Bambini a Borgo di Dio
La natura umana è polimorfa, non si esaurisce in una dimensione utilitaristica: individualismo e socialità si coniugano. Insomma, l'"uomo a una dimensione" è un errore storico. L'ultimo libro del filosofo e psicoanalista Sergio Caruso.
Il fatto che alla recente scomparsa di Margaret Thatcher non abbia fatto seguito un'apologia corale del suo operato si deve probabilmente agli effetti della crisi economica nella quale siamo tuttora immersi. La recessione di questi anni, infatti, sta contribuendo a ridimensionare l'egemonia esercitata dall'impostazione politico-ideologica dell'ex-premier britannico nel corso dell'ultimo «inglorioso» trentennio, dimostrando ogni giorno di più, anche ai più scettici, l'inadeguatezza del neoliberismo e della teoria economica mainstream. Di quest'ultima appaiono oggi inadeguate non solo le prescrizioni di politica economica (liberalizzazioni e privatizzazioni), ma anche gli stessi presupposti antropologici, a cominciare dal principio della razionalità utilitaria ed egoistica dell'individuo, ovvero il modello dell'homo oeconomicus.
L'idea, cara alla Lady di ferro, secondo la quale il solo protagonista dell'agire sociale sarebbe l'individuo razionale ed egoista, in grado, con il suo operato, di garantire prosperità e benessere per tutti, non soltanto esce malconcia da un confronto con la realtà sociale ed economica, ma risulta inoltre sempre più insostenibile alla luce delle recenti acquisizioni delle scienze umane. Lo mostra bene nel suo ultimo libro Sergio Caruso, filosofo, psicologo e psicoanalista fiorentino, già fra i traduttori e curatori, nel 1973, de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, 194 pp., euro 16,90).
L'homo oeconomicus è un modello interpretativo che può avere (e storicamente ha avuto) diverse possibili declinazioni e varianti; è un «labirinto concettuale», per addentrarsi nel quale il lavoro di Caruso offre utili criteri di orientamento. Muovendosi all'interno di molti ambiti disciplinari (dalla psicologia sociale all'antropologia filosofica, dalla filosofia politica alle neuroscienze), Caruso fornisce al lettore una tipologia e una storia del concetto, soffermandosi anche sulle principali obiezioni ad esso mosse. Così facendo egli offre gli strumenti per una critica (in senso kantiano) dell'homo oeconomicus, ovverosia per una disamina delle sue (circoscritte) potenzialità e dei suoi (molti) limiti; particolarmente evidenti, questi ultimi, nelle semplificazioni operate da politici, giornalisti e docenti delle business schools.
La diffusione e la ricezione della categoria di homo oeconomicus si sono sempre accompagnate a malintesi e luoghi comuni, a cominciare dalla presunta paternità smithiana del concetto. Ne La ricchezza delle nazioni, una simile categoria interpretativa non compare, ed è solo con l'affermazione della teoria economia marginalista, fondata sull'utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill, che si consolida l'astratto modello dell'uomo egoista e razionale. Il primo economista a fare uso dell'espressione homo oeconomicus sembra sia stato Alfred Marshall; la sua diffusione fra Otto e Novecento si deve invece agli economisti neoclassici italiani, Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto, i quali ne fecero un asse portante del proprio edificio teorico.
Un altro fraintendimento deriva dalla sovrapposizione del paradigma dell'homo oeconomicus al (presunto) economicismo di Marx. Ne è un esempio la posizione assunta dal teorico della decrescita Serge Latouche (autore da cui Caruso prende le distanze sin dalla premessa), il quale accusa Marx e il marxismo di universalizzare la categoria dell'economico, vera e propria «invenzione» del mondo capitalistico. A una simile tesi basterebbe obiettare che fu proprio un marxista fra i più raffinati, Antonio Gramsci, a proporre una critica serrata del concetto di homo oeconomicus in quanto astrazione astorica. Secondo il comunista sardo, infatti, non avrebbe senso usare tale categoria al singolare (come fa l'economia politica neoclassica), ma andrebbe semmai ipotizzata l'esistenza di differenti homines oeconomici, riferibili ai diversi agenti economici tipici dei vari modi di produzione succedutisi nella storia: il feudatario, il servo della gleba, il capitalista, il salariato, e via di seguito. Astrazioni, certo, ma valide solo in quanto storicamente determinate.
Cosa resta da salvare, dunque, dell'homo oeconomicus? Da un confronto con le scienze umane emerge che di tale concetto possono essere ammesse solo le versioni più «moderate», ossia quelle meno impegnative dal punto di vista antropologico, da intendere sempre come finzioni metodologiche valide in riferimento a determinati contesti storici. Risultano invece insostenibili le varianti sostantive, ovvero quelle che pretendono di individuare nell'egoismo razionale l'essenza dell'umano. Queste versioni dell'homo oeconomicus hanno avuto tanto successo fra i teorici dell'economia (e non solo) in quanto hanno svolto la funzione di surrogati di una teoria psicologica quasi sempre assente all'interno del discorso degli economisti, offrendo per di più una comoda ideologia passepartout, funzionale al mantenimento del sistema capitalistico.
La ricerca psicologica e le neuroscienze confermano che la natura dell'uomo è polimorfa, e che pertanto l'homo oeconomicus convive con l'homo reciprocans, l'homo loquens, l'homo curans, l'homo ludens, l'homo faber e via di seguito. La dimensione economico-utilitaria non esaurisce mai, in altri termini, lo spettro delle tante componenti del comportamento umano. È ormai ampiamente dimostrato che il cervello dell'homo sapiens è «programmato» per essere (anche) empatico con i propri simili, e che nell'animale-uomo le pulsioni individualistiche convivono, da sempre, con le tendenze prosociali.
Il problema, a questo punto, sembra essere quello, classicamente marxiano, di come creare le condizioni storiche affinché le potenzialità prosociali dell'uomo possano liberamente esplicarsi al di là di una società fondata sulle classi e lo sfruttamento. Un problema, come si vede, non da poco.
Il manifesto, 26 giugno 2013
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