e avviato il rilancio di tutta la cultura storica e letteraria della penisola, della quale si riaffermava autorevolmente l’unitarietà, dalle lettere alle arti, alle scienze, con la stampa e la diffusione dei periodici, a cominciare dal celebre Giornale de’ Letterati d’Italia (1710) dei veneti Apostolo Zeno, Scipione Maffei e Antonio Vallisneri, o con opere grandiosamente enciclopediche come i muratoriani Rerum ltalicarum Scriptores.
La storia letteraria del Settecento è in questo senso esemplare: la fascinazione della modernità produce una drastica innovazione dei generi più frequentati, favorendo senza esitazioni quelli che maggiormente incontravano i favori del pubblico, il quale si affaccia proprio ora sulla scena della cultura con un ruolo sempre più decisivo e centrale, tanto da diventarne in fretta arbitro e protagonista.
Da una parte il teatro, comico o musicale, dove l’accesso del pubblico in sala è consentito solo pagando il biglietto d’ingresso e all’offerta dell’opera è necessaria la collaborazione professionale di un nutrito numero di artisti, che a sera contano l’incasso raccolto nella cassetta non solo per misurare il proprio successo, ma per verificare la possibilità stessa della loro sopravvivenza – tra questi naturalmente c’è anche lo scrittore che condivide fino in fondo la sorte dei compagni; dall’altra i giornali, che si rinnovano mese dopo mese e poi settimana dopo settimana, se non giorno dopo giorno, e pertanto hanno bisogno di autori pronti a offrire collaborazioni continuative, le quali non possono che essere adeguatamente retribuite da librai e tipografi che ne curano la stampa e la diffusione, e che definiscono quindi nuove figure professionali per gli uomini di lettere; infine i romanzi, che raccontano storie e avventure nelle quali i lettori riescano a specchiarsi e a riconoscersi, tanto che i loro autori proprio all’affezione e all’allargamento del pubblico affidano la durata del loro successo.
Naturalmente l’affermazione del pubblico, o dell’opinione pubblica, incontra frequenti e caparbi ostacoli soprattutto da parte della Repubblica dei letterati, che, fedele ai propri valori, come ogni comunità autoreferenziale, aveva sino ad allora regolato i propri strumenti di valutazione secondo principi interamente autogestiti e del tutto privi, pertanto, di qualsiasi relazione con misure rozzamente quantitative e con le regole di un mercato, il quale al più aveva marginalmente agito sul libro come prodotto industriale, lasciando assolutamente estranei gli autori, i quali potevano attendersi premi o lodi, doni o prestigio, ma non volevano né potevano trasformare in professione quella che ai loro occhi era e restava soprattutto una vocazione.
La pretesa di sottrarre al mercato il frutto del proprio lavoro avrà comunque vita breve in un tempo nel quale si cominciava a esigere che persino il potere politico dovesse democraticamente dipendere dal consenso raccolto o conquistato piuttosto che da astratti diritti di sangue, facendosi forti del pensiero di gruppi di letterati illuminati dalla ragione, quella stessa degli uomini di scienza, ma in questo caso applicata non alla natura e neppure alla storia, ma alla società presente, immaginandone la vita e l’attività regolate secondo principi che potevano essere riconosciuti e studiati e conseguentemente corretti e modificati: la rivoluzione, prima della fine del secolo, sancirà una volta per tutte il radicale cambiamento della situazione e la fine dell’ancien régime.
Avvenne tutto molto in fretta, senza che la letteratura riuscisse a rendersene pienamente conto e tanto meno avesse il tempo di aggiornare le sue idee e i suoi strumenti: così scrittori e poeti restarono indietro, attardati, mentre idéologue e filosofi si affannavano a costruire sistemi e visioni che consentissero ancora di sentirsi alla guida del mondo e non inermi vittime in balia delle tempeste della storia.
Il moderno si presenterà con l’aspetto feroce della rivoluzione, che imponeva il proprio potere con la forza della ghigliottina e lo espandeva con le armi – che nel giro di pochi anni stravolsero, e non solo una volta, l’ordine millenario di un continente che conservava intatto l’impero a immagine di Dio, ridisegnandone la geografia e i valori -, o, ancora, lo arricchiva con l’industrializzazione che sottraeva al controllo dell’individuo la produzione, trasformando in un autentico inferno le officine e le fabbriche, dove le caldaie ardevano fiammeggianti mentre fumi e vapori rendevano l’aria irrespirabile e la fuliggine e la morchia tingevano ogni cosa di nero. Certo, la trasformazione non fu improvvisa e generale e a lungo durante l’Ottocento resistette l’illusione che il progresso tecnologico sarebbe riuscito a controllare i disagi e le sofferenze moltiplicando comunque le produzioni e le ricchezze; anzi avrebbe addirittura liberato l’uomo dalle sfiancanti fatiche del lavoro manuale, mentre sentimenti e affetti, caratteristici delle comunità legate alla civiltà contadina e alla ciclicità della vita a contatto con la natura, sarebbero sopravvissuti alla frenesia della vita urbana e metropolitana.
La cultura letteraria del secolo dell’industrialismo e della meccanizzazione si inaugurò volgendo lo sguardo all’indentro alla ricerca delle radici ancestrali della civiltà degli uomini per rinnovarne la forza e la vita in una poesia insieme antica e nuova che venne chiamata romantica: era una letteratura ricca di aspirazioni ideali, di sensibili emozioni interiori, di un’inquieta ansia di sincerità e di immediatezza, che, mentre inseguiva il confronto col pubblico nel nome della sua popolarità, al tempo stesso rinnovava la mitologia dell’ispirazione e della libera fantasia per opporsi all’invadenza della scienza e della ragione e ritrovare una propria missione nella ricerca della verità, che sentiva messa in discussione e svilita dalla modernizzazione, la quale la confinava ai margini, fuori dai condivisi percorsi educativi, portatrice di un’intrinseca fragilità, di una femminea debolezza.
A conservare una funzione pedagogica e un ruolo magistrale resterà in quel contesto soprattutto il romanzo, quello storico per primo, che ricostruiva il destino degli uomini nel tempo e li accompagnava lungo il percorso della trasformazione verso un traguardo finalmente rassicurante, che disegnava insomma il lieto fine dell’integrazione tra salda perennità della natura e mobilità cangiante della modernizzazione: un racconto nella sostanza consolatorio, che escludeva rese dei conti e sopraffazioni, e verrà ripetuto durante tutto il secolo con una imperturbabile fiducia nella ragionevolezza della storia, e che in Italia si intreccerà con il nascente sentimento patriottico e risorgimentale.
I guai per l’Italia cominciarono appena l’unità fu davvero conquistata e i conti, nonostante la luminosa e appassionante storia che Francesco De Sanctis si ingegnò di raccontare, faticavano davvero a tornare: la ricchezza restava di pochi, confinata nei centri urbani, il sapere si rivelava distante dai problemi reali, costretto in una retorica che divenne ben presto fastidiosa, e i letterati piuttosto che guide o maestri apparvero per quello che erano, superbi accademici o squattrinati pennivendoli con un pubblico distratto e volubile, poveri di una visione del mondo che servisse a capire quanto intanto succedeva, che erano davvero grandi cose; la politica democratica, infine, si rivelava affare di pochi, che non sapevano bene che scelte fare per cambiare la situazione e disegnare un futuro migliore, disponibili appena a trasferire pari pari, e anche con molta cautela e prudenza, le idee che altrove maturavano in Europa.
La letteratura dell’Italia unita – lo raccontò da par suo Benedetto Croce in una serie memorabile di tempestive letture -non fu mai all’altezza del suo glorioso passato e tanto meno del suo inquietante presente: lamentosa e meschina compianse i miseri, i malati, gli infelici, o maledisse il cambiamento che, strappando i pescatori al mare o i contadini alle terre, illudeva gli umili che il loro destino non fosse più quello di sempre; oppure si perse in racconti stralunati e angosciosi che si confrontavano col mondo nuovo, ma in fretta, come se ne avessero in fondo paura.
II moderno stava compiendo la sua rivoluzionaria missione di travolgere il mondo degli uomini per andare oltre, in un altrove sconosciuto, dove, a patto di abbandonare tradizioni, costumi, pensieri e ideali, tutti sarebbero diventati felici e contenti.
Il prezzo, ormai lo si era imparato, sarebbe stato far piazza pulita di tutto quel che si aveva, letteralmente azzerandolo e annientandolo, a cominciare dall’umanesimo, religione compresa – tanto anche Dio ormai era dato per morto -, per compiere una totale e definitiva rivoluzione, dopo la quale si sarebbe istituito l’ordine nuovo che non avrebbe più avuto bisogno né di storia, né di storie o romanzi.
La cultura della modernità si impose con le sue pratiche corrosive e demolitorie, irridendo le forme della tradizione, i suoi buoni sentimenti, le sue intenzioni consolatorie e moraleggianti, il suo insopportabile buon senso, smontandone gli artificiosi meccanismi, le supponenti retoriche, il linguaggio scolastico o solenne: tutto il bene era di fronte a noi, all’orizzonte, dove presto sarebbe sorto il sole dell’avvenire, mentre alle spalle restavano solo le insignificanti rovine del passato; bisognava solo affrettarsi per raggiungere al più presto la meta, correre all’avanguardia perché conveniva essere i primi.
E’ quanto si fece e, poiché alla fin fine si trattava di affrontare una guerra, anche il linguaggio della letteratura si adeguò a quello consolidato delle armi: le idee combattevano una battaglia, i letterati divennero militanti, i gruppi più coraggiosi e spregiudicati si chiamarono avanguardie, e nessuno si avventurò più da solo, ci si riunì in gruppi o riviste, affidando a un manifesto firmato da tutti, anche da chi non ne aveva scritto neppure una riga, il proprio pensiero, le proprie idee o ideologie.
Le opere si rivelavano effimere, smarrendo ogni significato che non fosse provocatoriamente metaletterario, oppure oscuramente implicito, spesso inespresso; l’autore, piuttosto che la creazione dell’opera, rivendicava per sé il primato dell’invenzione o dell’idea; il lettore dal testo non riceveva informazioni e tanto meno aveva occasione di svago o intrattenimento, diventava piuttosto un complice, un commilitone, un compagno di strada; persino il pubblico in tanto frenetico daffare si disperdeva, anche lui irriso e maledetto come il sistema di cui faceva parte.
Il lungo cammino della modernità si era compiuto e le humanae litterae, la letteratura dell’uomo e dell’umanesimo, avevano dovuto soccombere; come tutte le avventure della storia erano giunte al termine.
Poi la guerra – quella vera, tragica, cruenta, mostruosa – scoppiò davvero, grande come non mai, mondiale addirittura, e sembrò non finire più: durò oltre trent’anni, sempre annunciando e promuovendo rivoluzioni più terribili e definitive, sino alla soluzione finale che spezzava il cuore e toglieva il respiro, o alla bomba atomica, conclusivo trionfo della scienza che si rivelava capace di uccidere non solo nel presente ma persino nel futuro, non solo una vita o molte vite, ma tutta la vita.
Quando la mia generazione venne al mondo tutto questo era accaduto e la società si affannava per ricominciare da capo, convincendosi che la tragedia era finita e si poteva tornare a sognare: la prima metà del Novecento con la sua interminabile guerra fu messa prudentemente tra parentesi, sforzandosi di credere che si poteva fare come se non ci fosse stata, e le parole della speranza furono quelle del ricominciamento, da rinascita a secondo risorgimento, alla più banale ricostruzione, e anche nel caso della letteratura ci si convinse che la fine era stata annunciata troppo presto; c’erano talmente tante cose straordinarie e terribili da raccontare che non valeva la pena riprendere le antiche polemiche con la tradizione per sbarazzarsene; prima di tutto venivano l’esperienza e la verità, o più semplicemente la realtà, e poi, scaramanticamente, per dimenticare il disumano annientamento degli uomini si provò a resuscitare l’umanesimo, un nuovo umanesimo che rimettesse al centro la persona e la vita: ci si impegnarono in tanti, soprattutto in Europa, a cominciare da Thomas Mann o da Elio Vittorini, dapprima alzando imperiosi la voce e poi sempre più smorzandola, isolati e inascoltati.
La stagione del neorealismo e del nuovo umanesimo fu breve, esattamente come la durata della pace nel mondo: già negli anni Cinquanta la guerra era solo apparentemente fredda, perché tenuta a forza lontana dall’occidente, e la rivoluzione e le avanguardie tornavano all’assalto, provando a riguadagnare il terreno che avevano intanto perduto; le scienze poi si impadronivano di ogni campo si era sino a quel momento loro sottratto, portando a termine quella conquista iniziata insieme al secolo, diventando sociali e anche umane, cosicché della letteratura ci si convinse di non avere davvero bisogno, svuotata com’era di ogni funzione e significato, e umilmente essa si rassegnò a farsi da parte, accettando una sopravvivenza servile ed effimera, destinata quasi esclusivamente all’intrattenimento e al consumo.
La nostra storia di studiosi, durante mezzo secolo, ha accompagnato questo declino, cercando di alleviarne la pena con la segreta speranza che il destino non fosse segnato; qualche spregiudicato tentativo di trovare un compromesso con le nuove scienze illuse, e per poco, soltanto chi lo aveva proposto.
Così al passaggio di millennio ci presentammo eredi di una tradizione smorta e avvilita che aveva visto il suo ruolo nel percorso formativo diventare specialistico e marginale e la sua forza morale perdere progressivamente coraggio ed energia, cosicché dinnanzi alla crisi che improvvisamente si manifestò nel secolo nuovo – le Twin Towers, la Lehman Brothers, il default – arrivammo disarmati e impotenti, ripetendo le analisi e le considerazioni di sempre come se ad essa fossimo preparati dalle molte lezioni  della storia e si potessero riproporre i consueti rimedi e le medesime consolazioni.
Invece no, questa volta, come in poche altre occasioni alle nostre spalle, siamo di fronte a una svolta, a un’autentica metamorfosi, a una vera e propria soluzione di continuità, che investe non solo la letteratura, ma tutt’intera la società e la sua civiltà nell’epoca della globalizzazione, e impone risposte all’altezza, spregiudicatamente restaurative, nel senso, cioè, di un rinnovamento della tradizione nel tempo della discontinuità, di un imprevedibile nuovo rinascimento che impegnerà a lungo tutte le nostre risorse disponibili.
Da il Foglio sabato 22 giugno 2013

Nessun commento:

Posta un commento