21 giugno 2013

SULLA MUSICA POPOLARE AMERICANA




Riprendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/ il seguente documento:


SANDRO PORTELLI – LA MUSICA POPOLARE NEGLI USA

Non esiste un equivalente di Bandiera rossa negli Stati Uniti. E nemmeno di Nostra patria è il mondo intero o dell’Inno dei lavoratori. In realtà, nonostante molti dei protagonisti del revival e della riproposta della canzone popolare siano stati interni o vicini ai movimenti comunisti, socialisti o anarchici (da Woody Guthrie a Pete Seeger, da Joe Hill a Utah Philips, da Alan Lomax a Barbara Dane), e sebbene l’idea della «connessione fra musica popolare, politica di sinistra e forse uno stile di vita bohémien sia radicata nella popular culture americana», tanto che ancora nel 1963, la Fire and Police Research Association di Los Angeles chiedeva un’indagine parlamentare sulla musica popolare come «strumento segreto della guerra psicologica o cibernetica del comunismo per catturare e imprigionare le giovani menti»[i], tuttavia comunismo, socialismo e anarchismo non sono mai stati negli Stati Uniti movimenti popolari di massa talmente radicati nella vita delle classi non egemoni al punto di generare un repertorio musicale nato nella tradizione orale o diventato parte di esso come nel caso italiano. D’altro canto, assai più che in Italia, e in larga misura grazie all’intenso rapporto fra musica e religione, la cultura popolare americana ha sempre fatto un uso intenso della musica, e questo si è esteso a gran parte dei movimenti sociali del Ventesimo secolo, senza specifiche connotazioni ideologiche o di schieramento ma esprimendo spesso la protesta e la soggettività del mondo popolare.
All’inizio degli anni Trenta, il Composers’ Collective – un gruppo di musicisti colti vicini o interni al Partito comunista – era alla ricerca di forme musicali sperimentali e di avanguardia, che esprimessero anche formalmente il ruolo innovatore e la visione del futuro attribuita al partito, senza peraltro riuscire a proporre musica che coinvolgesse in alcun modo la base e in cui lavoratori potessero riconoscersi. A metà anni Trenta, nel pieno della politica dei fronti popolari (che negli Stati Uniti significava dialogo con il New Deal), Earl Browder, segretario del Partito comunista americano, coniò lo slogan «Communism is twentieth century americanism», il comunismo è l’americanismo del Ventesimo secolo. Contemporaneamente (e se ne parlerà più avanti), intellettuali vicini alla sinistra come Theodore Dreiser o Alan Lomax venivano scoprendo le canzoni di lotta dei minatori del Kentucky, i messaggi impliciti di protesta del blues, le storie operaie raccontate in tanta country music anche commerciale. Fu allora che divenne logico e legittimo (anche sull’esempio della funzione attribuita al folklore nell’Unione Sovietica) andare a cercare in una tradizione popolare viva e articolata linguaggi che esprimessero resistenza, protesta e identità di classe anche senza necessariamente riflettere una linea politica. Così, in un clima di unità popolare dentro la crisi, alla ricerca delle fondazione di un’America nuova, nasceva il folk revival[ii].
Da che parte stai?
All’inizio del 2012, Ani DiFranco – una musicista indipendente e abbastanza inclassificabile, che ama definirsi folk singer[iii] – ha pubblicato un album intitolato Which Side Are You On?, da che parte stai? Poche settimane prima era andata a Manhattan per cantare la canzone che dà il titolo al disco al raduno del movimento Occupy Wall Street.
… Thirty years of digging got us in this hole
The curse of Reaganomics has finally taken it’s toll
Lord knows the free market is anything but free
It costs dearly to the planet and the likes of you and me
I don’t need no money lenders sucking on my tit
A little socialism don’t scare me one bit
We could do a lot worse than Europe or Canada
Come on, Mr. President, come on Congress, make the law!
Which side are you on now? Which side are you on?
They say in Orleans Parish there are no neutrals there
TherÈs just too much misery, therÈs too much despair
America, who are we, now our innocence is gone?
Forgive us Mother Africa, history’s done you wrong…
Which side are you on now?
Which side are you on?…
Sono trent’anni che ci scavano il terreno sotto i piedi e adesso abbiamo toccato il fondo; stiamo pagando il prezzo per la maledizione dell’economia reaganiana. Lo sa Iddio che il libero mercato è tutt’altro che libero, costa caro al pianeta e alla gente come noi. Non mi servono usurai che mi succhiano le tette, un po’ di socialismo non mi spaventa per niente; potremmo andare ben oltre l’Europa o il Canada – avanti, signor Presidente, avanti Congresso, fate questa legge – da che parte state? da che parte stai? Dicono che nella provincia di New Orleans non si può essere neutrali; c’è troppa sofferenza, troppa disperazione. America, chi siamo adesso che la nostra innocenza è perduta? Perdonaci, Madre Africa, la storia ti ha fatto torto. Da che parte stai? da che parte state?[iv]
Which Side Are You On? ha una lunga storia nei movimenti americani. La scrisse Florence Reece, moglie di un minatore di Molus, al confine fra Harlan e Bell County, nei monti Appalachi del Kentucky. Era il 1931, i minatori erano in sciopero – «ma non lo chiamerei sciopero, era una guerra contro la fame», racconterà poi uno di loro, Tillman Cadle[v]. Le guardie private delle compagnie minerarie, legalizzate come delegati dello sceriffo J.H. Blair, sparavano, picchiavano, uccidevano. Abbandonati dal sindacato tradizionale, i minatori avevano aderito a un sindacato di orientamento comunista, la National Miners Union. Sam Reece, marito di Florence, minatore e attivista sindacale, era stato costretto a nascondersi ed entrare in clandestinità per non essere ucciso. Racconta Florence Reece:
I sicari dello sceriffo vennero a casa nostra parecchie volte a Molus, quando Sam era stato cacciato via. Entrarono in tutte le stanze, frugarono in tutti i cassetti e da tutte le parti. Alzavano i materassi e se trovavano una lettera o un pezzo di carta lo portavano via. [...] Sentii che dovevo fare qualche cosa. I bambini avevano le gambe magre e le pance gonfie. Tanti uomini non si reggevano in piedi per la fame. Ci mancava tutto. Non avevamo neanche un pezzo di carta, così […] strappai il calendario dal muro e mi misi a sedere e scrissi le parole sul retro della pagina[vi].
Come all of you poor workers, good news to you I’ll tell
How the good old union has come in here to dwell
Which side are you on? which side are you on?
They say in Harlan County there are no neutrals there
You’ll either be a union man or a thug for J. H. Blair.
Which side are you on? which side are you on?…
Venite, lavoratori poveri, ho buone notizie per voi: il nostro caro sindacato è venuto qui per restare. Da che parte state? da che parte stai? Dicono che a Harlan County nessuno è neutrale: o stai col sindacato, o sei un sicario dello sceriffo Blair. Da che parte stai? Da che parte state?[vii]
Which Side Are You On? è diventata per i movimenti americani un po’ come Bella Ciao per noi, sempre riusata e sempre aggiornata nel corso dei decenni: io ricordo di aver visto Florence Reece cantarla, insieme con il grande folk singer Pete Seeger, all’ultima grande manifestazione sindacale nazionale, il Solidarity Day del 1982 a Washington, contro la politica economica del governo Reagan. Prima di allora era stata adottata, con testo adattato alle diverse situazioni, dal movimento per i diritti civili e dai minatori inglesi in sciopero negli anni Ottanta, ed era stata cantata e incisa da musicisti impegnati come Billy Bragg e Natalie Merchant[viii]. La canzone era apparsa anche in altri momenti recenti di mobilitazione, dalla lotta per i diritti sindacali in Wisconsin alle manifestazioni di Occupy a St. Louis o a Nashville[ix]. È logico quindi che già prima di Ani DiFranco fosse arrivata a Occupy Wall Street: in un video datato ottobre 2011 che circola su www.youtube.com, si vede un gruppo di giovani musicisti, con strumenti acustici e fatti in casa, che la cantano in mezzo alla strada, circondati da gente che balla e si unisce al coro cantando il refrain: «Da che parte stai? da che parte state?»[x].
La stessa Ani DiFranco era andata a cantarla dal vivo a Wall Street, con le nuove parole scritte per l’occasione; nel disco, dà atto della storia della canzone (e dei movimenti), introducendo la sua versione con il banjo acustico di Pete Seeger, il grande folk singer che non meno di settant’anni fa, nel 1941, per primo la incise con lo storico gruppo degli Almanac singers[xi]. C’è però una differenza fra le due performance di questa canzone da parte della stessa artista, in due contesti diversi. Quella incisa sul disco è elettrica e aggressiva, con fiati, percussioni, basso elettrico, colorature blues, che risuonano con una sensibilità contemporanea. Quella eseguita in piazza, in conformità sia con le condizioni materiali della performance sia con il divieto poliziesco di qualunque forma di amplificazione, era acustica, voce e chitarra, e col ritornello ripetuto insieme dai presenti come in un gospel.
Sono in ultima analisi i due modi in cui la musica è entrata in rapporto con i movimenti: da un lato, al loro stesso interno, adeguandosi alle condizioni materiali condivise e offrendosi alla dimensione partecipativa immediata con i mezzi più semplici e disponibili; dall’altro, raccontandone la storia e rilanciandone i significati attraverso i media e le tecnologie a mano a mano emergenti. Da un lato, dunque, parte del movimento dall’altro, una «diretta risposta»[xii] ad esso, un commento, un’eco amplificata. Che sono poi anche due modi di decidere da che parte stare: scendere in strada con gli altri; esprimere pubblicamene un sentimento, una solidarietà, un’opinione.

Cantare come parlare
Cominciamo dalla cosa più insolita, eppure raramente notata, come se fosse scontata: ma come viene in mente, a una a cui vogliono ammazzare il marito e stanno distruggendo la casa, di mettersi a scrivere una canzone?
Al termine di un memorabile viaggio di ricerca sul campo in Appalachia, compresa Harlan e Bell, l’etnomusicologo inglese Cecil Sharp scriveva: «per la prima volta in vita mia mi sono trovato in una comunità in cui cantare è naturale come parlare». C’è un video girato nel 1973 allo Highlander Center for Social Research (un centro alternativo di formazione di quadri dei movimenti, nato negli anni Trenta), in cui Sarah Ogan Gunning – un’altra grande folksinger proletaria di Harlan – canta le sue canzoni, storie della sua vita che spiegano perché «odia il sistema capitalistico», stando seduta senza alterare in nessun modo il linguaggio del corpo: canta precisamente come se parlasse, con la stessa naturalezza, senza atteggiarsi in alcun modo. La canzone è un dialogo con gli amici e i familiari seduti intorno; non è spettacolo, non è neanche necessariamente pensata come creazione artistica ma è solo un modo per continuare a parlare cercando una forma per spiegare quello che ha vissuto e quello che pensa[xiii]. Anche quando Florence Reece butta giù i versi di Which Side Are You On?, questo è un modo sia per esprimere la propria rabbia, sia per controllarla grazie alla forma metrica e musicale, sia per condividerla.
D’altra parte, in tutta la tradizione del canto e dell’oratoria religiosa popolare, bianca come afro-americana, in cui anche Florence Reece e Sara Ogan sono immerse, il confine fra parlato e cantato è molto labile e viene continuamente attraversato nei sermoni dei predicatori battisti, evangelici, pentecostali. Infatti Which Side Are You On?, come tante altre canzoni di lotta, è l’incontro fra due tradizioni. Da un lato, l’incipit testuale Come all you, che caratterizza la canzone occupazionale in tutta l’area anglofona, tanto che le canzoni di mestiere vengono usualmente chiamate proprio comeallyes[xiv]. Dall’altro, come lei stessa ricordò più volte, le parole sono adattate all’aria di un canto religioso di origine inglese, Lay the Lilies Low.
È logico che Florence Reece avesse nelle orecchie l’aria di un inno di chiesa. Fin dall’avvento del metodismo e dai grandi revival evangelici del 1740 e del 1802, il rapporto fra musica popolare, spiritualità collettiva e movimenti è stato di continuo scambio e comunicazione. A fine Settecento, Rowland Hill, predicatore metodista inglese, pose la celebre domanda: «Ma perché tutte le musiche più belle ce le deve avere il diavolo?»[xv]. Da allora, gli inni di chiesa adottarono le melodie e la metriche delle canzoni popolari. Ma impadronendosi di questa musica le nuove chiese metodiste, battiste, evangeliche, pentecostali, non fecero che assicurarne la diffusione e la continuità, fino a restituirle col tempo ai movimenti e ai soggetti sociali da cui erano nate.
D’altronde, i grandi revival religiosi del Settecento e Ottocento erano essi stessi movimenti spontanei di massa, portatori di visioni alternative rispetto alle gerarchie sociali e culturali del tempo. Il revival del 1740 sancisce la crisi dell’egemonia puritana e prepara il fervore emozionale che culmina anche nella Rivoluzione del 1776; il revival del 1802 inventa (anche sull’esempio afro-americano) forme di religiosità partecipata, spontanea, emozionale, espresse anche con canti improvvisati, flessibili e collettivi che esprimono il nuovo ethos egalitario della frontiera in grandi raduni all’aperto che anticipano Woodstock e i megaconcerti rock. Non è un caso che uno dei più originali gruppi rock degli anni Sessanta e Settanta – Creedence Clearwater Revival – prendesse il nome proprio da uno dei grandi raduni del revival religioso di inizio Ottocento, non tanto per condividerne la teologia quanto per riconoscervi una delle fonti della propria musica e cultura. Il fervore emozionale della religiosità di frontiera intride tutta la storia del rock and roll – basta pensare al Jerry Lee Lewis di Great Balls of Fire o al simil-sermone improvvisato da Bruce Springsteen nel suo concerto dal vivo alla Carnegie Hall; e il confine fra il gospel e il rock è stato attraversato in più di una direzione e non senza turbamenti da artisti come Sam Cooke e Little Richard o Aretha Franklin[xvi].
Sul terreno del canto religioso prende forma il primo grande corpus di canti di liberazione in America: gli spiritual afro-americani. Molti di questi canti sono riletture della narrazione biblica in termini di lotta e di liberazione: l’esodo dall’Egitto («Go down, Moses, down in Egypt land/Tell old Pharaoh to let my people go»), la battaglia di Gerico («Joshua fit the battle of Jericho/And the walls came tumbling down»), la ribellione di Sansone («If I had my way, I would tear this building down») – e ancora, Davide e Golia, Daniele nella fossa dei leoni, la passione e la resurrezione di Cristo…[xvii].
Sarebbe peraltro riduttivo leggere gli spiritual solo come allegorie di liberazione terrena: la relazione fra schiavitù del corpo e schiavitù dell’anima nel peccato è sempre presente, e la dimensione terrena e quella oltremondana si intrecciano e si illuminano a vicenda. Uno dei canti più famosi e ricordati – «O freedom, o freedom over me/And before I’ll be a slave/I’ll be buried in my grave/And go home to my Lord and be free» – esprime contemporaneamente sia la speranza di una libertà oltre la morte, sia l’attesa di una liberazione più immediata («pensano che ‘il Signore’ sono i nordisti», spiegò uno schiavo fuggiasco a Thomas Wentworth Higginson, comandante di un reggimento di soldati neri durante la Guerra civile)[xviii]. Tutto dipende da come leggiamo quel «before»: se lo traduciamo con «prima», significa la speranza del paradiso; se invece lo traduciamo con «piuttosto» significa che chi canta è disposto anche a morire per essere libero. Ma quello che conta è che tutti e due i significati stanno nella stessa parola.

Musica da usare
Quello che rende così immortale un canto elementare come O Freedom è soprattutto la sua forma modulare: sulla base di un refrain semplice e fisso, facile da imparare appena sentito, si innesta un elemento mutevole che può essere improvvisato e aggiornato di volta in volta: «No more weeping, no more weeping over me… No more sorrow, no more sorrow…». In questo modo, anche chi lo sente per la prima volta può non solo impararlo immediatamente, ma anche contribuire a ricostruirlo ed eventualmente aggiornarlo ogni volta in modo diverso. Perciò questo tipo di canti, nati nell’improvvisazione collettiva dei camp meetings e delle squadre di lavoro nelle piantagioni e nelle prigioni, si presta in maniera mirabile alle situazioni di movimento e all’espressione collettiva, intrecciando strofe memorizzate e versi improvvisati, il tempo della memoria e il tempo del presente.
Già dalla fine degli anni Cinquanta, O Freedom acquistava strofe che dicevano «No more segregation, no more segregation over me» e si piegavano alle diverse situazioni locali denunciando con nome e cognome i vari aguzzini razzisti: «No more Pritchett…»[xix]. Allo stesso modo, un altro spiritual di origine orale attraversa contesti e movimenti. Come canto religioso è stato registrato, per esempio, da Bruce Jackson in un campo di lavoro forzato del Texas negli anni Sessanta:
I shall not, I shall not be moved
I shall not, I shall not be moved
I shall not, I shall not be moved
Just like a tree that’s standing by the water
I shall not be moved .
Non mi muoverò, non cederò; come un albero piantato sulla riva del fiume, non mi muoverò
Anche qui, mentre il distico finale rimane fermo, il verso ripetuto all’inizio cambia di volta in volta. Io avevo già ascoltato questa canzone, in versione sindacale, nello stesso disco degli Almanac Singers che conteneva Which Side Are You On?, in versione di canto sindacale. Più che la fermezza della fede, la figura dell’albero piantato sulla riva del fiume rappresenta la resistenza dei picchetti e delle occupazioni (nel film Harlan County, usa di Barbara Kopple è cantato dalle donne durante un blocco stradale). Oltre all’inserimento di riferimenti al conflitto operaio, il cambiamento principale era che adesso il refrain non dice più «I» ma «We shall not be moved»: è quel percorso dall’individuale al collettivo che fa della canzone un inno, come quando lo spiritual I’ll Overcome Someday (cantato da braccianti in sciopero in North Carolina) diventa We shall overcome[xxi].
We Shall Not Be Moved diventa allora la canzone di tutte le lotte sindacali: diffusa dal sindacato interrazziale dei braccianti e mezzadri dell’Arizona negli anni Trenta, è adottata (No nos moverán) dai campesinos della California in sciopero negli anni Sessanta; la sentii cantare nella manifestazione sindacale nazionale del 1982 a Washington e dal movimento contro la guerra del Vietnam, con qualche ironica variante («Nixon is a bastard, he shall be removed» – «Nixon è un bastardo, lo rimuoveremo»); e fa in tempo anche a ritornare nel movimento per i diritti civili («We are fighting for our freedom, we shall not be moved… We are black and white together, we shall not be moved…»: «lottiamo per la libertà, siamo bianchi e neri insieme, non ci muoveremo…»). Né questo impedisce che continui a vivere anche nel suo contesto e nella sua forma originaria: nel 2008, lo sentii cantare, con crescendo travolgente di coinvolgimento e passione, in una chiesa pentecostale di Harlan County: «Fighting sin and Satan, I shall not be moved…» («in lotta contro il peccato e il demonio, io non cederò…»)[xxii].
È questa qualità che, intrecciando la forma flessibile adatta all’improvvisazione collettiva con i messaggi di liberazione degli antichi spiritual fa del movimento per i diritti civili un singing movement, un movimento che non solo si esprime attraverso le canzoni, ma che attorno ad esse si organizza, ritrova unità, identità, valori. I leader delle lotte sono anche i leader dei canti – è il caso di Fannie Lou Hamer come di Matt Jones, Bernice Reagon e tanti altri[xxiii].
Su un piano metodologico, possiamo vedere anche nell’uso della musica la differenza fra il movimento dei diritti civili e i movimenti militanti del nazionalismo rivoluzionario nero degli anni seguenti. Nel primo, la musica è parte integrante dei movimenti di mobilitazione e di lotta, il canto nasce immediatamente nelle situazioni collettive, nelle strade, nelle chiese, nelle prigioni[xxiv]. Nel secondo, la musica è invece differita rispetto ai momenti di scontro («non hai tempo per cantare, sei troppo occupato a picchiare», diceva Malcolm X, giocando sul contrasto fra singing e swinging)[xxv] e prende forma soprattutto nei media, nei dischi, nelle radio; qualche volta le canzoni sono opera di artisti che militano nelle formazioni rivoluzionarie (è il caso di Elaine Brown e il Black Panther Party: «We shall have to get guns and be men», «dovremo prendere le armi ed essere uomini» – cantato da una donna…). Spesso si tratta soprattutto di commenti ed esortazioni da parte di artisti professionisti che simpatizzano per i movimenti e fanno eco ad alcuni dei loro messaggi (James Brown: «Say It Loud, I’m Black and I’m Proud», «dillo forte, sono nero e fiero»)[xxvi]. Anche le forme sono molto diverse: gli idiomi jazz e rhythm and blues di Elaine e di James Brown sono fatti molto più per essere ascoltati che per essere cantati e condivisi – tanto più che nel movimento dei diritti civili prevale il principio folklorico del riuso creativo di materiali preesistenti, più che non quello della creazione ex novo di composizioni originali. Sono differenze che riguardano certo la diversità generazionale, e le differenze fra un movimento dei diritti civili radicato nel Sud e in larga parte in contesti rurali e religiosi, e i movimenti nazionalisti urbani e laici del Nord; ma riflettono anche una diversa relazione fa avanguardie e masse, una diversa forma dei movimenti, un diverso rapporto fra slogan rivoluzionari e rivendicazioni identitarie nei movimenti nazionalisti e partecipazione di massa nel movimento per i diritti civili.

Wobblies
Joseph Hillstrom, immigrato svedese, più noto come Joe Hill, è passato alla storia, e al mito, sia come martire simbolico dei movimenti rivoluzionari (condannato a morte a Salt Lake City nel 1915 per un delitto che non aveva commesso), sia come autore di molte canzoni nate all’interno della storia e delle lotte del sindacalismo rivoluzionario degli Industrial Workers of the World (alias, wobblies) nei primi vent’anni del Novecento[xxvii].
Long-haired preachers come out every night
try to tell us what’s wrong and what’s right
but when asked about something to eat
they will answer in voices so sweet:
You will eat, bye and bye
in that glorious land in the sky
work and pray, live on hay,
you’ll get pie in the sky when you die.
Predicatori pelosi ogni sera ci vengono a spiegare quel che è bene e quel che è male; ma se gli parli di qualcosa da mangiare, ti rispondono con voci dolcissime: mangerai, prima o poi, nella gloriosa terra del cielo; prega e lavora, campa di fieno, avrai la torta nel cielo da morto[xxviii].
La base più ampia dei iww era costituita dai lavoratori migranti e stagionali, e niente è più leggero, resistente, semplice, trasportabile e ripetibile di una canzone. Anticipando il movimento dei diritti civili, gli Industrial Workers of the World estenderanno la rivendicazione del diritto di parola alla pratica della musica. Saranno un singing movement, in cui il militante tipo gira l’America portandosi in tasca due cose: la tessera che lo fa riconoscere come compagno dovunque vada, e il canzoniere rosso, The Little Red Songbook, il cui fine dichiarato in copertina era di «fan the flames», alimentare le fiamme della rivolta.
Molti anni fa, Diego Carpitella faceva notare come nel canzoniere partigiano della Resistenza sia impossibile individuare uno stile, un linguaggio, un genere unitario: semplicemente, i partigiani usavano e riusavano di tutto, canzoni epico-liriche della tradizione orale, girotondi, canzonette, parodie di canzoni fasciste, inni sovietici, filastrocche[xxix]. Lo stesso vale per il canzoniere rosso degli iww: riusano e capovolgono ogni cosa su cui possono mettere le mani, creando canzoni d’uso su arie familiari conosciute, facili da ricordare, cantare e magari cambiare ognuno a gusto proprio. Così, già in prigione, Joe Hill prende una canzonetta in voga e ci scrive dolcissimi versi d’amore per Elizabeth Gurley Flynn, la storica dirigente comunista: «Ci sono dame di ogni genere, ornate di perle e di diamanti, ma l’unica, vera signora è lei, la rebel girl».
I cantori wobbly – Joe Hill, T-Bone Slim, Mac McClintock, Ralph Chaplin… – inventano le loro canzoni all’interno dei momenti di lotta. È durante un sanguinoso sciopero in West Virginia che Ralph Chaplin prende il patriottico Glory Glory Hallelujah e lo trasforma in una canzone ancora oggi molto amata da quel che resta del sindacato in America, Solidarity Forever: «quando l’ispirazione del sindacato scorrerà nelle vene dei lavoratori, non ci sarà forza più potente sotto il sole…». Durante uno sciopero di lavoratori del legname nel Nordovest, Joe Hill prende un amatissimo inno battista – There is power in the blood of the Lamb, c’è potere nel sangue dell’Agnello – e canta «There is power in a band of working men, when they stand hand in hand», «c’è potere in una schiera di lavoratori, quando stanno uniti fianco a fianco». Sono tutte canzoni che nascono da un’occasione particolare e poi viaggiano leggere e inafferrabili, con ciascun singolo wobbly, da un capo all’altro del paese, diffondendosi in mille varianti e adattandosi a situazioni diverse.
Un tratto distintivo di questo repertorio è il modo in cui gli iww fanno ricorso (come anche nella loro straordinaria grafica rivoluzionaria)[xxx] soprattutto all’ironia, al senso dell’umorismo, alla satira. Le loro parodie sono quasi sempre sarcastiche prese in giro dell’originale parodiato, che denunciano l’ipocrisia della cultura dominante nell’enunciare le visioni del movimento rivoluzionario. Così, The Preacher and the Slave, citata sopra, è una parodia dell’inno dell’Esercito della Salvezza, che funziona per il perfetto calco dei suoni originali che trasforma «We will meet bye and bye» in «You will eat bye and bye» e «Salvation Army» in «Starvation Army» – esercito della magrezza? – ma anche per l’eloquenza della rivendicazione finale:
Working men of all countries unite
side by side for freedom we will fight
when this world and its wealth we have gained
to the grafters we’ll sing this refrain:
you will eat, bye and bye
when you learn how to cook and to fry
chop some wood, it’ll do you good
and you’ll eat in the sweet bye and bye.
Lavoratori di tutto il mondo unitevi, lottiamo fianco a fianco, e quando avremo conquistato questo mondo e la sua ricchezza agli sfruttatori canteremo così: mangerai, prima o poi, quando imparerai a friggere e cucinare; spacca un po’ di legna, ché ti fa bene, e mangerai nel dolce aldilà.
L’arte della parodia è di non far dimenticare il testo parodiato, ma di ricordarlo per decostruirlo il più da vicino possibile. Nessuno faceva questa cosa meglio dei wobblies: una preghiera a Gesù, «A little talk with Jesus makes it right», «due parole con Gesù sistemano tutto» – diventa una ironica trattativa dei sindacati gialli col padrone – «A little talk with Golden makes it right», quattro chiacchiere con Golden sistemano tutto. Le canzoni rendono immortali personaggi satirici come Scissor Bill (Bill la forbice, lo scissionista, l’individualista che si taglia fuori dalla solidarietà della lotta), o Casey Jones – un’altra parodia dove lo sfortunato macchinista morto in un disastro ferroviario di cui raccontava una popolare canzone diventa un crumiro che nonostante lo sciopero manda avanti la sua insicura carretta di treno, deraglia, muore, va in paradiso – dove gli angeli sono in sciopero, lui fa il crumiro anche lì e viene spedito a spalare zolfo all’inferno.
Sono canzoni intrise di una ruvida coscienza di classe e di un radicale rifiuto del sistema capitalistico, e dell’etica del lavoro: Mac McClintock, che conobbe Joe Hill e partecipò agli scioperi che lui organizzava, ha continuato per quarant’anni a cantare Hallelujah, I’m a Bum, l’inno del vagabondaggio rivoluzionario: «mi dice una signora, perché non lavori come tutti gli altri? Ma come si fa lavorare quando il cielo è così azzurro?». Più recentemente, l’ultimo grande epigono del canto wobbly, Utah Phillips, cantava All Used Up – «i miei figli sono in pegno a un dio che chiamano lavoro», un dio in cui nome «distruggono l’acqua, distruggono l’aria, distruggono gli alberi, e distruggeranno anche loro – che ne sarà di noi quando saremo tutti all used up[xxxi].
Spesso le canzoni descrivono la condizione proletaria (la «schiavitù del salario») in termini abbastanza truci; ma almeno in una canzone di Ralph Chaplin, The Commonwealth of Toil, il dolcissimo, nostalgico andamento del motivo (ripreso da una canzone di Stephen Foster, l’autore di Oh Susannah!) genera un’aura di utopia, di desiderio e di sogno che culmina nel ritornello: «Ma noi abbiamo un sogno splendente, di quanto bello sarà il mondo quando ognuno potrà vivere lieto e sicuro, quando il mondo apparterrà a chi lavora e ci saranno pace e gioia per tutti nella comunità del lavoro che verrà». Quella che oggi per conservatori e liberali si presenta come un’opposizione – o libertà o sicurezza – per i sognatori wobbly era una coppia inscindibile: saremo sicuri quando saremo liberi.
Alla fondazione degli iww nel 1905 parteciparono anche esponenti del socialismo americano; ma la citazione dal Manifesto di Marx ed Engels nella canzone di Joe Hill non significa che si trattasse di un movimento socialista o comunista; anzi, gli iww si separarono presto dai socialisti ed ebbero rapporti molto burrascosi con il partito comunista. Tuttavia, come nel caso del canzoniere anarchico in Italia, le canzoni degli iww sono diventate patrimonio di un’area molto più vasta. È in ambito comunista che nasce nel 1936, con il testo di Alfred Hayes e la musica di Earl Robinson, la canzone che più di ogni altra ha consolidato l’immagine e la memoria di Joe Hill grazie alla memorabile performance di Paul Robeson e, più tardi, di Joan Baez:
I dreamed I saw Joe Hill last night
Alive as you and me
Says I, «But Joe, you’re ten years dead»,
«I never died», says he, «I never died», says he. […]
«From San Diego up to Maine
In every mine and mill
Where workers strike and organize»,
Says he, «You’ll find Joe Hill», says he, «You’ll find Joe Hill».
Ho sognato Joe Hill stanotte, vivo come te e come me. Dico, ma Joe, sei morto da dieci ani; e lui: non sono morto mai… Da San Diego fino al Maine, in ogni miniera e fabbrica, dove i lavoratori lottano e si organizzano, è lì che troverai Joe Hill[xxxii].
Un paio di anni dopo, John Steinbeck mise parole simili, ispirate da questa canzone, in bocca a Tom Joad, protagonista di Furore. Attraverso il romanzo, il film con Henry Fonda che ne viene tratto, e la ballata in cui lo traduce Woody Guthrie, queste parole arrivano fino a Bruce Springsteen, The Ghost of Tom Joad, e al rock duro militante di Rage Against the Machine.

Radici alternative
Alla fine del 1931, durante lo sciopero di Harlan County, la National Miners Union e il comitato di scrittori diretto da Theodore Dreiser organizzarono una assemblea nella chiesa pentecostale di Straight Creek. La prima a prendere la parola fu Anne Magadelene Jackson, detta «Aunt» Molly Jackson. Invece di parlare cantò: Hungry Ragged Blues
All the women in the coal camps are sitting with bowed-down heads
Ragged and barefooted and the children cryin’ for bread.
No food, no clothes for our children, I’m sure this head don’t lie
If we can’t get more for our labor wÈll starve to death and die.
Tutte le donne nei villaggi di miniera siedono a testa china, stracciate e scalze, e i bambini piangono per il pane. Niente da mangiare, niente per vestire i bambini, so che non vi dico bugie: se non ci pagheranno di più il nostro lavoro faremo la fame e moriremo.
Come altri protagonisti dello sciopero, Molly Jackson e la sua famiglia finirono sulla lista nera e furono costretti a emigrare a New York dove Dreiser la introdusse negli ambienti della sinistra. È così che comincia il folk revival: con la scoperta da parte degli intellettuali progressisti e del pubblico urbano dell’esistenza alternativa e del potenziale antagonista della musica popolare rurale. Harlan era la prova che la musica popolare non era un residuo del passato ma un’espressione contemporanea della modernità, del fatto che la tradizione era processo in atto anziché passiva trasmissione di materiali in via di estinzione. L’«autenticità» non risiedeva più nell’incontaminata purezza di un folk isolato e fuori del tempo, ma nell’esperienza vivente dei protagonisti dei conflitti sociali. «Ecco che cos’è veramente una folk song», scrisse più tardi Molly Jackson: «le persone compongono le loro canzoni sulla loro vita e sulle persone di casa che vivono vicino a loro»[xxxiii].
Costretta a restare a New York dalla lista nera e da un incidente che la rese invalida, Molly Jackson divenne una vivida voce del movimento operaio, viaggiando per tutti gli Stati Uniti a parlare e cantare. Fu raggiunta nel 1935 a New York dal suo fratellastro Jim Garland, uno dei leader della lotta del 1931-32, e più tardi dall’altra sorellastra, Sarah Ogan. Sia Jim Garland che Sarah Ogan erano a loro volta cantori tradizionali e autori di memorabili canzoni militanti. Dopo l’uccisione di Harry Simms, giovanissimo sindacalista della nmu, Jim Garland aveva scritto:
Comrades we must vow today, this one thing we must do
We must organize all the miners in the good old NMU
And get a million volunteers into the YCL
And sink this rotten system in the deepest pits of hell.
Compagni, oggi dobbiamo giurare e prendere l’impegno di organizzare tutti i minatori nella NMU, portare un milione di volontari nella ycl (Young Communist League) e sprofondare questo marcio sistema negli abissi più profondi dell’inferno[xxxiv].
E Sarah Ogan:
I hate the capitalist system, I’ll tell you the reason why
They caused me so much suffering, and my dearest friends to die.
Oh yes I guess you wonder, what they have done to me
I’m going to tell you mister, my husband had TB.
Brought on by hard work and low wages, and not enough to eat
Going ragged and hungry, no shoes on his feet.
Odio il sistema capitalistico, e vi dirò la ragione: mi ha causato tante sofferenze e ha fatto morire le persone più care. Voi vi domanderete che cosa mi ha fatto, e vi dirò che mio marito aveva la tubercolosi, causata dal lavoro pesante e dalla paga misera, senza abbastanza da mangiare, e andare stracciato e affamato senza scarpe ai piedi[xxxv].
Sarah Ogan e Jim Garland furono «riscoperti» nel revival della canzone di protesta degli anni Sessanta e parteciparono al Newport Folk Festival del 1963[xxxvi]. Le loro canzoni, come quelle di Molly Jackson e Florence Reece sono state riproposte da musicisti di tutte le generazioni, da Pete Seeger a Uncle Tupelo, da Woody Guthrie a Hazel Dickens, Barbara Dane, Billy Bragg e Natalie Merchant. Ma non sono i soli a rappresentare il rapporto fra musica, politica, lotte sindacali: per esempio, John Handcock, mezzadro afro-americano che era stato fra i dirigenti della Southern Tenant Farmers Union, un sindacato interrazziale attivo in Arizona negli anni Trenta, creò e diffuse molte canzoni diventate poi patrimonio di tutto il movimento operaio:
On the eighteenth day of May the union called a strike
But the planters and the bossed throwed the people out of their shacks
There is mean things hapenning in this land
There is mean things hapenning in this land
But the union’s going on and the union’s ginmg strong
There is mean things hapenning in this land
[xxxvii]
Il 18 maggio il sindacato ha proclamato lo sciopero, ma i latifondisti e i padroni hanno sfrattato la gente dalle baracche in cui viveva. Cose malvage succedono in questa terra, ma il sindacato va avanti e il sindacato si fa forte; cose malvage succedono in questa terra.
Il clima degli anni della crisi del ’29 e della depressione, la crisi di sfiducia nel capitalismo generata dalla grande depressione, favoriscono una maggiore attenzione alle culture popolari e al mondo del lavoro – alle «radici dell’erba». Persino molte incisioni commerciali di country music e blues riflettono la protesta e la denuncia di operai tessili, braccianti, disoccupati in quegli anni difficili[xxxviii]. Questo processo di laboring della cultura americana, come l’ha definito Michael Denning, investe anche ambiti culturali come la letteratura (Grapes of Wrath di John Steinbeck, per esempio), la radio, il teatro (il memorabile musical Pins and Needles, prodotto nel 1937 dal sindacato ilgwu – International Ladies Garments Workers Union) e da progetti del New Deal che usano la fotografia (Farm Security Administration) e la storia orale (Federal Writers’ Project) per documentare e dare ascolto e visibilità al mondo popolare[xxxix].
In questo contesto si colloca anche il lavoro di Alan Lomax, con le sue campagne di ricerca sul campo in tutto il Sud e l’istituzione dell’Archive of American Folk Song all’interno della Library of Congress. La canzone popolare, scriveva Lomax, «è un’arte autenticamente democratica, che dipinge un ritratto del popolo senza pari per onestà e validità»[xl]. Nella sua incessante attività di ricercatore, divulgatore, organizzatore di cultura, Alan Lomax fu una figura centrale nella mediazione fra le culture popolari del mondo contadino, dai carcerati neri ai mezzadri bianchi, e i giovani intellettuali e attivisti urbani alla ricerca di forme di espressione e comunicazione adeguate alla nuova visione di un’America da Fronte popolare: un processo il cui momento simbolico forse più significativo è l’arrivo a New York di un giovane cantastorie dell’Oklahoma, che si era formato tra il sindacato e la radio in California, e che si chiamava Woody Guthrie.
Su Woody Guthrie si è scritto ormai moltissimo[xli]. Qui può valere la pena di sottolineare come nessuno più di Woody Guthrie abbia incarnato la sintesi fra l’individualismo ribelle della tradizione wobbly, il populismo radicale della frontiera, e una essenziale, quasi istintiva coscienza di classe fondata sull’esperienza vissuta più che sull’ideologia. Pensiamo per esempio alla sua canzone sul leggendario fuorilegge Pretty Boy Floyd, conclusa da versi che hanno un’innegabile risonanza con la crisi dei nostri giorni:
As through this world I’ve wandered
I’ve seen los of funny men;
Some will rob you with a six-gun,
And some with a fountain pen.
And as through your life you travel,
Yes, as through your life you roam,
You won’t never see an outlaw
Drive a family from their home.
Ho girato tutto il mondo, ho visto tanta gente strana: c’è chi ti rapina con la pistola, e chi con la penna stilografica. In tutto il viaggio della tua vita, in tutto il tuo vagabondare, non vedrai mai un fuorilegge che sfratta una famiglia dalla sua casa[xlii].
Con la studiata ingenuità che lo caratterizza, Woody Guthrie scriveva: «Certe parti di questo stato sono un sacco collinose, ma poi certe altre sono belle piatte o brutte piatte. Le parti collinose sono meno piatte delle parti pianeggianti. L’unica cosa che non va in questo stato sono i suoi padroni. Vorrei proprio riuscire a capire come hanno fatto a impadronirsene»[xliii]. L’assurdità della proprietà privata è il tema di alcune delle sue canzoni più famose e amate. Per esempio, Pastures of Plenty, dove intreccia l’amore per il paesaggio americano con l’epopea dei lavoratori migranti e la rabbia sarcastica verso la proprietà privata espresso dal semplice uso degli aggettivi possessivi:
I worked in your orchards of peaches and prunes
I slept on the ground in the light of your moon
On the edge of the city you’ll see us and then
We come with the dust and we go with the wind
California, Arizona, I harvest your crops
Well its North up to Oregon to gather your hops
Dig the beets from your ground, cut the grapes from your vine
To set on your table your light sparkling wine.
Ho lavorato nei vostri frutteti di pesche e di prugne, ho dormito per terra alla luce della vostra luna; sul margine delle vostre città ci vedete, e poi veniamo con la polvere e andiamo via col vento. California, Arizona, faccio il vostro raccolto e poi a nord fino all’Oregon per raccogliere il vostro luppolo, estrarre le barbabietole dal vostro terreno, tagliare l’uva dalle vostre vigne, per mettervi sulla tavola il vostro vino frizzante[xliv].
In questo modo, Woody Guthrie rovescia il significato dei simboli nazionali e patriottici, rivendicando il diritto dei lavoratori a farli propri, a sentirsi padroni della propria terra. Scritta nel contesto della guerra antifascista, Pastures of Plenty si conclude con l’affermazione di un patriottismo alternativo, in cui «le vostre valli» diventano «la mia terra»:
It’s always we rambled, that river and I
All along your green valley, I will work till I die
My land I’ll defend with my life if it be
Cause my pastures of plenty must always be free
Siamo sempre in viaggio, il fiume e io; lungo le tue verdi valli lavorerò fino a che vivrò, difenderò la mia terra con la vita se serve, perché i miei pascoli dell’abbondanza siano sempre liberi.
È una modalità che troverà eco in tempi più recenti nel Bruce Springsteen di Born in the usa e di We Take Care of Our Own. E non è un caso allora che il giorno dell’inaugurazione di Barack Obama a Washington fossero proprio Bruce Springsteen e il più diretto erede di Woody Guthrie, Pete Seeger, a cantare tutta intera la sua più famosa canzone, un inno alla grandezza e bellezza della sua terra, e una denuncia militante della proprietà privata che gli sbarra la strada:
There was a big high wall there that tried to stop me;
Sign was painted, it said private property;
But on the back side it didn’t say nothing;
This land was made for you and me.
C’era un gran muro che cercava di fermarmi, e su c’era scritto «Proprietà privata». Ma dall’altro lato non diceva niente: questa terra è fatta per te e per me[xlv].
«Quel giorno», ha detto Bruce Springsteen, «imparai una cosa fondamentale. Imparai che a volte le cose che arrivano da fuori si fanno strada dentro di te, e diventano parte del cuore che batte nella nazione, e quel giorno quando cantammo insieme quella canzone, americani giovani e vecchi, bianchi e neri, di qualsiasi credo religioso e politico, fummo uniti per un breve momento dalla poesia di Woody»[xlvi].

Guerra, pace e maccartismo
Torniamo a Which Side Are You On?. Qualche tempo dopo la fine dello sciopero di Harlan, Tillman Cadle – minatore, leader sindacale e folk singer, già in contatto con Alan Lomax e con la folklorista Elizabeth Barnicle – andò a trovare Sam e Florence Reece.
Dopo cena, [Sam] disse alle due figlie più grandi, perché non cantate quella canzone a Tillman? E la cantarono, e fu la prima volta che la sentii. Una delle ragazze aveva un taccuino e mi ci scrisse le parole. E quando andai a New York e vidi Pete, gli dissi, «Ho una nuova canzone per te, Pete, se la canti sono sicuro che sarà un successo». Certo, è un vecchio motivo che conoscono quasi tutti, così si misero a cantarla e non passò molto prima che qualcuno disse che la dovevano incidere[xlvii].
Pete Seeger aveva allora meno di vent’anni; aveva scoperto da poco la musica popolare, grazie a suo padre, il musicologo Charles, e frequentava il clan dei Garland, Woody Guthrie, Alan Lomax. Attorno a lui si formano nel 1940 gli Almanac Singers, una comune e un collettivo musicale aperto che fu il primo a portare il nuovo linguaggio musicale del folk revival e della canzone di protesta soprattutto negli ambienti sindacali e della sinistra viaggiando in tutti gli Stati Uniti. Cantavano le canzoni di Harlan County, di John Handcock, di Woody Guthrie, e altre composte da loro:
If you want higher wages, let me tell you what to do;
You got to talk to the workers in the shop with you;
You got to build you a union, got to make it strong,
But if you all stick together, now, ‘twont be long.
You’ll get shorter hours,
Better working conditions.
Vacations with pay,
Take your kids to the seashore.
Se vuoi una paga più alta, senti che devi fare, devi parlare coi lavoratori nel tuo reparto, fondare un sindacato, farlo crescere, ma se state uniti non passerà molto tempo che avrete meno ore di lavoro, condizioni di lavoro migliori, vacanze pagate per portare i bambini al mare…[xlviii].
Il primo disco degli Almanac Singers non era tanto una riproposta di canzoni popolari quanto una raccolta di loro composizioni (per lo più, nuovi testi su motivi tradizionali) che riproponeva fedelmente la linea del momento del Partito comunista, che nel periodo fra il patto Hitler-Stalin e l’attacco giapponese di Pearl Harbor si opponeva all’entrata in guerra degli Stati Uniti («the Yanks ain’t coming», gli Yankee non vengono, era lo slogan ripetuto agli Almanac nei loro concerti).
Oh, Franklin Roosevelt told the people how he felt
We damned near believed what he said
He said I hate war and so does Eleanor
But we won’t be safe ‘till everybody’s dead.
Franklin Roosevelt disse al popolo quello che provava, e noi quasi ci abbiamo creduto; disse, odio la guerra, e la odia anche [mia moglie] Eleanor, ma non saremo al sicuro finché non saranno tutti morti[xlix].
Solo dopo Pearl Harbor (e l’invasione dell’Unione Sovietica) il Partito e gli Almanac cambiarono linea: la guerra adesso era una lotta dei lavoratori, una guerra antifascista, per un mondo democratico e sindacale: «I’m a union man in a union war», cantava Woody Guthrie, incitando gli operai dei pozzi petroliferi a estrarre sempre più petrolio per i carri armati liberatori[l]. Il periodo della guerra e l’immediato dopoguerra segnano il momento del più stretto rapporto tra questi gruppi di folk singers militanti e la sinistra organizzata (anche se tutto sommato il partito non gli dava molta importanza). Nei primi anni del dopoguerra infatti, alla rapida perdita di influenza della sinistra organizzata (anche a causa della legislazione anticomunista che prepara il maccartismo) corrispondono tentativi di consolidamento organizzativo del movimento del folk revival, con la nascita di organizzazioni come People’s Songs e People’s Artists, dedite soprattutto alla produzione di nuove canzoni di impegno politico. In questa fase di restringimento e irrigidimento, non mancano nel piccolo mondo isolato della sinistra, conflitti interni che si riflettono, per esempio, in un filone di canzoni e parodie satiriche antistaliniste:
When I was a lad in 1906
I joined a band of Bolsheviks
I read the Manifesto and Das Kapital and
I even learned to sing the Internationale
And sang that song with a ring so true
That now I’m in the prison of the Gay-Pay-Oo
Quand’ero ragazzo nel 1906 entrai in un gruppo di bolscevichi, lessi il Manifesto e Das Kapital, imparai pure a cantare l’Internazionale – la cantavo con un timbro tanto sincero che adesso sono nelle galere della gpu[li].
L’impegno dei folk singer culmina con la partecipazione attiva alla campagna presidenziale del candidato progressista Henry A. Wallace nel 1948[lii]. L’esito negativo della campagna e l’accentuarsi della repressione segnano la crisi e l’isolamento del movimento.
L’evento che segna la chiusura dell’epoca cominciata con gli anni Trenta è il grande concerto organizzato il 27 agosto 1949 da People’s Artists a Peekskill, nello Stato di New York (non lontanissima da Woodstock), con la partecipazione di Pete Seeger e il grande cantante e attore comunista afro-americano Paul Robeson. Prima che il concerto potesse avere luogo, racconta lo scrittore Howard Fast, uno degli organizzatori, «700 teppisti, sedicenti reduci di guerra» attaccarono i primi spettatori arrivati sul posto gridando slogan razzisti e antisemiti, «vantandosi che avrebbero finito loro il lavoro cominciato da Hitler». Sfasciarono le sedie, bruciarono gli amplificatori e i microfoni, e «per tre ore solo un gruppo coraggioso di ragazzi bianchi e neri impedì che uccidessero donne e bambini». Una settimana dopo, con 25.000 spettatori e un servizio d’ordine garantito dai sindacati, il concerto si tiene lo stesso, ed è un grande successo. Ma il disastro avviene alla fine. Racconta Pete Seeger:
C’erano 900 poliziotti e membri della milizia statale a Peekskill. Permisero ai teppisti di schierarsi lungo quattro miglia di strada, e obbligarono tutto il traffico in uscita dal concerto di avviarsi attraverso quest’unico passaggio, e stettero a guardare mentre i teppisti prendevano a sassate le macchine e i pullman. Ci furono teste sfasciate, occhi tagliati dalle schegge di vetro. Rovesciarono macchine, strapparono fuori gli occupanti e li picchiarono. E la polizia guardava e rideva. Bande di teppisti scatenarono un regno di terrore in tutta Westchester County, fino a dentro New York e a Broadway. Poi la polizia si mosse. Si mosse per entrare nel prato e bastonare il servizio d’ordine del sindacato[liii].
«Hold the line», tenete fermo, non cedete, cantava Pete Seeger nelle hootenannies degli anni seguenti: come abbiamo tenuto fermo a Peekskill, resisteremo dovunque, finché ci sarà «freedom in the air», libertà nell’aria. La presenza della musica popolare continuerà nell’impegno di Pete Seeger e del suo nuovo gruppo dei Weavers (che ebbe anche un notevole successo commerciale, finché la lista nera li ridurrà al silenzio) e nelle hootenannies, i raduni informali e collettivi in cui – sia pure con un’attenuazione della connotazione politica – la musica popolare e la canzone d’impegno trovano ancora un rifugio per tutti gli anni Cinquanta. Ma i tempi erano cambiati[liv].

I tempi cambiano
The Times they are a-Changin’, cantava un ragazzo piovuto a New York dal Minnesota. Si chiamava Robert Zimmerman e si faceva chiamare Bob Dylan. I tempi stavano cambiando di nuovo, e la musica popolare e d’impegno li accompagnava. Ma anche se Bob Dylan si ispirava a Woody Guthrie (e tutti i nuovi giovani folksingers erano ribattezzati Woody’s Children), era un’altra storia. Da un lato, come abbiamo visto, il movimento per i diritti civili produce un nuovo linguaggio musicale che riusa e reinventa l’antico; dall’altro, tutta una generazione di giovani singer/songwriters – Phil Ochs, Tom Paxton, Richard Fariña, Eric Andersen, Mark Spoelstra… – accompagnano e seguono con le loro topical songs (canzoni d’attualità) le lotte per i diritti civili (Richard Fariña, «Birmingham Sunday»), la nuova identità generazionale, (Bob Dylan, The Times they are a-Changin’) l’opposizione alla guerra del Vietnam (Tom Paxton, The Willing Conscript; Phil Ochs, Cops of the World). Dall’altro, se l’etichetta folk assegnata a queste nuove voci vicine ai movimenti designa la prevalenza del suono acustico, l’intenzione politica, la contiguità in contesti (per esempio, il Newport Folk Festival) a cui partecipano anche artisti tradizionali o di riproposta (per tutti: Joan Baez), praticamente nessuno di questi nuovi protagonisti mantiene un rapporto diretto con la musica popolare di tradizione orale, con il mondo delle classi non egemoni e, soprattutto, col mondo del lavoro[lv]. C’è una canzone di Phil Ochs che spiega bene questa rottura:
Come you ranks of labor, come you union core,
And see if you remember the struggles of before,
When you were standing helpless on the outside of the door
And you started building links on the chain.
On the chain, you started building links on the chain.
Venite, quadri del lavoro, venite cuore del sindacato, e cercate di ricordare le lotte di un tempo, quando eravate disperati, esclusi da tutto, e cominciaste a creare gli anelli della catena[lvi]
Strofa dopo strofa, la canzone ricorda i momenti cruciali della crescita del sindacato – la violenza della polizia, il ruolo dei sindacati nella guerra antifascista – fino al momento di rottura: l’assenza, a volte l’ostilità, del sindacato nel movimento per i diritti civili (e le posizioni ambigue, spesso ostili, riguardo al Vietnam):
And then there came the boycotts and then the freedom rides,
And forgetting what you stood for, you tried to block the tide,
Oh, the automation bosses were laughin’ on the side,
As they watched you lose your link on the chain, on the chain,
As they watched you lose your link on the chain.
You know when they block your trucks boys, by layin’ on the road,
All that they are doin’ is all that you have showed,
That you gotta strike, you gotta fight to get what you are owed,
When you’re building all your links on the chain, on the chain,
When you’re building all your links on the chain.
[…]
For now the times are tellin’ you the times are rollin’ on,
And you’re fighting for the same thing, the jobs that will be gone,
Now it’s only fair to ask you boys, which side are you on?
Poi vennero i boicottaggi, i freedom rides, e dimenticando le vostre ragioni di esistenza voi cercaste di fermare la marea, mentre i padroni dell’automazione se la ridevano vedendovi perdere gli anelli della catena. Quando fermano i vostri camion sdraiandosi sulla strada, non fanno altro che quello che voi avete insegnato: che devi scioperare, devi lottare per avere quello che ti spetta mentre costruisci gli anelli della catena. E adesso i tempi vi dicono che i tempi corrono, e voi lottate per la stessa cosa, i posti di lavoro che si perdono, e c’è proprio motivo di chiedervi: da che parte state?
Non mancano, naturalmente, eccezioni a questa tendenza. In primo luogo Pete Seeger, che costituisce il vero anello di continuità in tutta questa storia; e la meno conosciuta ma importantissima Barbara Dane. Formata politicamente nell’ambiente comunista operaio di Detroit, e musicalmente dal blues, Barbara Dane sospende una promettente carriera musicale (sebbene fosse bianca, era considerata negli anni Cinquanta la vera erede di Bessie Smith) per dedicarsi alla musica popolare e militante. Perciò, la sua militanza contro la guerra del Vietnam non si manifesta solo nelle canzoni che canta, ma anche nell’uso della musica come mezzo per organizzare un movimento di opposizione alla guerra fra i militari stessi.
I don’t want nobody over me
and I don’t want nobody under me
and I’m gonna tell it like it’s got to be
you’d better have a little respect for me
Don’t try to tell me any lies
‘Cause you don’t fool me with your jive…
Subordination is a drag
And liberation is my bag
Insubordination!
Non voglio nessuno sopra di me e non voglio nessuno sotto di me, ti voglio dire come devono essere le cose: devi avere un po’ di rispetto per me, non mi raccontare bugie perché non mi freghi con le tue chiacchiere. La subordinazione è una rottura, la liberazione è il mio gioco – insubordinazione![lvii].
Soprattutto, la musica continua a funzionare da strumento espressivo e organizzativo nelle lotte di una componente della classe operaia con la tradizione musicale popolare: i minatori degli Appalachi. Lo sciopero spontaneo dei minatori di Hazard in Kentucky nel 1964, le battaglie ambientaliste contro le miniere a cielo aperto, lo sciopero di Brookside del 1972-73 (a Harlan County, come negli anni Trenta), ispirano i folksingers urbani ma, soprattutto, continuano a produrre musica militante negli stili tradizionali. La voce più rappresentativa di questa realtà è Hazel Dickens, figlia di minatori del West Virginia, operaia a Baltimore, musicista bluegrass. È la sua voce che conclude con un’affermazione di fierezza operaia il film che Barbara Kopple dedica allo sciopero di Brookside, Harlan County, usa:
United we stand, divided we fall
For every dime they give us a battle must be fought;
So working people use your power to gain your liberty
Don’t support that rich man’s style of luxury
And there ain’t no way they can ever keep us down
We won’t be bought, we won’t be sold
To be treated right, that’s our goal
And there ain’t no way they can ever keep us down.
Uniti lottiamo, divisi perdiamo; per ogni centesimo che ci danno c’è da fare una battaglia, perciò lavoratori usate il vostro potere per conquistarvi la libertà, non mantenete i ricchi nel lusso, e non ci potranno sottomettere mai. Non ci lasceremo comprare, non ci lasceremo vendere, vogliamo essere trattati con giustizia, e non riusciranno mai a sottometterci[lviii].

La huelga
Abbiamo già incontrato le varianti in spagnolo di We Shall Not Be Moved. Sono l’espressione di un altro singing movement su cui vale la pena di spendere qualche parola: il movimento chicano culminato nel grande sciopero dei braccianti messico-americani (e filippini) in California nel 1965-66, nella marcia da Delano a Sacramento con leader carismatici come César Chávez e Dolores Huerta, e nel boicottaggio nazionale dei prodotti agricoli della California: «Mientra nos estamos en huelga/no se puede comer uva/tampoco ensalada/por la huelga de lechuga» (finché siamo in sciopero non si può mangiare uva, e nemmeno insalata, per lo sciopero della lattuga)[lix].
Il riuso chicano di We Shall Not Be Moved è il segno di come questo movimento intrecciasse tutti i filoni che erano fino allora confluiti in questa canzone: il movimento operaio e soprattutto il movimento bracciantile (i lavoratori dell’agricoltura erano esclusi dai diritti sindacali sanciti nel 1933 dal New Deal); il movimento contro il razzismo e per i diritti civili; e, non ultima, anche la dimensione religiosa. A tutto questo si aggiunge l’eco delle rivoluzioni terzomondiste e latino americane: la versione che il gruppo del Teatro Campesino cantò a Barbara Dane in California nel 1966, comprendeva strofe che dicevano «Que viva Fidel Castro, no nos moverán… que viva Che Guevara, no nos moverán…»[lx].
Il Chicano movement degli anni Sessanta condivide con il movimento per i diritti civili il riuso delle forme tradizionali, a partire dal corrido (la canzone narrativa del confine fra Messico e Stati Uniti, che già storicamente aveva espresso la resistenza culturale alla discriminazione e all’espropriazione subita dai messico-americani)[lxi]; la pratica del boicottaggio; e la scelta della non violenza. Ma se ne discosta per l’uso esplicito della parola «rivoluzione» e per il nesso fra diritti civili e rivendicazioni sociali. Come canta il Corrido de Dolores Huerta, scritto da Carmen Moreno:
César Chávez le decía
vamos a ganar esta huelga
sin violencia
la revolución social
hay que ganarla con la paz
derramar sangre no es ciencia
César Chávez le diceva: vinceremo questa lotta senza violenza; la rivoluzione sociale va conquistata con la pace, spargere il sangue non è una cosa saggia[lxii].
Gli anni del movimento chicano sono anche quelli dell’opposizione alla guerra del Vietnam, e più di una delle canzoni del movimento riflette questo rapporto. La più memorabile è senz’altro quella composta da Danny Valdez, del Teatro Campesino, in memoria di Ricardo (o Richard) Campos, ucciso in Vietnam. Valdez ne compose due versioni, una in spagnolo in forma di corrido e una in inglese:
In a terminal in Oakland
Lies a brown body of a man
Dead at twenty-seven
Dead and gone to Heaven
Killed far away in Viet Nam
So they shipped you back to where you came from
Like a dummy you were tucked around in an aeroplane
Back to the hell from which you tried to escape
Back to the so-called free United States.
But should a man, should he have to kill
In order to live like a human being in this country?
In un terminal a Oakland giace il corpo scuro di un uomo, morto a ventisette anni, morto e andato in paradiso, ammazzato laggiù nel Vietnam. Così ti hanno rispedito da dove eri venuto, come un pupazzo ti hanno infilato in un aeroplano, di ritorno all’inferno da cui hai cercato di evadere, di ritorno ai cosiddetti liberi Stati Uniti. Ma è mai possibile che un uomo sia costretto a uccidere per vivere come un essere umano in questo paese?
Quando parlano di rivoluzione, tuttavia, gli attivisti, i poeti e gli artisti del movimento chicano non hanno in mente il comunismo, ma Pancho Villa e Emiliano Zapata; se nominano Fidel e il Che, è per la comune identità latinoamericana e lo spirito antimperialista. Anche l’occasionale menzione delle armi è più un simbolo identitario che altro. Quando Los Alvarados cantano, in Yo Soy Chicano, «Tengo mi par de pistolas para la revolución/una es una treinta y treinta y otra es una trenta y dos» («ho le mie due pistole per la rivoluzione, una è una 30.30 e l’altra una 32»), citano una canzone della rivoluzione villista («Carabina treinta y treinta que los rebeldes cargamos…»)[lxiii].
Perciò l’impronta identitaria permette di parlare di rivoluzione portando lo stendardo della Vergine di Guadalupe e incrociando la forma del corteo sindacale con quella del pellegrinaggio religioso:
Desde Delano voy
hasta Sacramento,
hasta Sacramento
mis derechos a pelear.
Mi Virgencita Guadalupana
Oye estos pasos,
Que todo el mundo lo sabrá.
Da Delano vado fino a Sacramento a lottare per i miei diritti. Vergine mia di Guadalupe, ascolta questi passi e tutto il mondo lo saprà[lxiv].

Siamo vivi
Una delle strofe di Which Side Are You On? cantata nelle strade di New York durante il movimento Occupy Wall Street diceva:
My daddy went to Woodstock
And I am Woodstock’s son
I’ll take my stand with liberty
Till every battlÈs won;
Which Side are you on?
Which side are you on?
Mio papà è stato a Woodstock, e io sono figlio di Woodstock, lotterò per la libertà finché vinceremo tutte le battaglie – da che parte state? da che parte stai?
A Woodstock, Which Side Are You On? non si cantava. Sebbene il rock and roll avesse innegabili radici proletarie[lxv], il lavoro e i rapporti di classe sono stati uno dei grandi silenzi della controcultura e del rock dagli anni Cinquanta in poi. Tuttavia, come ha ricordato Bruce Springsteen nel suo discorso di Austin nel 2012, c’è un filone blue collar nel rock che non è mai del tutto scomparso – per esempio, in certe voci che venivano dalla città operaia per eccellenza, Detroit, come gli mc5 o Bob Seger. Perciò vorrei chiudere questo percorso con tre voci contemporanee che parlano di memoria, di classe, e di lotta dall’interno stesso dell’industria musicale.
Steve Earle, voce radicale a cavallo fra country alternativo e rock classico. Christmas in Washington:
Come back Woody Guthrie
Come back to us now
Tear your eyes from paradise
And rise again somehow…
There’s foxes in the hen house
Cows out in the corn
The unions have been busted
Their proud red banners torn…
So come back Emma Goldman
Rise up old Joe Hill
The barricades are goin’ up
They cannot break our will…
Ritorna, Woody Guthrie, ritorna da noi adesso, lascia perdere il paradiso e risorgi se puoi. Le volpi sono nel pollaio, le mucche nel granturco, i sindacati sono stati distrutti, le fiere bandiere rosse strappate; perciò, ritorna, Emma Goldman, risorgi, Joe Hill: le barricate ritornano e non possono spezzare le nostra volontà[lxvi].
Tom Morello, già voce del rock militante dei Rage Against the Machine. Black Spartacus Heart Attack Machine:
Me and my people are hungry
Me and my people are through
Me and my people are ready
Me and my people are just about due
I’m a massive air strike on a beautiful night
Yeah, this is my song I’m singin’
Somebody better start countin’
We’re comin’ out and we’re comin’ out swingin’ –
Black Spartacus heart attack machine
Io e la mia gente abbiamo fame, io e la mia gente non ne possiamo più, io e la mia gente siamo pronti, io e la mia gente stiamo arrivando. Io sono un bombardamento di massa in una notte limpida, questa è la mia canzone: qualcuno cominci a contare, stiamo venendo fuori, e veniamo fuori picchiando – la macchina da infarto dello Spartaco nero[lxvii].
E Bruce Springsteen, figlio di padre operaio e madre immigrata, che mette insieme storia del movimento operaio, memoria dei martiri del movimento dei diritti civili, denuncia dei migranti clandestini che muoiono nel Sudovest. We Are Alive:
A voice cried I was killed in Maryland in 1877
When the railroad workers made their stand
I was killed in 1963
One Sunday morning in Birmingham
I died last year crossing the southern desert
My children left behind in San Pablo
Well, they left our bodies here to rot
But please let them know
We are alive
And though we lie here alone in the dark
Our souls and spirits will rise
To carry the fire and light the spark
To fight should to shoulder and heart to heart.
Una voce gridava, mi hanno ucciso in Maryland nel 1877 quando gli operai delle ferrovie scesero in lotta; io sono stata uccisa nel 1963 una domenica mattina a Birmingham; io sono morto l’anno scorso attraversando il deserto del Sud, i figli lasciati a San Pablo. Hanno lasciato i nostri corpi qui a marcire ma per favore fategli sapere che siamo vivi, e anche se stiamo qui a giacere soli nel buio, i nostri spiriti sorgeranno per portare il fuoco e accendere la scintilla, per lottare spalla a spalla e cuore su cuore[lxviii].

BIBLIOGRAFIA
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M. Denning, The Cultural Front. The Laboring of American Culture in the Twentieth Century, Verso, London-New York 1996
D. Dunaway, How Can I keep from Singing: Pete Seeger, Da Capo, New York 1990 [1981]
J. Dunson, Freedom in the Air. Song Movements of the ‘60’s, International Publishers, New York 1965
Archie Green, Only a Miner: Studies in Recorded Coal Mining Songs, University of Illinois Press, Urbana 1972
J. Greenway, American Folksongs of Protest, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1953
J. Klein, Woody Guthrie. A Life, Ballantine, New York 1980
J.L. Kornbluh (ed.), Rebel Voices. An IWW Anthology, The University of Michigan Press,
Ann Arbor 1968.
G. Lipsitz, Rainbow at Midnight. Labor and Music in the 1940, University of Illinois Press, Urbana 1940.
A. Lomax, W. Guthrie, P. Seeger (eds.), Hard Hitting Songs for Hard-Hit People, Oak, New York 1967;
A. Portelli, Veleno di piombo sul muro. Le canzoni del Black Power, Laterza, Bari 1969;
A. Portelli, La canzone popolare in America. La rivoluzione musicale di Woody Guthrie, De Donato, Bari 1975
A. Portelli, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, Sapere, Roma 2000, 1990 [1975]
S. Romalis, Pistol Packin’ Mama. «Aunt» Molly Jackson and the politics of Folksong, University of Illinois Press, Urbana 1999.

[i] R. Cohen e D. Samuelson, Songs for Political Action, volume che accompagna la raccolta in dieci cd Songs for Political Action. Folk Music, Topical Songs and the American Left, Bear Family Records, BCD 15720 JL, p. 9; Richard A. Reuss, American Folksongs and Left-Wing Politics: 1935-56, «Journal of the Folklore Institute», 12, 2/3, 1975, pp. 89-11. Cfr. Rev. D.A. Noebel, Rhythm, Riots and Revolution. An Analysis of the Communist Use of Music, Christian Crusade Publications, Tulsa, ok 1966.
[ii] R. Cantwell, When We Were Good. The Folk Revival, Harvard University Press, Cambridge, ma 1996; A. Lomax, W. Guthrie, P. Seeger (eds.), Hard Hitting Songs for Hard-Hit People, Oak, New York 1967; D. Dunaway, How Can I keep from Singing: Pete Seeger, Da Capo, New York 1990 [1981]; A. Portelli, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, Sapere, Roma 2000, 1990 [1975]; R. Serge Denisoff, Great Day Coming. Folk Music and the American Left, University of Illinois Press, Urbana 1971; A. Green (ed.), Songs About Work. Essays in Occupational Culture for Richard A. Reuss, Folklore Institute Indiana University Bloomington, Special Publications, Bloomington in 3, 1993.

[iii] Angela Maria Di Franco (Buffalo, 1970) ha pubblicato 21 album autoprodotti nella sua etichetta indipendente Righteous Babe Records.
[iv] La ripetizione del refrain mi permette di tradurlo in tutti e due i modi in cui può essere inteso: come un richiamo alle responsabilità personali (da che parte stai?) e come un appello collettivo all’organizzazione (da che parte state?).
[v] Tillman Cadle (1902, minatore), int. Townsend tn, 25.7.1987; per il contesto storico rinvio al mio America profonda. Due secoli di storia raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli, Roma 2011.
[vi] Citato in L. Jones, Florence Reece, Against the Current, «Appalachian Journal», 12, 1, 1984, pp. 68-72, recensione a F. Reece, Against the Current, pubblicato a cura dell’autrice, Knoxville tn 1981. Cfr. anche F. Reece, They Say Them Child Brides don’t Last, intervista in K. Kahn, Hillbilly Women, Doubleday, Garden City ny 1973; A. Portelli, America profonda, cit., pp. 249ss. Si veda anche G.E. Lyon, Which Side Are You On? The Story of a Song, con illustrazioni di Christopher Cardinale, Cinco Puntos Press, New York 2011.
[vii] F. Reece, Which Side Are You On?, nel disco They’ll Never Keep Us Down. Women’s Coal Mining Songs, Rounder 4012.
[viii] B. Bragg, Back to Basics, lp Elektra 60725-I; N. Merchant, Music of Coal. Mining Songs from the Appalachian Coalfields, a cura di J. Wright, Lonesome Records, cd 2. Per una versione nel movimento dei diritti civili, cfr. Sing for Freedom. The Story of the Civil Rights Movement Through Its Songs, Smithsonian Folkways cd SF 40032.
[ix] Per St. Louis, cfr. http://www.youtube.com/watch?v=2QW4bKQPc8I; per Nashville, http://www.supportows.org/blog/occupy-nashville/open-letter-from-occupy-nashville-which-side-are-you-on; per la versione dei Dropkick Murphys in solidarietà con la lotta dei Wisconsin contro la negazione dei diritti sindacali – http://wn.com/Which_Side_Are_You_On__Dropkick_Murphys.
[x] Which Side Are You On: Occupy Wall Street, http://www.youtube.com/watch?v=U5htZlpemNk&feature=player_embedded#!, visto l’11.2.2012
[xi] Ora in cd in Which Side Are You On? The Best of the Almanac Singers, Rev-Ola Records, CR-REV 182 o in Songs for Political Action, cd 3.
[xii] Nianyi Yong, Ani DiFranco: Which Side Are You On?, 17.1.2012, http://www.popmatters.com/pm/review/153334-ani-difranco-which-side-are-you-on, visto il 11 febbraio 2012.
[xiii] Cecil Sharp, English Folk Songs from the Southern Appalachians, Oxford University Press, London 1932, p. xxv; Coal Mining Music, video a cura di Guy e Candie Carawan e John Gaventa, Highlander Center for Social Research, New Market tn 1973; Sarah Ogan Gunning, I Hate the Capitalist System, lp Silver Dagger, lp Rounder Records 0051.
[xiv] Archie Green, (ed.), Songs about Work. cit.
[xv] http://www.anvari.org/fortune/Quotations_-_Usenet/403_why-should-the-devil-have-all-the-good-tunes-rowland-hill-1744-1833.html
[xvi] Forse non ha torto il critico musicale Franco Bergoglio quando collega lo slogan «Siamo il 99 percento» a un amatissimo e tuttora popolare brano gospel reso famoso da Mahalia Jackson: «99 and a half won’t do»: il novantanove e mezzo non basta; Franco Bergoglio, «Indignati: dove nasce il furore delle parole che scatenano i sogni», «il manifesto-Alias», gennaio 2012.
[xvii] «Scendi Mosè, giù in terra d’Egitto, dì al Faraone di lasciar andare il mio popolo»; «Giosué combatté la battaglia di Gerico, e le mura crollarono a terra»; «Se potessi fare a modo mio distruggerei questo edificio».
[xviii] «O libertà, libertà su di me; e prima [piuttosto] di essere uno schiavo sarò sepolto nella tomba e andrò in cielo dal mio Signore e sarò libero»; T. Wentoworth Higginson, Army Life in a Black Regiment (1870), Collier, New York 1969, p. 55. Per una versione di O Freedom eseguita coralmente durante una manifestazione di massa, cfr. il lp Movement Soul, ESP 1056 (1964).
[xix] G. e C. Carawan, We Shall Overcome. Songs of the Southern Freedom Movement, Oak, New York 1963, p. 72.
[xx] Bruce Jackson (ed.), lp Negro Folk Songs from Texas State Prisons, Elektra EKL-296.
[xxi] Rinvio al mio articolo We Shall Overcome, ora in Note americane. Musica e culture negli Stati Uniti, Shake, Milano 2011, pp.39-41. Ma già nel 1952 We Shall Overcome era stata incisa dal coro dei Jewish Young Folksingers: cfr. Songs for Political Action, cd 10.
[xxii] Almanac Singers, The Best of the Almanac Singers, cit.; Barbara Dane, in L’America della contestazione, a cura di Ferdinando Pellegrini e Sandro Portelli, lp Dischi del Sole DS/179/81/CL; Movement Soul, cit.; Cranks Pentecostal Church, Cranks Ky., 19.10.2008
[xxiii] K. Mills, This Little Light of Mine. The Life of Fannie Lou Hamer, Plume, New York 1994; Matt Jones, Then and Now. The Evolution of a Freedom Singer, Relevant Records MJ-101; Voices of the Civil Rights Movement, 3, The Smithsonian Collection R023, a cura di Bernice Reagon. Bernice Reagon è anche la fondatrice del gruppo a cappella di donne Sweet Honey in the Rock.
[xxiv] Movement Soul, cit.; Voices of the Civil Rights Movement, cit.
[xxv] Malcolm X, Message to the Grassroots, Malcolm X Speaks Again, Twenty Grand Records LP-100 vol 1.
[xxvi] A. Portelli, Veleno di piombo sul muro. Le canzoni del Black Power, Laterza, Bari 1969; Elaine Brown, Seize the Time! Black Panther Party, Vault 131; The Best of James Brown, Polydor 2482/579.
[xxvii] W. Stegner, The Preacher and the Slave, Houghton Mifflin, Boston 1950; P.S. Foner, The Case of Joe Hill, International Publishers, New York 1965; G.M. Smith, Joe Hill, University of Utah Press, Salt Lake City 1968.
[xxviii] Joe Hill, The Preacher and the Slave, cantata fra gli altri da Hayware Mac McClintock, nel cd Don’t Mourn – Organize!. Songs of Labor Songwriter Joe Hill, Smithsonian Folkways SF 40026; da Cisco Houston, in Songs of the Open Road. Hobo and Wobbly Songs, Folkways fa 2480.
[xxix] D. Carpitella, Le false ideologie del folklore musicale, in AA.VV., La musica in Italia, Savelli, Roma 1978.
[xxx] P. Buhle e N. Schulman, Wobblies! A Graphic History of the Industrial Workers of the World, Verso, London-New York 2005; J.L. Kornbluh (ed.), Rebel Voices. An iww Anthology, The University of Michigan Press, Ann Marbor 1968.
[xxxi] Harry McClintock, Hallelujah, I’m a Bum!, Rounder 1009; Utah Phillips, All Used Up – A scrapbook, lp Philo 1050.
[xxxii] Earl Robinson e Alfred Hayes, Joe Hill: Earl Robinson in Songs for Political Action, cit., cd 2. Le versioni di Paul Robeson e di Joan Baez sono anche in http://www.youtube.com/watch?v=n8Kxq9uFDes e http://www.youtube.com/watch?v=YR6SMAJQW8Y.
[xxxiii] «Aunt Molly» Jackson, Ragged Hungry Blues, The Library of Congress Recordings, Rounder Records 1002, e in Songs for Political Action,; cfr. J. Greenway, American Folksongs of Protest, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1953; The Songs and Stories of Aunt Molly Jackson, sung by John Greenway, with stories told by Molly Jackson, Folkways FH 5457; Su Molly Jackson, Shelly Romalis, Pistol Packin’ Mama. «Aunt» Molly Jackson and the politics of Folksong, University of Illinois Press, Urbana 1999.
[xxxiv] Garland più tardi cambiò l’ultimo verso, dicendo «and travel through this country and Harry’s story tell» («e girare tutto il paese per raccontare la storia di Harry»); tuttavia, include entrambe le versioni nella sua autobiografia, Welcome the Traveler Home, 169–71. Jim Garland canta la versione cambiata in Newport Broadside: Topical Songs at the Newport Folk Festival, Vanguard VSD-79144 (1963); Pete Seeger canta quella originale in Dangerous Songs? Columbia CL 2503. Cfr. anche Archie Green, Only a Miner: Studies in Recorded Coal Mining Songs, University of Illinois Press, Urbana 1972, pp. 420–22, e Mary Elizabeth Barnicle, Harry Simms: The Story behind this American Ballad, note al disco Songs of Struggle and Protest, 1930–1950, Folkways FH 5233, 3–4.
[xxxv] I Hate the Capitalist System, The Silver Dagger, cit. Si veda anche Barbara Dane, I Hate the Capitalist System, Paredon P-1014 e in L’America della contestazione, cit.. Negli anni Cinquanta Sarah Ogan si lasciò convincere a cambiare il titolo e cantare I Hate the Company Bosses, odio i padroni delle compagnie, ma nei suoi ultimi anni cantava di nuovo la versione originale. Sarah Ogan canta I Hate the Company Bosses in Girl of Constant Sorrow. Songs from the Kentucky Coal Fields, Folk Legacy cd-26.
[xxxvi] Jim Garland canta I Don’t Want Your Millions Mister e The Ballad of Harry Simms in Newport Broadside, Vanguard VSD-79144.
[xxxvii] John L. Handock, Songs, Poems and Stories of the Southern Tenant Farmers Union, West Virginia University Press Sound Archive Volume 5; A. Lomax, W. Guthrie, P. Seeger (eds.), Hard Hitting Songs for Hard-Hit People, Oak, New York 1969, p. 260-61 S.e D.M. Lance, John L. Handcock: There Is Still Mean Things Happening, in Songs about work, cit., pp. 184-207.
[xxxviii] Lomax et al. Hard Hitting Songs, cit.; The New Lost City Ramblers, Songs for the Depression, lp Folkways FW05264.
[xxxix] M. Denning, The Cultural Front. The Laboring of American Culture in the Twentieth Century, Verso, London-New York 1996: su Pins and Needles, pp. 295-309.
[xl] Introduction a J. e A. Lomax (eds.), Folk Song U.SA, New American Library, New York 1966, p. viii.
[xli] E. Cray, Ramblin’ Man. The Life and Times of Woody Guthrie, Norton, New York-London 2004; J. Klein, Woody Guthrie. A Life, Ballantine, New York 1980; A. Portelli, La canzone popolare in America. La rivoluzione musicale di Woody Guthrie, De Donato, Bari 1975.
[xlii] Woody Guthrie, Pretty Boy Floyd, Struggle, Smithsonian Folkways cd SF 40025
[xliii] Woody Guthrie, Bits and Snatches, in R. Shelton (ed.), Born to Win, Collier, New York 1965, p. 85.
[xliv] Woody Guthrie, Pastures of Plenty, This Land is Your Land:The Asch Recordings Volume 1, Smithsonian Folkways HDCD LC9628.
[xlv] Woody Guthrie, This Land Is Your Land, ibid. La performance di Seeger e Springsteen è su http://www.youtube.com/watch?v=g5KnYADCSms.
[xlvi] http://www.npr.org/2012/03/16/148778665/bruce-springsteens-sxsw-2012-keynote-speech
[xlvii] Tillman Cadle, intervista citata; cfr. A. Portelli, America profonda, cit., p. 299.
[xlviii] Almanac Singers, Which Side Are You On? The Best of the Almanac Singers, Rev-Ola cd REV 182.
[xlix] Almanac Singers, Ballad of October 16, Songs for Political Action, cit.; That’s Why We’re Marching- World War II and the American Folk Song Movement, Smithsonian Folkways cd 40021. Eleanor Roosevelt, moglie del presidente, era conosciuta per le sue posizioni progressiste. Va osservato peraltro che alcune tematiche delle canzoni anti-guerra (antibelliche? pacifiste?) degli Alamnac Singers ritorneranno nelle canzoni pacifiste del tempo del Vietnam: per esempio, si confronti Billy Boy degli Almanac con The Willing Conscript di Tom Paxton.
[l] Woody Guthrie e Almanc Singers, Keep that Oil a-Rollin’, Songs for Political Action, cit., cd 4.
[li] Joe Glazer e Bill Friedland, Old Bolshevik Song, Songs for Political Action, cd 9 (la gpu è la polizia segreta sovietica, più tardi cahiamata kgb). Sulla sinistra antistalinista e il rapporto con la musica popolare e la canzone politica, S. Burn, Archie Green. The Making of a Working-Class Hero, University of Illinois Press, Urbana, Chicago e Springfield 2011.
[lii] Cfr. Songs for Political Action, cit., cd 9.
[liii] The Peekskill Story, montaggio di testimonianze orali e canzoni a cura di Mario Cassetta, Lee Hays e Pete Seeger, in Songs for Political Action, cd 8. Cfr. H. Fast, Peekskill: USA / a personal experience, Civil Rights Congress, New York 1951, (Hopward Fast è anche l’autore del romanzo Spartacus, da cui Stanley Kubrick trasse nel 1960 il film omonimo interpretato da Kirk Douglass). Sui fatti di Peekskill c’è anche un romanzo di T. Coraghessan Boyle (nato a Peekskill), World’s End, Penguin Books, London 1987.
[liv] The Weavers at Carnegie Hall, lp Vanguard VRS-9010; Hootenanny at Carnegie Hall, lp
Folkways FN 2512.
[lv] J. Dunson, Freedom in the Air. Song Movements of the ’60’s, International Publishers, New York 1965; R. Cantwell, When We Were Good, cit.
[lvi] Phil Ochs, Links on the Chain, cd I Ain’t Marching Anymore, Elektra 8122 73564-2
[lvii] Barbara Dane, FTA! Songs of the GI Resistance, lp Paredon PAR01003; B. Dane, I. Silber (eds.), Vietnam Songbook, Oak, New York 1969.
[lviii] Hazel Dickens, They’ll Never Keep Us Down, cd Hard Hitting Songs for Hard-Hit People, Rounder Records 0126; Barbara Kopple, Harlan County, usa, 1976, Criterion Collection dvd, 2006 (premio Oscar per il documentario, 1977); G. e C. Carawan, Voices from the Mountains, University of Georgia Press, Athens 1996 [1972].
[lix] Los Lobos del Este de Los Angeles, Tilingo Lingo, nel cd Sí se puede (1979), Brown Bag Productions e United Farmworkers of America, LOS-CD-SI-552315.1; ora anche in Rolas de Aztlán. Songs of the Chicano Movement, Smithsonian Folkways Recordings, SFW cd 40516. «Sí se puede», lo slogan del movimento chicano lanciato da Dolores Huerta nel 1966, è la fonte dello «yes we can» di Barack Obama.
[lx] Barbara Dane ripropone queste strofe nel disco L’America della contestazione, cit.
[lxi] A. Paredes, With His Pistol in His Hand. A Border Ballad and Its Hero, University of Texas Press, Austin 1958; Michael Heisley, Truth in Folksong: A Corridista’s View of Singing in the California Farm Workers’ Movement, in A. Green (ed.), Songs about Work, cit., pp. 22- 252.
[lxii] Los Lobos, Corrido de Dolores Huerta, in Sí se puede. cit.
[lxiii] Fra le infinite varianti, Jorge Saldana y Los Mayas, Chants de la révolution méxicaine, Chant du Monde LDX-S-4309; Rosina Quintana, http://www.youtube.com/watch?feature=endscreen&v=tMEF_P-8nno&NR=1; Los Lobos, http://www.youtube.com/watch?v=gI4v_8gjW04
[lxiv] Agustín Lira, La Peregrinación, nel cd a cura di Terry Scott Songs of the ufw, sung by ufw Volunteers, United Farmworkers Union, 2005. Sulle relazioni fra manifestazioni di protesta e forme del pellegrinaggio, rinvio alle note al mio disco Roma. La borgata e la lotta per la casa, Dischi del Sole/Archivi Sonori SdL/AS/10. Agustín Lira faceva parte del Teatro Campesino, che accompagnò con la musica e forme originali di teatro popolare tutti i primi anni del movimento: cfr. Y. Broyles-Gonzalez. Teatro Campesino: Theater in the Chicano Movement, University of Texas Press, Austin 1994.
[lxv] G. Lipsitz, Rainbow at Midnight. Labor and Music in the 1940, University of Illinois Press, Urbana 1940.
[lxvi] Steve Earle, Christmas in Washington, cd El Corazón, Warner Brothers 9 46789-2.
[lxvii] Tom Morello, Black Spartacus Heart Attack Machine, cd World Wide Rebel Songs, New West Records NW 6207.
[lxviii] Bruce Springsteen, We Are Alive, cd Wrecking Ball, Sony.

1 commento:

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