IL MERCATO NON E’ DIO
Ci sono tante
contraddizioni sotto il cielo. Una di queste la notiamo ogni giorno sfogliando La
Repubblica, il giornale più letto dai cosiddetti progressisti in Italia. Il quotidiano ha fama di essere di
sinistra. Ma se si dovesse fare riferimento solo agli editoriali di Eugenio
Scalfari, padre fondatore del giornale, più di un dubbio potrebbe sorgere. Non si
comprende infatti come possa essere considerato di sinistra chi, da un anno
almeno, dà saccenti lezioni di real politik conducendo tanti lettori ad
ingoiare prima il rospo Monti e adesso il governo Letta.
Per fortuna le
contraddizioni non mancano neppure su La Repubblica, così l’altro
giorno, su questo stesso giornale, abbiamo potuto leggere due articoli che vanno
nella direzione opposta a quella indicata da Scalfari.
LUCIANO GALLINO –
La macchina cieca dei mercati finanziari
Uscito di prigione dov’era finito per aver esagerato con i suoi traffici, il finanziere Gordon Gekko dice al pubblico stipato in sala che, guardando il mondo da dietro le sbarre, ha fatto delle profonde riflessioni. E le condensa in una domanda: «Stiamo diventando tutti pazzi?» La scena fa parte di un film su Wall Street, ma la stessa domanda uno poteva porsela giovedì 20 giugno mentre gli schermi tv e tutti i notiziari online sparavano ancora una volta notizie del tipo: “I mercati prendono male le dichiarazioni del governatore della Fed”; “crollo delle borse europee”; “bruciati centinaia di miliardi”; “preoccupati per il futuro, i mercati affondano le borse”. E, manco a dirlo, “risale lo spread”.
Esistono due ordini di motivi che giustificano il chiedersi se – cominciando dai media e dai politici – non stiamo sbagliando tutto preoccupandoci dinanzi a simili notizie di superficie in cambio di ciò che realmente significano. In primo luogo ci sono dei motivi, per così dire, tecnici. Nel mondo circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati, di cui soltanto il dieci per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice “al banco”, per cui nessun indice può rilevarne il valore. Ma anche per i titoli quotati in borsa le cose non vanno meglio. Infatti si stima che le transazioni che vanno a comporre gli indici resi pubblici riguardino appena il 40 per cento dei titoli scambiati; gli altri si negoziano su piattaforme private (soprannominate dark pools, ossia “bacini opachi” o “stagni scuri”) cui hanno accesso soltanto grandi investitori. Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine – niente a che vedere con investimenti “pazienti” a lungo termine nell’economia reale. Non basta. Di tali transazioni a breve, circa il 35-40 per cento nell’eurozona, e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in Usa, si svolgono mediante computer governati da algoritmi che esplorano su quale piazza del mondo il tale titolo (o divisa, o tasso di interesse o altro) vale meno e su quale vale di più, per avviare istantaneamente una transazione. L’ultimo primato noto di velocità dei computer finanziari è di 22.000 (ventiduemila) operazioni al secondo, ma è probabile sia già stato battuto. Ne segue che chi parla di “giudizio dei mercati” dovrebbe piuttosto parlare di “giudizio dei computer”. Con il relativo corredo di ingorghi informatici, processi imprevisti di retroazione, episodi d’imitazione coatta, idonei a produrre in pochi minuti aumenti o cadute eccessive dei titoli, del tutto disconnessi da fattori reali.
In sostanza, i mercati finanziari presentati al pubblico come fossero divinità scese in terra, alla cui volontà e giudizio bisogna obbedire se no arrivano i guai, sono in realtà macchine cieche e irresponsabili, in gran parte opachi agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E, per di più, pateticamente inefficienti. Soltanto dal 2007 in poi la loro inefficienza è costata a Usa e Ue tra i 15 e i 30 trilioni di dollari. Emergono qui i motivi politici per guardare ai mercati in modo diverso da quello che ci chiedono. Cominciando, ad esempio, a rivolgere ai governanti e alle istituzioni Ue una domanda (un po’ diversa da quella di Gekko, ma nello stesso spirito): se in effetti sono i mercati ad essere dissennatamente indisciplinati, perché mai continuate a raccontarci che se noi cittadini non ci assoggettiamo a una severa disciplina in tema di pensioni, condizioni di lavoro, sanità, istruzione, i mercati ci puniranno?
In verità una domanda del genere governi e istituzioni Ue se la sono posta da tempo, pur senza smettere di bacchettarci perché saremmo noi gli indisciplinati. Fin dal 2007 la Ue aveva introdotto una prima Direttiva sui mercati degli strumenti finanziari (acronimo internazionale Mifid). Non è servita praticamente a nulla, meno che mai a temperare la crisi. Ma governi e istituzioni Ue non si sono arresi. Prendendosi non più di cinque o sei anni di tempo, intanto che i mercati finanziari contribuivano a devastare l’esistenza di milioni di persone, si sono messi alacremente al lavoro per elaborare una Mifid II. E poche settimane fa l’hanno sfornata – in ben tre versioni differenti. Esiste infatti una versione del Consiglio dell’Unione, una del Parlamento europeo e una della Commissione europea. Gli esperti assicurano che nel volgere di un anno avremo finalmente una versione definitiva, che emergerà dal “trialogo” fra le tre istituzioni. Quando entrerà pienamente in vigore, nel volgere di un biennio o due dopo l’approvazione come si usa, anche i mercati finanziari saranno finalmente assoggettati a una robusta disciplina, non soltanto i cittadini che han dovuto sopportare, a colpi di austerità, il costo delle loro sregolatezze. Saranno trascorsi non più di otto o dieci anni dall’inizio della crisi.
È tuttavia probabile che di una vera e propria azione disciplinare i mercati finanziari non ne subiranno molta, e di certo non tanto presto. In effetti, il meno che si possa dire della tripla Mifid è che le divergenze fra le tre versioni sono altrettanto numerose e consistenti delle convergenze, mentre in tutte quante sono pure numerose e vaste le lacune. Da un lato ci sono notevoli distanze nei modi proposti per regolare le piattaforme di scambio private (i dark pools), le transazioni computerizzate ad alta frequenza, l’accesso degli operatori alle stanze di compensazione. Dall’altro lato, non si prevede alcun dispositivo per regolare i mercati ombra; vietare la creazione e la diffusione di derivati pericolosi perché fanno salire i prezzi degli alimenti di base; limitare l’entità delle operazioni meramente speculative. Ovviamente, tra divergenze e assenze le potenti Lobbies dell’industria finanziaria ci guazzano. Sono già riuscite a ritardare l’introduzione di qualsiasi riforma di una decina d’anni dopo gli esordi della crisi, una riforma che sia una di qualche incisività a riguardo sia dei mercati sia del sistema bancario; se insistono, magari riescono pure a raddoppiare questi tempi. I governi e le istituzioni Ue hanno dunque larghi spazi e tempi lunghi davanti, per insistere nel disciplinare i cittadini invece dei mercati finanziari.
La Repubblica, 26 giugno 2013
BARBARA SPINELLI - Il giudizio universale di JPMorgan
IL TEMPO storico ha degli scatti,
scrive
Franco Cordero su questo giornale (9 maggio), e ogni tanto gli scenari mutano
improvvisamente: un tabù civilizzatore cade; avanza un nuovo che scardina la
convivenza cittadina regolata. Gli Stati di diritto d’un colpo son traversati
da crepe, come il Titanic quando urtò l’iceberg e in principio parve un
nonnulla. Oggi, è «l’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo,
giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla
legge» a esser malvista dalla parte dominante nel XXI secolo. Soprattutto, sono
malviste le Costituzioni nate dalla Resistenza. Specie quelle del Sud Europa:
in Italia, Grecia, Spagna, Portogallo. Nessuno Stato lo proclamerebbe a voce
alta. Ma lo dice con grande sicurezza, perché fiuta larghi consensi, una delle
più potenti banche d’affari del mondo, JPMorgan, in un rapporto sulla crisi
dell’euro pubblicato il 28 maggio.
È un testo da leggere, perché in quelle righe soffia lo Spirito del Tempo. Il proposito di chi l’ha redatto è narrare la crisi ( narrazione è termine ricorrente) e la morale è chiara: se l’Europa patisce recessioni senza tregua, significa che le sue radici sono marce, e vanno divelte. Berlusconi lo disse già nel febbraio 2009: la nostra Costituzione fu «scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate che vedevano nella Costituzione russa un modello». Sapeva di avere il vento in poppa. Oggi è azzoppato da una sentenza che lo giudica un fuori-legge, ma che importa se il pericolo vero è la Costituzione (solo Vendola chiede le dimissioni). Anche JPMorgan è accusata dal Senato Usa di speculazioni fraudolente, ma che importa. La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio, pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: «Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali» e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste. Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti. Le patologie europee sono così elencate: «Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». Di qui i successi solo parziali, in Sud Europa, nell’attuare l’austerità: «Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».In tempi più lontani si suggeriva di correggere la democrazia «osando più democrazia »: lo disse Willy Brandt. Non così quando la Cina vince senza democrazia.
È un testo da leggere, perché in quelle righe soffia lo Spirito del Tempo. Il proposito di chi l’ha redatto è narrare la crisi ( narrazione è termine ricorrente) e la morale è chiara: se l’Europa patisce recessioni senza tregua, significa che le sue radici sono marce, e vanno divelte. Berlusconi lo disse già nel febbraio 2009: la nostra Costituzione fu «scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate che vedevano nella Costituzione russa un modello». Sapeva di avere il vento in poppa. Oggi è azzoppato da una sentenza che lo giudica un fuori-legge, ma che importa se il pericolo vero è la Costituzione (solo Vendola chiede le dimissioni). Anche JPMorgan è accusata dal Senato Usa di speculazioni fraudolente, ma che importa. La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio, pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: «Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali» e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste. Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti. Le patologie europee sono così elencate: «Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». Di qui i successi solo parziali, in Sud Europa, nell’attuare l’austerità: «Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».In tempi più lontani si suggeriva di correggere la democrazia «osando più democrazia »: lo disse Willy Brandt. Non così quando la Cina vince senza democrazia.
E non
s’illuda chi vuol rafforzare i diritti riversandoli in una Costituzione
europea. Se il guaio è l’eredità, il testamento svanisce e i padri costituenti
vanno uccisi: non ovunque magari - Berlino sta rafforzando il suo Parlamento e
la Corte costituzionale - ma di certo nei paesi indebitati, dove guarda caso la
Resistenza fu popolare e vasta. Il rapporto di JPMorgan è uscito prima che, la
notte dell’11 giugno, venisse chiusa l’Ert, equivalente greca della Rai,
aprendo una falla nelle torbide larghe intese di Samaras. Di sicuro il colpo di
mano sarebbe stato applaudito: anche l’informazione non-commerciale è costoso
bene pubblico di cui disfarsi. La trojka (Commissione europea, Bce, Fondo
Monetario) ha ottenuto molto, concludono i sei economisti autori del rapporto.
Ma il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, «neanche è cominciato».
«Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare
significative riforme».
Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delle utilità pubbliche. L’economista Varoufakis s’allarma: «Murdoch e simili saranno in estasi: l’Ert smantellato diverrà un modello per privatizzare la Bbc, o l’Abc in Australia, o la Cbc in Canada ». O la Rai. Si capisce infine la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democrazia.
Discutendo il presidenzialismo, Zagrebelsky vede in azione il perturbante: «Penso che il tema andrebbe trattato non come fosse al centro di una guerra di religione, ma guardando empiricamente come funziona il presidenzialismo nei vari paesi». Colpisce l’accenno alle guerre di religione, perché fideistica è l’apparente sfrontatezza degli economisti di JPMorgan. Il neo-liberismo s’irrigidisce in credo, come intuì nel 1921 Walter Benjamin nel frammento Capitalismo come religione.Invece di una svolta, di un rinnovamento, abbiamo una sorta di anticipato Giudizio Universale al cui centro c’è il binomio punitivo colpa/ debito. In tedesco Schuld significa le due cose ed è parola «diabolicamente ambigua », ricorda Benjamin. Non prefigura redenzioni, ma trasforma l’economia in divina legge di natura, e volut amente perpetua «un’inquietudine senza via d’uscita». Siamo prede del Destino, fatto di sventura e colpa: «una malattia dello spirito propria del capitalismo». Chi la pensa così ha un credo, per di più autoassolutorio. La storia delle nazioni, quel che hanno costruito imparando dagli errori: non è che un incomodo, ribattezzato status quo.
In un libro appena uscito, Roberta De Monticelli parla di catarsi mancata dall’Italia, di una speranza «non aperta al vero se non ha memoria» (Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina). Il rapporto di JPMorgan non ha contezza di tragedie e catarsi.
È vero, le Costituzioni sono la risposta data ai totalitarismi. I cittadini devono poter protestare, se dissentono dai governi. Quando l’articolo 1 della nostra Carta scrive che la Repubblica è fondata sul lavoro, afferma che economia e finanza vengonodopo, non prima della dignità della persona. Quando l’articolo 41 sostiene che l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», ricorda che il bene pubblico è legge per i mercati. L’Unione sovietica ignorava la legge. La Resistenza ci ha affidato questo retaggio. Ha generato, contemporaneamente, sia l’unità europea, sia la lotta alla povertà e il Welfare. Sfrattare le Costituzioni vuol dire che l’Europa sarà autoritaria, e decerebrata perché senza memoria di sé. Per altro è nata, conclude De Monticelli: «Perché le leggi di natura scendessero giù, nel fondamento muto delle nostre vite, e in alto invece – al posto del cielo e delle stelle – fossero poste leggi fatte da noi, fatte per porre un limite a ciò che c’è in noi di violento e di rapace (...) Fatte soprattutto perché la giustizia cosmica non c’è, perché l’ordine del cosmo è per noi umani cosmica ingiustizia ». Demolire le Costituzioni in nome della cosmica giustizia dei mercati: questo sì sarebbe colpa-debito, e inquietudine senza via d’uscita.
Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delle utilità pubbliche. L’economista Varoufakis s’allarma: «Murdoch e simili saranno in estasi: l’Ert smantellato diverrà un modello per privatizzare la Bbc, o l’Abc in Australia, o la Cbc in Canada ». O la Rai. Si capisce infine la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democrazia.
Discutendo il presidenzialismo, Zagrebelsky vede in azione il perturbante: «Penso che il tema andrebbe trattato non come fosse al centro di una guerra di religione, ma guardando empiricamente come funziona il presidenzialismo nei vari paesi». Colpisce l’accenno alle guerre di religione, perché fideistica è l’apparente sfrontatezza degli economisti di JPMorgan. Il neo-liberismo s’irrigidisce in credo, come intuì nel 1921 Walter Benjamin nel frammento Capitalismo come religione.Invece di una svolta, di un rinnovamento, abbiamo una sorta di anticipato Giudizio Universale al cui centro c’è il binomio punitivo colpa/ debito. In tedesco Schuld significa le due cose ed è parola «diabolicamente ambigua », ricorda Benjamin. Non prefigura redenzioni, ma trasforma l’economia in divina legge di natura, e volut amente perpetua «un’inquietudine senza via d’uscita». Siamo prede del Destino, fatto di sventura e colpa: «una malattia dello spirito propria del capitalismo». Chi la pensa così ha un credo, per di più autoassolutorio. La storia delle nazioni, quel che hanno costruito imparando dagli errori: non è che un incomodo, ribattezzato status quo.
In un libro appena uscito, Roberta De Monticelli parla di catarsi mancata dall’Italia, di una speranza «non aperta al vero se non ha memoria» (Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina). Il rapporto di JPMorgan non ha contezza di tragedie e catarsi.
È vero, le Costituzioni sono la risposta data ai totalitarismi. I cittadini devono poter protestare, se dissentono dai governi. Quando l’articolo 1 della nostra Carta scrive che la Repubblica è fondata sul lavoro, afferma che economia e finanza vengonodopo, non prima della dignità della persona. Quando l’articolo 41 sostiene che l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», ricorda che il bene pubblico è legge per i mercati. L’Unione sovietica ignorava la legge. La Resistenza ci ha affidato questo retaggio. Ha generato, contemporaneamente, sia l’unità europea, sia la lotta alla povertà e il Welfare. Sfrattare le Costituzioni vuol dire che l’Europa sarà autoritaria, e decerebrata perché senza memoria di sé. Per altro è nata, conclude De Monticelli: «Perché le leggi di natura scendessero giù, nel fondamento muto delle nostre vite, e in alto invece – al posto del cielo e delle stelle – fossero poste leggi fatte da noi, fatte per porre un limite a ciò che c’è in noi di violento e di rapace (...) Fatte soprattutto perché la giustizia cosmica non c’è, perché l’ordine del cosmo è per noi umani cosmica ingiustizia ». Demolire le Costituzioni in nome della cosmica giustizia dei mercati: questo sì sarebbe colpa-debito, e inquietudine senza via d’uscita.
La Repubblica, 26 giugno 2013
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