23 giugno 2013

PER NON DIMENTICARE I TANTI GHETTI DELLA STORIA







Dopo-Ghetto (2013, inedito)
Verbracht ins
Gelände
mit der untrüglichen Spur

P. Celan

[1a].
Non ricordo il numero
cui davi mano e senso
nel comporre poeti
lungo traiettorie sapide acerbe
l’età ti macchiava l’orecchio
e aveva nome il latte della terra
si gonfia l’alato cielo
senza rossi, belve, clangori
dipingevi leggero il camino
con dito acceso
digestione e parole erano fiamma
fino allo spegnimento dell’unghia,
così possedevi fortuna
e tramortivi


*

[1b].
Donde viene l’aroma fertile,
porta luce e falce
a terre dall’unghia dissodate
morte per dei e misericordia

In Alessandria sponda di tramonto
siano terra e corpo altro dal tempo
siano vestigia scritte le rinunce
chiedete se esiste, è, c’è
qualcosa come il mondo

Lo sguardo del giorno attraverso
gli strappi colpevoli della notte
puniti e sempre vandali di sé
bocche sfibrate a rimpiangere
la nitida compattezza dell’eden
cade, mangia
il peccato nel vaso della giovinezza
zeppo di enigmi e feci arabescate

dare luci alla palude senza specchi
e foglie all’oracolo invernale
sulle vette accese
di oratori e di sentenze

Tu sei, tu: voltato secchio
dal dorso umido di numeri
coperchio di graticola
e il vento fuori esce
in forma di formula
così rinasce il mito
e Prometeo continua a diventare aquila
e non può certo riconoscere il fegato
nel cuore spaccato delle reni
da selvagge danze, totem, ira
misteri d’archi senza freccia

bastano a se stessi, saltano, tripudio
vita e vita: negano qualcosa
tu, ancora, sai cos’è
ma non dire, non sanno, non fa parte
della danza non specchiarsi


*

[2].
Ellittico il fuso dell’oro
strinato di spasmi, gas, cenci
Firenze muore sul lastrico, tramonta
e l’immortale cuoce l’odio in basso
oh che si pasca di fiuti e salmi
il sacerdote con la lira
tintinna nelle tasche dei musici
la salvezza con dissonanti peccati
ma tu chi sei, altro che fissa udienza?

Scagli messi al seme che hai gettato
gettato tu stesso, l’altr’anno
oh cento tracce oh evo oh revertor
continuamente nella continuità
ma fragile il mito del sempre, ora, dopo
per chi ha tanto futuro in bocca
mastica, digestione a donare
pellicce d’aria nel domani fiaccola di gioia

ellittico il fantastico chiarore
che domina, matrona stella, la pietà


*

[3].
Edera in ombra, ti sei arborizzata
come il pensiero nel pensante in sonno
vita d’altri, da sempre invischiata
nelle pieghe del danno e dell’incesto

La terra è già l’amore del pensiero
da che, sale furente, il mare s’arrischiò
a uscire dal fazzoletto del mio secolo
piccola beltà che ti scommetti
vita con vita, sperando nella gioia
che mai ti resta in arsi, se non l’accento
d’una ricomposta foia? Cinghie
per soffocare l’acqua, piove nel grembo
si ripete la fistula nei denti del pastore
erette le fabbriche e i manieri

cantore in erba: l’erba ti cresce addosso
canto superbo, manto, frutto
ma non turbare il sonno
dormi con tutti, stupito
e tu vita, stupita
di tanto clamore nel cuore molle
della nostra odierna POESIA


*

[4].
Mortali e immortali, siamo
balenante fioritura del dopo-ghetto
crescendo nella cenere di tutto
compresi di nostalgia
per dure, igieniche fertilità

“innocentemente belli, almeno
questo è quanto crediamo”

narriamo la storia di un figlio
– tra cenci, soldi e amanti
non si è più trovato
radice rigurgito folla
tutto dentro sé per un sempre –

disegna orizzonti e ponti
verso l’acqua delle macellate identità
che fortuna, a un gradino dall’altare
sacrificarsi in piedi
nella piena immersione di un coltello
nel vagire della terra, calamo di mortalità
per immortali promesse di parole
feconde e non più soltanto faconde
disturbano, addiviene
un nodo di rami all’alba fortunata
tutto spunta così in fretta, spuma che diviene
prima ancora di essere l’attimo che forma

Di noi, mortali immortali, “decidere la storia”?
non resta altro: vuoto
il desiderio di possedere
il popolo di noi stessi
le vie della guarigione


*

[5].
Presagi e cenni dicono è il futuro
ciò che non sa ripetizione
e pur si muove in cerchio
la increata difformità dell’esserci

Pensiamo, crudi, mortalità fuggente
attimo di carestia – si rapprende
attorno a un idolo terroso, fessura
barbaglio estatico – scatena
visioni, occultamenti, freddi inchiostri
cineserie incredibili, tappeti oh
tutto fuggire e tutto assai lontano
dar di volo alle ali per raschiare il seno
al muto biologico dispiegamento
annientata speranza di diffondermi
a voi, celesti impuri
abitatori di case abbaglianti
nel costante pericolo di crollo
stupore, fame, rossa benda, sterco


*

[6].
Aurora, sbatti l’angolo come una finestra
il vento polveroso di settembre
l’angolo della piazza muta e chiusa
nel canile livido dell’ultimo silenzio
prima del gran boato, motori della ripetizione

Aurora, gialli e rossi crescono
su te blanda semente
i papaveri del male, senza miele
profumo, velluti e midriasi
quando ne senti il fruscio addosso
sbocciano fragore di canapa
nel greggio della zolla, cranio
di calda messe scura senza spume
o eccedenze, pullulano i fiori
letto d’anime nude di corolla
d’amido freddo il movimento dei tulipani
s’agghiaccia di stupore il sole – colpisce
senza reclinarne il busto
gigli fusi d’oro liquido
fumo immoto, valvole crude
nel zeppo schifoso della terra


*

[7].
Arca perenne, all’ancora nel golfo
i misteri della generazione esclude
con reti di nebbia per orecchie tese
a tutto udire, a nulla vilipeso
l’occhio di punta nel braccio cerchio

Assumere, viltà del novo
dipanar di gioventù, balocco tondo
per gesta che si dicono democratiche
scura capellatura all’inedia ruvida
dei fari spenti nella notte stella
ma s’assomma in un grumo
la colpa all’innocenza
perché il declinare è un’epoca

– indugia al solido rapprendersi
del tempo dentro noi
cresce dentro la cucina del feto –

dà poi nascita agli inferi umidi del genio
tutte le volte che rivolta il corpo
la zappa indifferente della penna
povero ramo di un secolo deforme
la stolida emergenza per la salvezza
il popolo, risulta: un’addizione

l’opinione genera colui
che si attacca al dio di se stesso
per non morire di buoni sentimenti
e adorare la propria immortalità
ogni sera di penna, quando cadono
innumerevoli i residui
dell’immonda fabbrica, letteratura


*

[8].
Lettera, o specchio
recalcitrare nel livore notturno
(di solito colora di sé tutte le aurore della vita)

sapersi gracile e sospeso
senza difesa nei confronti della cenere
che su me, su te sparsa
ha la zampa anemone del vento, passa
sola, la torpedine, la frusta, dà malanno

barche ancora ferme negli angiporti
stalli, tu, me, vicini al tempio dell’accidia
ma io mi so degenerato
da che sorvola il pianto la putredine
del filo ramato e gessoso
per il gran numero d’unghie fulminate
un attimo prima della fuga

Non ti credere dentro il campo, sei
quasi più fuori di tutti, il campo
è dopo, è sotto, è IL reticolarsi
dei nervi attorno allo stupore

così, mi vedi nel cervello a pieghe mobili
concentrato sui limiti del corpo
sembro chiuso a chiave e destinato
a sopportare il gas e il necro/

così, mi sento pelle, nuda elettricità
a contatto del fato d’occhi
mentre il campo si riveste di neve, brina
e il sesso è arcangelo di quiete, un’altra volta

Di me, di te, maschera di pece
stremo di pensate vicissitudini
nel gioco cerchio di un fallace bombo
di libertà, da tutti generato, da nessuno
solo, insieme al dopo-ghetto di secoli
(ben donde) stuprati d’acciaio e vischio scuro

plastica beltà (ho di che morire) di vivere
nel sempre che taglia i corti affanni
gli strali umidi a cader dai viali
i monchi cerebri, osanna
fumo


__________________________ Gianmarco Pinciroli Dopo-Ghetto
Tratto dall’opera inedita
Due Poemi (2013)
Ora in Quaderni di RebStein
XLVI, Giugno 2013
__________________________

Nessun commento:

Posta un commento