Abbiamo già parlato in questo blog del libro che Steven Nadler ha dedicato a Baruch Spinoza. Ci piace, comunque, tornarci con un bel pezzo pubblicato oggi dall’inserto culturale del 24 Ore.
Massimo Bucciantini - Spinoza,
filosofo maledetto
Il Trattato teologico-politico è una delle prime grandi opere in favore della libertà di pensiero e di culto nello stato moderno, e quindi è un libro sul Potere. «Spinoza smonta profezie e miracoli, denuncia le credenze superstiziose che puntellano le religioni, sostiene che liturgie e cerimonie nulla hanno a che vedere con l’autentica pietà, sostenendo perfino – forse con la più audace delle sue tesi -che la Bibbia, vale a dire lo strumento più potente brandito dalle gerarchie religiose per esercitare il controllo sulle loro greggi, non è altro che un frutto dell’arte letteraria umana, composto nel corso dei secoli da più autori, spesso in contraddizione tra loro». Mentre l’Etica è scritta soprattutto per i filosofi, il Trattato, benché in latino, si rivolge a un pubblico più vasto. Ai teologi di ogni razza e ai filosofi di ogni scuola, certo, ma anche alle élites patrizie e liberali che governavano le città delle varie province d’Olanda, ai figli di facoltose famiglie di mercanti e imprenditori che spesso avevano manifestato insofferenza per l’ingerenza della Chiesa negli affari pubblici, alle piccole ma combattive comunità di chrétiens sans Église che Spinoza aveva conosciuto ad Amsterdam e che, da persone profondamente devote quali erano, in più occasioni avevano contestato le gerarchie della Chiesa riformata olandese.
È un’opera appassionata, a tratti rabbiosa, dice Nadler, in cui fin dalle prime pagine sulla religione come superstizione istituzionalizzatasi percepisce quanto in Spinoza bruciasse ancora, come fuoco vivo impresso sulla pelle, l’espulsione dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam. «Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra |…]. Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcun trattato composto o scritto da lui». Era il 27 luglio 1656, quando queste parole furono solennemente pronunciate in ebraico nella sinagoga dell’Houtgracht di fronte a una folla di fedeli. Non sappiamo quali «opinioni 0 azioni malvagie» fossero attribuite al ventitreenne Spinoza, visto che ancora non aveva pubblicato nulla. Non è escluso però, questa almeno la tesi di Nadler, che già allora alcune sue idee come «Dio esiste solo in un senso filosofico», «la legge di Mosè non è vera», «l’anima non è immortale», le andasse discutendo all’interno della comunità ebraica. È certo comunque che si trattò di uno dei provvedimenti di espulsione più severi pronunciati in quel periodo, che peraltro non fu mai revocato. Il castigo di Dio doveva pesare perennemente sulla testa del giovane Baruch. Ed è davvero difficile immaginare, come sostiene Jean-Maximilien Lucas, il primo biografo del filosofo, che quella scomunica venne da lui accolta senza battere ciglio.
Nell’estate del 1665 Spinoza abbandonava la stesura dell’Etica e si buttava a capofitto in questa temeraria impresa (neppure l’ “empio” Hobbes sarebbe arrivato a tanto). Che però non è un progetto altro rispetto all’opera che sarà pubblicata postuma, nel 1677, pochi mesi dopo la sua morte. Dedicati entrambi alla ricerca della libertà, l’Etica e il Trattato sono tra loro complementari. Nellaprima, il problema della «liberazione da ogni schiavitù, psicologica, politica o religiosa» è affrontato dal punto di vista metafisico e morale-, nel secondo da una prospettiva teologica, politica e storica. Come osserva Nadler, «l’aspirazione di Spinoza è che una politica fatta di speranza (nella ricompensa eterna) e di paura (del castigo eterno) venga sostituita da una politica della ragione, della virtù, della libertà e del comportamento etico». Questo sarà il progetto della sua vita, a cui dedicherà tutte le sue forze e di cui l’Etica e il Trattato saranno le fondamenta e gli archi portanti: parti comunicanti di un unico straordinario libro. In una lettera del settembre 1665 a Henry Oldenburg, il segretario della Royal Society che quattro anni prima si era recato espressamente in un villaggio vicino a Leida per conoscerlo, Spinoza indicava le ragioni della sua scelta: quella di lavorare a «un trattato intorno al mio modo d’intendere la Scrittura». E tra le motivazioni trovava posto anche quella di replicare a quanti, ed erano in molti, lo dipingevano come un ateo impenitente che avversava tutte le religioni. Il libro uscì ad Amsterdam in forma anonima nel gennaio del 1670. Sul frontespizio, come luogo di pubblicazione era indicato quello falso di Amburgo, e anche il nome dell’editore non risultava essere Jan Rieuwertsz, già noto alle autorità per la stampa di opere eterodosse e radicali, bensì quello di «Henricus Kunraht», in omaggio all’alchimista e rosacrociano tedesco vissuto alla fine del Cinquecento, i cui testi si continuavano ancora a leggere (e su cui Frances Amelia Yates ci ha lasciato pagine indimenticabili). Ma non ci volle molto a scoprire la vera identità dell’autore. Nel giro di poco più di un anno, tutto fu chiaro. Leibniz, che aveva acquistato una copia del libro e che lo definì «intollerabilmente licenzioso», nella primavera del 1671 già sapeva da chi era stato scritto. «Un ebreo di nome Spinoza, recentemente scomunicato a causa delle sue mostruose opinioni», lo informava Johann Georg Grevius, filosofo cartesiano e insegnante a Utrecht. Così, nell’ultimo emozionante capitolo Nadler insegue ogni traccia di questa scoperta, riportando i giudizi di teologi e filosofi, accanto alle risoluzioni di condanna emesse dalle gerarchie religiose e dalle diverse magistrature olandesi, fino a narrare gli sforzi compiuti dalle autorità prima ecclesiastiche e poi civili per mettere sotto sequestro l’opera. «Un libro osceno e blasfemo, quale, a nostra conoscenza, il mondo non ha mai conosciuto», sentenziava nel luglio del 1670 il sinodo provinciale dell’Olanda meridionale. « Forgiato all’inferno dall’ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan», annotava un anonimo calvinista in un catalogo di libri appartenuti a Jan, cioè a Johan de Witt, il principale artefice della politica liberale degli Stati d’Olanda, ucciso barbaramente a due anni dall’uscita del Trattato.
Quel libro “infernale” praticamente non fu mai messo in vendita, né circolò liberamente. Neppure negli anni prima del luglio 1674, quando fu bandito per decreto dall’intero territorio della Repubblica delle Sette Province Unite. Cinque anni più tardi sarà la volta della Chiesa cattolica a riconoscerne la pericolosità inserendolo, in un sol colpo insieme all’Etica e alle Lettere, nell’Indice dei libri proibiti. Su Spinoza, nessun distinguo, nessuna controversia: cattolici, anglicani, calvinisti, luterani, ebrei riscoprivano così di essere un’unica e armoniosa famiglia. A tutti, con la consueta serenità, lui rispondeva così: «Forse che si spoglia di ogni religione colui che afferma doversi riconoscere in Dio il sommo bene e doversi come tale amare con libero animo? E che in questo solo consiste la somma della nostra felicità e della nostra libertà?».
Da Il Sole 24 Ore – Domenica 2 giugno 2013
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