Il governo Letta ha appena deliberato ipocritamente un disegno di legge
– non una legge! – che prevede, qualora il Parlamento eletto con il porcellum
lo approvasse, una riforma del finanziamento pubblico dei partiti. Ci
troviamo di fronte ad un tardivo rispetto della scelta referendaria del 1994 o a
un'ulteriore gigantesca presa in giro degli italiani da parte di una
nomenclatura autoreferenziale e corrotta?
Sergio
Rizzo – Il finanziamento pubblico ai partiti non è stato abolito.
Chiamatela come meglio credete. Ma non con il nome sbagliato: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Perché inseguire Beppe Grillo è un conto; raggiungerlo, un altro. I soldi dei contribuenti, e tanti, arrivano alla politica attraverso mille rivoli, moltiplicatisi negli anni come organismi dotati di vita propria. E questa legge non li chiude affatto tutti. Alcuni li allarga persino. Gli sgravi fiscali non sono forse una forma di finanziamento pubblico, sia pure indiretto? Si tratta di denari che lo Stato non incassa consentendo ai partiti di avere donazioni da imprese o privati cittadini. Dunque è come se quei soldi lo Stato li desse alla politica. Con un trattamento, per chi decide di aiutare economicamente un partito o un politico, 12 volte più favorevole rispetto a quello cui ha diritto il sostenitore di un'opera benefica. Perché mentre il singolo cittadino che finanzia un'associazione impegnata nella lotta contro una malattia rara può detrarre dalle tasse il 26 per cento del contributo solo fino a un tetto di 2.065 euro, qui parliamo della possibilità di risparmiare il 52 per cento fino a 5 mila euro e il 26 per cento fino a ben 20 mila.
La matematica, com'è noto, non è un'opinione. Dare 20
mila euro in beneficenza consente di detrarre al massimo 542 euro, regalare la
stessa cifra a un partito ne fa invece risparmiare 6.500. Vero che il vantaggio
fiscale per chi finanzia la politica, ancora lo scorso anno, quando la
detrazione era sì al 19 per cento ma con un tetto di 103 mila euro, era
addirittura più che quadruplo. Ma anche così ci sarebbe da chiedersi se sia
giusto privilegiare fiscalmente i partiti più delle organizzazioni che aiutano
il prossimo. Altra domanda: siamo sicuri che una volta imboccata questa strada
non si debba stabilire indipendentemente dagli sgravi anche un tetto massimo di
contribuzione oltre il quale un solo privato o una singola impresa non possa
andare, per impedire i condizionamenti da parte di determinati interessi?
Magari fissando pure il principio adottato dalla Germania che impone la
pubblicazione immediata via web dei contributi superiori a 50 mila euro.
Vedremo. Intanto prendiamo atto della decisione di rinunciare sia pure gradualmente in tre anni a quello che era rimasto dei ricchi «rimborsi» elettorali: una droga pesante che aveva gonfiato gli apparati di personale trasformando i partiti in macchine per ingoiare denaro. Ed era chiaro che l'unico modo per tamponare il taglio del finanziamento diretto sarebbe stato quello di agire sul finanziamento indiretto. Anche se questo, oltre a farci risparmiare un po' di quattrini non potrà scongiurare una salutare cura dimagrante.
Finanziamento indiretto è pure il 2 per mille delle tasse: altre entrate cui lo
Stato rinuncia a favore della politica. Sempre che ci si possa fare
affidamento, visti i precedenti. Negli anni Novanta si provò con il 4 per
mille. All'inizio fu corrisposto ai partiti un anticipo di 160 miliardi di
lire, con l'impegno a conguagliare quella cifra, in più o in meno, quando il
ministero delle Finanze avesse fatto i calcoli dei denari effettivamente
destinati dai contribuenti alla politica. Peccato che il conto non sia mai
stato reso noto. Elementare la ragione: i partiti avrebbero dovuto restituire
tanti denari che avevano già speso. La legge del 4 per mille finì in soffitta e
si cominciarono a gonfiare in un modo indecente i «rimborsi».
A quanto ammonterà questo finanziamento indiretto è difficile dire. Il 2 per mille è una incognita assoluta. Mentre gli sgravi fiscali erano finora stimabili in una decina di milioni l'anno, somma adesso inevitabilmente destinata a crescere. Poi però ci sono gli altri rivoli. L'esenzione dell'Imu per le sedi politiche, per dirne una. I contributi pubblici alla stampa di partito, circa un miliardo di euro dal 1990 a oggi. Oppure le agevolazioni postali per il materiale elettorale, una disposizione introdotta con la legge che ha fatto seguito al referendum del 1993, che si somma curiosamente ai rimborsi delle spese elettorali. Per dare un'idea delle dimensioni di questo rivolo, i 9 milioni di lettere spedite agli italiani da Silvio Berlusconi con la promessa di restituire l'Imu potrebbero essere costate allo Stato 2 milioni 160 mila euro di francobolli. Ovviamente oltre ai famosi «rimborsi».
Ma è niente al confronto del torrente più grosso che
continuerà certo ad alimentare il finanziamento pubblico. Stavolta non più
indiretto: denaro sonante. Sono i contributi ai gruppi parlamentari e dei
Consigli regionali.
Quanti soldi? Anche qui non è facile dirlo, ma si
parla sempre di un centinaio di milioni l'anno, pur dopo il giro di vite
imposto in varie Regioni. Nel solo Lazio dello scandalo Batman si distribuivano
ai gruppi 14 milioni l'anno. I contributi ai gruppi di Camera e Senato spuntano
nella legge sul finanziamento pubblico approvata nel 1974 da tutti i partiti
(tranne i liberali) durante la bufera dello scandalo petroli. E sono proprio
quelli che il referendum radicale del 1993 aveva abrogato. In barba al voto di
34 milioni di italiani sono stati invece mantenuti: non più per legge, bensì
per autonoma iniziativa del Parlamento. La loro abolizione non è mai stata
all'ordine del giorno.
Il finanziamento pubblico dunque non è morto, a dispetto dell'epitaffio scolpito ieri dal governo di Enrico Letta. Chi credeva davvero che alla politica non sarebbe più arrivato un euro statale si metta l'anima in pace. Pur eliminando l'autentico sconcio dei «rimborsi» elettorali l'Italia non diventerà come la Svizzera: unico Paese europeo dove non sono previsti sotto alcuna forma contributi per i partiti. Va detto chiaramente che i rubinetti pubblici resteranno aperti, pur assumendo in qualche caso forme più evolute e moderne. Una di queste è il libero accesso a spazi pubblicitari sulle reti televisive, o l'erogazione gratuita di alcuni servizi, come accade in Svezia.
E se è fondamentale il vincolo della massima trasparenza per ottenere i benefici fiscali, ancora di più lo è l'obbligo di dotarsi di «requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna». Il che tira in ballo la legge sulla forma giuridica dei partiti con la quale si dovrebbe attuare l'articolo 49 della Costituzione, mai riempito di contenuti da ben 65 anni. Un anno fa quel provvedimento, per quanto lacunoso, sembrava in dirittura d'arrivo. Poi è rimasto nei cassetti di Montecitorio. Ma ogni riforma del finanziamento della politica non può risultare credibile, senza le regole che dicano che cosa sono i partiti, quali sono i loro obiettivi, come devono essere organizzati. Vanno scritte subito, avendo tuttavia sempre presente che è soltanto un primo passo. Al punto in cui si è arrivati, per provare a riconciliarsi con gli italiani i partiti devono fare ben altro: a cominciare da una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere. Quella che ora improvvisamente non è più urgente per nessuno.
(Da: Il
Corriere della sera, 1 giugno 2013)
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