Il sito http://www.leparoleelecose.it/ oggi
riprende un bel pezzo di critica d’arte già apparso su alias -il
manifesto:
Alessandra Sarchi – La memoria degli Uffizi
La storiografia
artistica da Vasari in poi e la letteratura di viaggio, specie quella del Grand
Tour, hanno abituato nei secoli i lettori a una prosa ricca di dettagli che
vanno molto oltre la descrizione scientifica delle opere o le informazioni sui
loro autori. Aneddoti, riflessioni di carattere estetico e filosofico, storie
che riguardano il modo in cui chi narra ha avuto modo di conoscere i tesori
d’arte custoditi in collezioni private e musei costituiscono, da sempre, il
sale di testi che altrimenti rischierebbero di essere meri elenchi, dove ci si
perderebbe o si finirebbe a sbadigliare anche davanti al più pirotecnico sforzo
verbale di restituire un capolavoro.
D’altra parte, i
moderni cataloghi dei musei quando disponibili e attendibili sotto il profilo
filologico – e di molti musei italiani si lamenta l’assenza di cataloghi
aggiornati o l’assenza tout-court – sono strumenti preziosi di conoscenza in
senso positivista, ma difficilmente contengono il tipo di narrazione che lega
memoria personale e memoria storica nello sforzo di presentarsi davanti alle
opere con delle domande, più che con delle informazioni.
In questo senso
appare, invece, molto riuscito l’agile libro che Francesco M. Cataluccio dedica
a uno dei musei più visitati al mondo, nonché principale museo di Firenze, dove
l’autore è nato e cresciuto. Non una guida, non un memoriale, ma l’uno e
l’altro insieme. Memoria degli Uffizi (Sellerio 2013), pur attenendosi
con cura storica e ricchezza di riferimenti bibliografici alla progressione
delle sale del museo, è un intreccio di percorsi conoscitivi scalati nel tempo
della vita dell’autore e attraverso le intersezioni che la Storia ha avuto con
la celebre raccolta.
La prima pagina del
libro si apre con la rievocazione della visita in età infantile al museo,
insieme ai genitori. Era il rito laico della domenica al quale l’autore si
sottometteva volentieri insieme al fratello; il prolungamento di quel lessico
famigliare fatto di giochi, indovinelli, osservazioni e ragionamenti verso i
quali erano stimolati in una forma di educazione permanente, solo che a
fornirne la materia erano opere sontuose nei colori e nelle dimensioni,
misteriose per il tipo di figure, capaci di sollecitare l’immaginazione ben
oltre il tempo della visita.
L’inquietudine per
la mancanza di ombre nelle figure delle tavole del Duecento e Trecento – chi
non ha ombra non ha materia e non esiste – si prolungava nella testa
dell’autore bambino fino allo stadio dove andava a vedere le partite notturne:
anche i calciatori sotto le luci incrociate dei riflettori non proiettavano
ombre, ma svolazzavano immateriali sul campo, come gli angeli e i santi dei
dipinti medievali. Da adulto questa fantasia sulle ombre avrebbe incontrato il
celebre libro di Gombrich dedicato al tema.
Nelle sale del Tre
e Quattrocento l’autore, accompagnando il regista Andrej Tarkovskij, avrebbe
voluto fargli osservare come la raffigurazione, sullo stesso dipinto, di
episodi avvenuti in tempi diversi li rendeva straordinariamente simultanei allo
spettatore, mentre il regista russo notava piuttosto l’affievolirsi dello
splendore delle aureole, prodromo di decadenza della fede.
La perplessità di
giudizio del padre sul Tondo Doni di Michelangelo – “movimenti innaturali,
figure ambigue” – diventa per l’autore adulto campo di prova per una possibile
lettura psicanalitica dell’arte, ma anche la variante di un’iconografia che
risale a Luca Signorelli e alla sua Madonna con bambino tra gli Ignudi,
pure agli Uffizi.
Il libro è anche
ricco di notazioni sulle vicende materiali dell’edificio, sul valore simbolico
e su quel valore di costume di cui oggi si parla così poco proprio perché
numerosi luoghi urbani hanno perso la capacità di produrre rituali aggreganti.
Dell’ingresso da dietro, da Piazza del Grano, apprendiamo ad esempio che
ospitava, un tempo, un chiosco dove si vendevano panini al lampredotto caldo, e
che lì dovrebbe sorgere la nuova entrata, progettata fin dal 1998
dall’architetto giapponese Arata Isozaki, e mai costruita fra mille polemiche.
Del corridoio
vasariano definito dal padre dell’autore “il cordone ombelicale che ci ha
aiutato a liberare la città”, essendo l’unico collegamento rimasto fra nord e
sud, dopo il bombardamento dei ponti nella seconda guerra mondiale, ritroviamo
un’efficace quanto spaesante descrizione, nelle parole di un membro della delegazione
giovanile del partito comunista di Leningrado alla quale Cataluccio, slavista,
fece da interprete e da guida: “sembra di stare dentro la carlinga di un
aereo”.
Gli Uffizi, come
tutti i musei, sono una narrazione complessa, in cui il visitatore deve fare la
fatica ma anche gustare la ricchezza di costruire un proprio percorso,
rifuggendo dalla pretesa di vedere tutto e tutto in una volta, ma scegliendo,
ove sia possibile, gli orari meno frequentati quando non si deve lottare fra le
ressa delle teste e lo scalpiccio dei piedi sui pavimenti lignei, che gemono e
sopportano ogni giorno un numero forse eccessivo di visitatori.
Dalla decorazione
della Tribuna ottagonale, vero cuore del museo, apprendiamo che un progetto
cosmologico era alla base della raccolta:
Nei desideri di
Francesco I, l’ambiente della Tribuna doveva simboleggiare il cosmo e i suoi
quattro elementi: Aria (la lanterna con la rosa dei venti; Acqua (le
conchiglie); Fuoco (le pareti di velluto rosso cremisi); Terra (il marmo e le
pietre dure del pavimento).
E con uno sguardo
allargato a fondere studio ed esperienza, l’autore ci guida attraverso le
stanze che sono reali e interiori, perché gli Uffizi nelle sue pagine sono
veramente un luogo in cui conoscenza, senso civico, storia e immaginazione
s’incontrano:
Questa galleria è
un risarcimento estetico nella sovente brutta precarietà del mondo: ti fa
sentire coi piedi saldi nella Bellezza e nella Storia. E, nello strsso tempo,
ti immerge in una vita immaginaria.
Francesco
Cataluccio ci ha proposto, esemplarmente, il suo percorso; ma se la prima
pagina riannoda al museo la memoria personale e familiare – una memoria
peraltro ricchissima di stratificazioni culturali e di incontri significativi –
l’ultima ci lascia una testimonianza non meno efficace, proprio nel suo essere
così poco mediata dal punto di vista letterario:
Nulla può aiutare a
capire meglio che cosa siano gli Uffizi di questa piccola notizia comparsa sui
giornali sabato 14 luglio 2012: “Vanessa Capodieci, 16 anni, che restò ferita
nell’attentato di Brindisi in cui morì la sua compagna di scuola Melissa Basso,
ha subìto cinque trapianti di pelle. È uscita ieri dal centro di Ustioni
dell’ospedale di Cisanello di Pisa e ha chiesto al padre di visitare gli
Uffizi”.
[Questo articolo
è già uscito su «alias -il manifesto», in una versione ridotta].
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