Uno studio incrociato
dei sarcofagi conservati nei Musei Vaticani e delle Tavole del
Trecento ha dimostrato che dall'Egitto del primo millennio a.C. agli
albori del Rinascimento la tecnica di pittura sul legno restò
sostanzialmente invariata. Un'ulteriore dimostrazione, se vogliamo,
che la storia materiale si svolge su tempi lunghi che spesso
travalicano i confini delle civiltà.
Lauretta Colonnelli - Così Giotto «copiò»
gli egizi
Giotto «copiava» i
pittori vissuti al tempo dei faraoni. La tecnica dei suoi dipinti su
tavola è identica a quella usata dagli artisti che nel primo
millennio avanti Cristo decoravano i sarcofagi in legno realizzati
sulle rive del Nilo per accompagnare nell'aldilà i corpi dei
sacerdoti di Amon. Come è possibile? Si sapeva che le conoscenze
degli egizi erano passate ai greci e poi ai romani. Ma non c'erano
prove che quelle conoscenze fossero arrivate praticamente intatte
fino alle botteghe del Medioevo. Eppure il procedimento era lo
stesso: si stendeva con le mani sul supporto ligneo un fondo composto
da argilla e gomma arabica, si passava con il pennello una mano di
colore a base di orpimento (giallo d'arsenico) per garantire
l'effetto della doratura, si tracciava il disegno preparatorio con la
sanguigna, si eseguivano le campiture di colore con pigmenti minerali
e leganti vegetali, infine si copriva tutto con una vernice
trasparente per proteggere il dipinto.
Perfino il significato
simbolico dei fondi in oro era stato tramandato lungo i secoli: aveva
la funzione, sia nell'antico Egitto sia nell'Europa del Medioevo, di
divinizzare le immagini. Se i pittori cristiani raffiguravano con i
volti circonfusi d'oro la divinità e i santi della Chiesa, quelli
egizi avvolgevano in un alone dorato il corpo del defunto ritratto
sul coperchio del sarcofago e ne illuminavano di giallo le mani e il
volto per trasformarlo in un dio e avviarne il processo di
rigenerazione.
La prova del legame tra
Giotto e gli artisti di tremila anni fa arriva adesso dal laboratorio
di diagnostica dei Musei Vaticani, dove la pittura dei sarcofagi è
stata analizzata e ha rivelato una stratigrafia identica a quella
della pittura su una tavola del Trecento. «Le immagini di queste
stratigrafie, messe a confronto, sembrano due copie della stessa
fotografia», conferma Ulderico Santamaria, direttore del
laboratorio. Del modo di dipingere su tavola al tempo di Giotto è
rimasta la testimonianza di Cennino Cennini, che a cavallo fra
Trecento e Quattrocento scrisse Il libro dell'arte, ancora oggi il
più famoso trattato sulle tecniche artistiche che ci sia stato
tramandato. Cennini, che celebra Giotto come il maestro che «rimutò
l'arte del dipingere dal grecho in latino e ridusse al moderno»,
descrive per la prima volta le tecniche di esecuzione fino allora
probabilmente tramandate di bottega in bottega: dalla tavola
preparata con uno strato di gesso alla finitura con la vernice
trasparente. «Ora — ribadisce Santamaria — abbiamo trovato nella
pittura dei sarcofagi il riscontro di queste tecniche teorizzate
all'interno delle corporazioni medievali».
Le recenti scoperte sulla
tecnica pittorica dei sarcofagi verranno presentate alla First
Vatican Coffin Conference, ai Musei Vaticani dal 19 al 22 giugno,
davanti a centocinquanta egittologi provenienti da tutto il mondo. La
conferenza segna la prima tappa del Vatican Coffin Project, avviato
nel 2008 e diretto da Alessia Amenta, che cura il Reparto antichità
egizie dei musei del Papa. Scopo del progetto a cui hanno aderito
anche il Louvre di Parigi e il Rijksmuseum van Oudheden di Leida:
studiare i sarcofagi lignei policromi del cosiddetto terzo periodo
intermedio (1070-712 a.C.). «Fino a oggi non si conosceva in maniera
approfondita la tecnica della pittura egizia su legno», racconta
Amenta. «L'idea della ricerca è nata quasi per caso, mentre ci
apprestavamo ad affrontare una campagna di restauro dei ventitré
sarcofagi custoditi in Vaticano.
Si tratta di veri e
propri capolavori di pittura su tavola: raffinati nel dettaglio,
eleganti nella composizione e nella scelta cromatica, complessi nella
scelta iconografica». Il lavoro è iniziato sui sarcofagi di cui si
avevano maggiori notizie: i cinque provenienti dal nascondiglio di
Bab el-Gasus (la porta dei sacerdoti) a Luxor. Il 5 febbraio 1891, il
francese Eugène Grébaut e il suo assistente Georges Daressy
trovarono l'ingresso di una tomba ancora sigillata, dove erano stati
nascosti, perché si salvassero dai saccheggi, 153 sarcofagi lignei,
appartenenti ai sacerdoti di Amon vissuti durante la XXI dinastia
(primo millennio a.C.). In soli nove giorni la tomba fu svuotata, i
sarcofagi caricati su imbarcazioni e spediti sul Nilo verso il Cairo.
Ma il museo della città non era in grado di ospitare una così
grande quantità di reperti, arrivati tutti insieme. Il governo
egiziano decise perciò di donare ai diciassette Paesi che avevano
partecipato alla festa per l'incoronazione del nuovo Khedivè
altrettanti lotti di sarcofagi. Il Vaticano ricevette il lotto numero
17. Un'altra parte dei ritrovamenti fu destinata al mercato
antiquario. Oggi queste opere sono disperse in almeno trenta musei
del mondo.
Ricorda Amenta che i
sarcofagi di Bab el-Gasus appaiono particolarmente ricchi di
decorazioni perché appartengono al momento storico che segue il
cosiddetto Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), quello in cui il faraone
Ramesse II aveva trasformato il Paese nella superpotenza del Vicino
Oriente. Al tempo di Ramesse II anche le tombe erano dipinte
magnificamente. La gravissima crisi economica che incombeva
sull'Egitto all'inizio del primo millennio a.C. non permetteva più
simili lussi. Le tombe diventarono di tipo familiare, l'apparato
decorativo fu ridotto e trasferito dalle pareti della sepoltura alle
superfici sia esterne che interne dei sarcofagi in legno, che oggi
rappresentano «un dizionario enciclopedico della religione egizia»,
secondo la definizione dell'archeologo Gaston Maspero.
Ma chi realizzava questi
oggetti? Come era organizzato il lavoro degli artigiani coinvolti?
C'era un maestro pittore? C'erano delle botteghe? E dove? Chi
sceglieva l'apparato testuale e quello iconografico? Dove si
acquistavano i pigmenti? Come ci si procurava il legno in una regione
dove gli alberi hanno sempre scarseggiato? I ricercatori del Progetto
Vaticano stanno inseguendo le risposte. Sono convinti che i sarcofagi
racchiudano una miniera enorme di informazioni.
Alcune sono già venute
alla luce. Il legno usato era di fico sicomoro, acacia nilotica,
tamerice: piante locali che fornivano assi lunghe e molto leggere. I
falegnami cercavano di non sprecarle, recuperando anche i frammenti,
utilizzati spesso per realizzare gli ushabti, le statuine dei
servitori rinvenute nei corredi funebri.
Santamaria, con l'aiuto
di Fabio Morresi, ha scoperto che l'effetto dorato dei sarcofagi dei
sacerdoti era talvolta ulteriormente accentuato dalla presenza di
pigmento giallo nella vernice. Si tratta di polveri minerali come
l'orpimento (tra l'altro usato in abbondanza anche da Giotto) e
impiegato dai pittori egizi per le mani e il volto dei sarcofagi a
imitazione della pelle dorata degli dei. Lo studioso ha infine
riprodotto nei laboratori dell'Università della Tuscia, a Viterbo,
un campione del leggendario blu egizio, profondo e luminoso come
nessun altro. Anche la ricetta di questo pigmento, prodotto
artificialmente dagli artisti dei faraoni, era stata tramandata
attraverso greci, etruschi e romani fino a Giotto. Il blu egizio
scomparve a partire da Masolino e Masaccio, sostituito dai più
banali blu smalto e azzurrite e dal prezioso blu lapislazzuli. Nei
secoli successivi si cercò invano di ricrearne la formula esatta.
(Da: Il Corriere della
Sera del 16 giugno 2013)
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