Alessandra Sarchi - Le lacrime degli eroi
Che gli eroi dei poemi omerici piangessero dovremmo averlo imparato a
scuola, forse anche solo leggendo i brani antologizzati dell’Iliade e
dell’Odissea poiché innumerevoli sono le occasioni e le ragioni per cui
Ulisse, Achille, Priamo, Ettore, Patroclo, Agamennone e tutti gli altri versano
lacrime abbondanti, gridano e si disperano. Il loro pianto è, d’altra parte,
così espressivo e pieno di sfumature che solo una rivisitazione attenta al
contesto, ai rimandi interni e alla secolare tradizione intessuta nei poemi,
può riavvincinarci al senso.
È ciò che fa Matteo Nucci nel suo Le lacrime degli eroi (Einaudi
2013) calandosi fisicamente nella geografia dei luoghi, prima ancora che nelle
parole di quegli uomini che ci hanno trasmesso modelli di pensiero e
comportamento. Dunque: nel Ceramico di Atene, dove Pericle proruppe in pianto
davanti al cadavere del figlio Paralo, ucciso dalla peste; davanti alla porta
dei Leoni, a Micene, sulla soglia di una città che contiene già tutta la
tragedia degli Atridi; nella stradina in discesa che dalla Pnice porta al
Pireo, percorsa da Socrate e Glaucone all’inizio della Repubblica, e
chissà quante volte da Platone, dopo la morte dell’amato maestro; sotto le mura
di Troia dove si svolsero i duelli mortali fra Ettore, Patroclo, Achille.
I luoghi fanno le storie e i luoghi sono depositi di memoria di cui si
nutrono le storie; Nucci studioso del mondo greco, e narratore, sa bene che non
possiamo capire il mondo antico senza riappropriarci dei suoi spazi, reali e
dell’immaginario. Il pianto occupava un enorme spazio nel mondo omerico,
essendo legato alla memoria, alla percezione della finitezza umana e alla
definizione dell’identità. Hannah Arendt, in un fine passaggio de La vita
della mente, sottolinea che presso i Feaci Ulisse piange al canto dell’aedo
Demodoco perché sente parlare di sé in terza persona, l’oggettivazione da parte
altrui delle proprie sventure è fonte di identità; Ulisse sa chi è proprio
mentre si abbandona a quella scomposizione momentanea di ragione, controllo e
corporeità che, fisiologicamente, è il pianto.
Tuttavia, a un livello più profondo, il libro di Nucci sembrerebbe
attingere il suo innesco da una domanda implicita, la cui spia più evidente è
nella dedica a Zdenek Zeman: siamo disposti a concedere altrettante
manifestazioni di emotività ai nostri eroi di oggi, e a noi stessi? Tutti noi
cresciuti nel divieto o nella riprovazione delle lacrime, specie se pubbliche,
specie se piante da un uomo?
Questo divieto, che tanto ci separa dal mondo di Omero, è indissolubile
dalla negazione e rimozione della morte che la società dei consumi e
dell’edonismo ha innalzato a ideologia, come spiegava già Philippe Ariés nella
sua Storia della morte in Occidente, ed è la ragione per cui andiamo ai
funerali con gli occhiali scuri e ci vietiamo le lacrime, a volte perfino con
gli amici. Eppure non è cosa di oggi.
Anzi, Nucci ci insegna che proprio dal padre del pensiero occidentale,
Platone, scaturì il più forte anatema verso le lacrime, definite materia da
donnicciole, non da uomini di governo. Se Platone in cuor suo si univa alle
lacrime congiunte di Priamo e Achille, nemici stretti da un abbraccio di
mortalità che comprende il figlio Ettore e l’amico Patroclo non meno che loro
stessi, nel XXIV libro dell’Iliade, nella realtà del suo tempo il
filosofo riteneva che per educare uomini adatti al governo quelle effusioni
fossero da bandire.
E così l’età perduta iniziava già con Platone e sanciva la distanza
da un mondo in cui gli eroi si misuravano nella loro grandezza anche, e
soprattutto, per la maniera in cui accettavano la morte e il dolore: con calde
lacrime di riconoscimento, di sottomissione allo scorrere di un flusso
superiore, perché nelle lacrime – liquido vitale – c’era tutta la
consapevolezza dialettica di avere un corpo ed essere un corpo
(mortale).
A quanto argomenta Nucci, si può aggiungere che Platone avvertì il pericolo
che le lacrime incrinassero il dominio razionale su quella sfera tanto
problematica che era per lui il corpo, ed ebbe consapevolezza che il pianto
come gesto sociale, al pari del riso, fosse un potentissimo elemento normativo.
Il grande trasloco verso la metafisica operato dal filosofo imponeva che si
diffidasse di eruzioni emotive che riportavano con forza la psiche alle sue
contraddizioni. Con la stessa ambigua distanza presa rispetto alla poesia,
anche le lacrime per Platone dovevano essere una rinuncia sofferta ma
necessaria; chi poteva garantire della loro autenticità, del loro contenuto di
verità, del loro controllo?
E noi, non siamo ancora a interrogarci sul significato profondo, sul
significato vero delle lacrime del Ministro del lavoro, Elsa Fornero, piante in
pubblico all’annuncio della riforma del sistema pensionistico?
Questo articolo è già apparso su «alias - il
manifesto» il 30
giugno 2013.
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