Oggi mi
piace riprendere dal manifesto una bella ricostruzione dell’opera di uno dei
maggiori storici del 900: Karl Polanyi. Nato in Ungheria, ma cresciuto
intellettualmente nella «Grande Vienna», Polanyi è stato soprattutto un
economista, anche se le sue opere più importanti sono un mirabile equilibrio di
storia economica, antropologia e sociologia. Rifugiatosi negli Stati Uniti dopo
l'avvento del nazismo, docente alla Columbia University, nel 1944 pubblica la
sua opera più nota («La Grande trasformazione»), cui seguirà quasi dieci anno
dopo «Traffici e mercati negli antichi imperi».
Adelino
Zanini - Karl Polanyi. Il dogma negato dell'economia
Raccolti nel
volume «Per un nuovo Occidente» (Il Saggiatore) gli scritti dell'autore del
noto saggio «La grande trasformazione». Una raccolta che spazia su molti temi
del suo tempo. Per definire un'alternativa sociale e istituzionale sia al
mercato che alla pianificazione centralizzata dello Stato che ha influenzato
più generazioni di antropologi, economisti e sociologi
Controversa
è la definizione del debito contratto dalle scienze sociali nei confronti
dell'opera di Karl Polanyi. Il pensiero sociale del secondo Novecento non ne ha
di certo ignorato la critica indirizzata alla «naturalità» del mercato, al
determinismo economico, a una sfera economica scorporata ( disembedded ) dalle
«forme» sociali. Riserve e silenzi non sono però mancati. Hanno riguardato la
stessa opera maggiore ( La grande trasformazione , Einaudi), quantunque ne sia
stata di norma condivisa la tesi di fondo, secondo cui lo studio dell'evolversi
delle relazioni economiche mostrerebbe che mai prima dell'età moderna i mercati
(nell'asettica formulazione neoclassica) sarebbero stati qualcosa di più che
elementi accessori. Detto altrimenti, il sistema economico era in passato
incorporato nel sistema sociale , di cui rappresentava solo una delle
componenti.
Una tale tesi
poteva in infetti ben combinarsi con gli approcci da altri autori espressi, i
quali avevano parimenti insistito sulla non naturalità del mercato e sui limiti
del determinismo economico inteso a sostenere che l'azione atta a soddisfare un
bisogno sarebbe sempre stata il frutto di un agire individuale e razionale,
costretto a misurarsi con il problema della scarsità. Quanto poi
all'istituzionalismo, esplicito nell'approccio polanyiano, esso poteva
chiaramente legarsi non solo con la ricerca antropologica da cui Polanyi molto
trarrà in seguito, ma anche con quello che sarebbe stato il nuovo
istituzionalismo economico à la Douglass North (economista statunitense,
vincitore del premio Nobel nel 1993), per tacere dei più recenti sviluppi di un
pensiero sociale sempre più attento all'integrazione tra reciprocità,
redistribuzione, scambio - le forme allocative polanyiane, atte a contenere il
determinismo economico detto.
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Tra mercato
e pianificazione
Il contributo dello scienziato sociale istituzionalista - formatosi nella Budapest del primo decennio del Novecento e poi a Vienna, fra cultura liberale e socialdemocrazia, impegno intellettuale, fabianesimo, austromarxismo; attento osservatore dell'evolversi della vicenda politica occidentale, stretta fra crisi del modello liberale, rivoluzione sovietica, ascesa dei fascismi, new deal -, rappresenta, in breve, un tassello fondamentale, benché controverso, dell'antropologia economica e del comparativismo economico. Ebbene, per approfondire la conoscenza di tale «tassello» disponiamo ora anche di una raccolta di saggi inediti (testi di lezioni e manoscritti conservati presso l'archivio del Polanyi Institute for Political Economy di Montrèal), tradotti e pubblicati per la cura di Giorgio Resta e Mariavittoria Catanzariti nel volume Per un nuovo Occidente. Scritti 1919-1958 (Il Saggiatore, pp. 303, euro 22).
Si tratta di
scritti composti lungo un periodo di tempo che va, presumibilmente, dal 1919 al
1958, e nei quali, oltre ai temi che anticipano e seguono la pubblicazione
della Grande trasformazione avvenuta nel 1944, sono presenti anche altre
tematiche, quali il rapporto tra cultura inglese e struttura di classe, il
nesso tra opinione pubblica e arte di governo, il problema delle guerra e della
pace, lo statuto epistemologico delle scienze sociali. Al centro è posta la
crisi del modello occidentale e dunque la crisi dell'assetto economico e
istituzionale seguita in particolare al primo conflitto mondiale. Gli argomenti
trattati presentano indubbiamente una certa eterogeneità, dalla quale emerge
comunque con chiarezza quale fosse la «posizione» di Polanyi, lontana sia dalla
prospettiva del mercato autoregolantesi, sia dal «planismo» (sebbene esplicita
risulti essere l'attenzione indirizzata allo «esperimento» sovietico). Una
posizione tesa a considerare quale suo nesso cruciale la tensione ineliminabile
tra libertà dell'individuo e realtà dei vincoli sociali, la complessità dei
quali egli non può ignorare, né ad essa può sottrarsi, giacché la
consapevolezza inerente alla tensione detta costituisce, dell'individuo, la
libertà effettiva.
L'universalismo perduto
In un breve testo datato 16 ottobre 1958 - opportunamente posto in apertura della silloge - si coglie quanto importante fosse stata nell'immaginario polanyiano l'esperienza seguita al Primo conflitto mondiale: «Essa insegnò alla nostra generazione - scrive l'autore - che la storia non era questione del passato, come un'affrettata filosofia della Pace dei Cent'anni avrebbe voluto farci credere. E una volta iniziata, essa non poteva interrompersi». Non poteva cioè interrompersi quel processo che conduceva all'isterilirsi «dell'Occidente culturale nel suo incontro con il resto del mondo». Un processo sostenuto dagli stessi successi scientifici, tecnologici, economici dell'Occidente, vincolati però a una traiettoria economicistica, generatrice di «culture separate e distinte, tutte quante industriali, ma differenti».
Non si
trattò solo del venir meno dell'universalismo ebraico-cristiano, però, ma anche
- e ancor prima - della legittimità di pensare «al resto del mondo e per il
resto del mondo». Questo perché il dogma del determinismo economico non poteva
che generare un monologo, mentre il suo presupposto, il laissez-faire , si
rivelava essere un prezzo troppo alto da pagare per essere liberi. È certo vero
che le istituzioni sono determinate dalla sfera economica, data l'esigenza,
imprescindibile, di sviluppare un apparato produttivo funzionante, atto a
soddisfare i bisogni sociali; non è vero invece che ciò dipenda da «una qualità
immanente e senza tempo dell'economico in quanto tale».
Né è vero,
in particolare, che lavoro e terra siano sempre stati merci, «dal momento che o
non erano affatto "prodotti" (come la terra) o, comunque, non lo
erano "per la vendita" (come il lavoro)». La loro trasformazione in
merci «fittizie» - come sono definite nell'opera del 1944 - era tuttavia una
condizione indispensabile affinché potesse esistere una sfera economica
separata dalle altre istituzioni sociali e per la quale il lavoro cessava di
essere un'attività umana e la terra parte della natura. Il fatto poi che si
tendesse a guardare al passato con gli occhi del presente avrebbe inoltre
legittimato l'assunzione, ideologica, secondo cui le cose sarebbero sempre
andate così e il mercato si sarebbe dovuto quindi intendere come un'istituzione
senza tempo - dato il vincolo che lega la natura umana (a causa del bisogno e
per mezzo della ragione) allo scambio.
In realtà -
ed è questa la tesi forte di Polanyi -, le motivazioni economiche non hanno mai
costituito per l'uomo l'unico incentivo al lavoro. Onore, orgoglio, senso
civico e dovere morale, rispetto di sé e comune decenza erano spesso, in
passato, elementi caratterizzanti il lavoro; né fame e profitto hanno sempre rappresentato
dei moventi economici. Non solo: i morsi della fame non si sono mai tradotti,
automaticamente, in un incentivo a produrre, giacché «la produzione non è un
affare individuale, bensì collettivo». L' homo oeconomicus è perciò
un'astrazione (neoclassica) e la sua trasformazione in uomo «reale» è frutto
del riduzionismo economico (neoclassico), la cui tenuta scientifica è garantita
in quanto sia garantito il determinismo e, ancor prima, una sorta di
individualizzazione che fa dei rapporti sociali delle relazioni naturali.
Alla ricerca di buone istituzioni
Il Marx giovane era di certo una fonte per il Polanyi non (anti)marxista - né vanno dimenticati i rapporti con il coetaneo Lukács. Non è un caso che in un testo del '49, ragionando di libertà e quindi di «ineluttabilità liberista» (non c'è libertà senza laissez-faire ) e di «ineluttabilità marxista» (il dover sacrificare la libertà presente per una «reale» libertà futura), Polanyi affermi l'estraneità di Marx al «marxismo». In ogni caso - egli argomenta -, il messaggio degli storici dell'economia dovrebbe essere, oggi, il seguente: «possiamo permetterci di essere, allo stesso tempo, giusti e liberi». In tal senso, le istituzioni contano; e del pari conta il contributo che l'analisi istituzionale offre alle scienze sociali quando si tratti, soprattutto, di superare l'accezione «formale» di economico - utile solo a definire un modello di mercato basato sul principio di scarsità - e di far ritorno a un'accezione «sostanziale». Accezione per la quale ciò che conta è «un insieme di elementi economici integrati nelle istituzioni, essendo tali elementi classificati come necessità e bisogni, risorse materiali, servizi, attività produttive, trasporto e consumo di beni». Né si deve trascurare che le istituzioni non «pensano» come il singolo individuo, che esse non sono solo di carattere economico e che esercitano una loro autonomia.
L'artificialità liberale
Con grande enfasi Polanyi osserva: «E tale, precisamente, è il contributo che la definizione sostanziale di economico può offrirci. Essa, infatti, ci permette di addivenire a una ridefinizione delle principali istituzioni economiche, che non assuma a propria cornice di riferimento il mercato». Il che sembra significare, allo stesso tempo, due cose: anzitutto, la non legittimità d'impiegare strumenti interpretativi anacronistici - nel senso letterale del termine -; quindi, la possibilità di forgiare un apparato analitico efficace soprattutto quando si tratti di dar ragione di sistemi complessi, in cui il mercato conta, ma non è l'unico elemento che conta.
Il rapporto
tra liberalismo economico e democrazia, la separazione in esso tra sfera
economica e sfera politica, la difficoltà di governare tale separazione, hanno
generato un «sistema artificiale» - nota Polanyi -, nei confronti del quale
l'insieme dei vantaggi (sociali) e degli svantaggi (economici) prodotti da
possibili interventi protettivi, ma non organizzati (di tipo istituzionale,
associativo, religioso), potrebbe essere superato da interventi sistematici,
tali da combinare protezione sociale e vantaggi economici. Ma il solo accenno a
tale possibilità «suscita il panico nei mercati finanziari». Quindi? Quindi, la
«grande trasformazione» ripropone - come a suo tempo sottolineò Alfredo Salsano
- il rousseauiano paradosso della libertà, a fronte del quale va posta, secondo
Polanyi, l'assunzione del «limite» che caratterizza ogni società complessa.
(Da: Il
Manifesto 1 giugno 2013)
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