18 giugno 2013

SUL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI






Benedetto Vecchi  -  Maitre-à -penser. Sulla fine degli intellettuali


La sua morte è stata annunciata più volte, per essere in seguito altrettanto repentinamente smentita. Il primo che ne ha stilato un obituary, attraverso un libro segnato da una malcelata nostalgia per il passato alle sue spalle, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla conoscenza delle tesi lì espresse, è Julien Benda, che ne Il tradimento dei chierici denunciava la scomparsa dell'intellettuale custode di valori universali a favore di un personaggio pubblico impegnato nell'agone politico. Il tradimento, stava nella rinuncia alla sua separatezza dalla mondanità: separatezza tanto importante quanto indispensabile per continuare a illuminare la caverna dove uomini e donne vivono, diradando così le ombre che impediscono la ricerca della verità. Tempo un decennio - il Tradimento dei chierici fu pubblicato nel 1927 - e gli intellettuali diventarono una presenza abituale nella sfera pubblica, grazie alle loro prese di posizione contro il fascismo e il nazismo, ma anche per l'impegno, al di là dell'Oceano, nel New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Sempre negli anni Trenta, dal carcere Antonio Gramsci scriveva le note sull'intellettuale organico come una conseguenza della modernità capitalistica. La partecipazione dell'intellettuale alla vita pubblica, più che decretarne la morte, segnalava il potere che esercitava nell'arena politica.

La gabbia della parcellizzazione

È stato dunque l'intellettuale organico la figura che, nel bene e nel male, si è imposta nel Novecento. Anche il maître-à-penser caro a Jean-Paul Sartre era un intellettuale che si incamminava sulla strada dell'impegno politico, rivendicando un'autonomia di giudizio dal partito che doveva rappresentare la classe, ma si considerava tuttavia organico a un progetto di trasformazione radicale della società. Doveva compiersi il giro di boa degli anni Settanta affinché fosse nuovamente annunciata la morte dell'intellettuale. Anche questa volta l'annuncio veniva dalla Francia e se ne fece portavoce, tra gli altri, Michel Foucault.

L'intellettuale organico e il maître à penser, veniva detto, erano figure divenute improponibili in una realtà che vedeva una parcellizzazione del sapere veicolata dall'industria culturale e dall'uso sempre più intensivo del sapere nella produzione di merci. Il problema, tuttavia, non era il ritorno alla condizione solitaria, separata dalla realtà sociale dell'intellettuale, bensì la politicizzazione dei saperi disciplinari.

L'intellettuale specifico, e la forma mondana che ha assunto, il tecnico, è una figura che non afferma né valori universali né l'adesione a una politica della trasformazione, ma che punta semmai a un uso politico delle proprie competenze. È questa la parabola che emerge da una serie di scritti dello storico Eric Hobsbawm pubblicati dopo la sua morte, avvenuta nell'ottobre del 2012, e tradotti in Italia da Rizzoli con il titolo La fine della cultura (pp. 310, euro 20), del breve scritto di Rino Genovese Il destino dell'intellettuale (manifestolibri, pp. 126, euro 15) e dall'ambizioso saggio del giovane ricercatore Francesco Antonelli Da élite a sciame (Le Lettere, pp. 362, euro 24).

Sono tre libri tra loro molto diversi, sia per stile enunciativo che per le «discipline» dei tre autori, storico il primo, filosofo il secondo, sociologo il terzo. In ogni caso, tutti e tre riflettono sulla morte dell'intellettuale. Per Hobsbawm si è consumata nel secolo breve, dovuta a quel punto di non ritorno che è stata la sconfitta dei progetti politici di trasformazione radicale della società. Questo non significa che la sua scomparsa abbia lasciato un vuoto. Più prosaicamente, se la modernità ha visto manifestarsi l'intellettuale organico o specifico, nel capitalismo postmoderno il protagonista nella socializzazione del sapere è l'opinion maker, cioè il produttore di opinione pubblica che non fa leva sull'adesione a valori universali, né su una competenza specifica, ma soltanto su una competenza nell'uso di un mezzo di produzione «specifico», come radio, televisione, carta stampata e, più recentemente, la Rete.

Un vitale disincanto

Il libro dello storico inglese è costruito partendo dalla cosiddetta «autoriflessività» della modernità borghese per poi spaziare sul ruolo della cultura nella formazione delle identità nazionali, tanto in Europa che nel resto del mondo e di come tale ruolo si presenti in una forma caricaturale nei tanti etnonazionalismi che si sono presentati sulla scena pubblica dopo il crollo del socialismo reale. Annota con disincanto la marginalità che hanno ormai alcuni «manufatti culturali», indipendentemente dal successo di pubblico che hanno alcuni festival culturali dedicati, ad esempio, all'opera classica, al jazz e al teatro. Tutto questo per giungere alla conclusione sulla fine della cultura. L'accesso al sapere è garantito, ovviamente. È un diritto acquisito. La differenza è se tale diritto debba essere garantito dal mercato, come avviene in gran parte dei paesi capitalistici, o da una qualche forma di intervento pubblico in favore dei produttori di cultura.

Per quanto riguarda la figura dell'intellettuale, Hobsbawm riflette sull'eclissi dell'intellettuale organico (lo storico inglese ha letto e studiato gli scritti di Antonio Gramsci dal carcere ben prima che venissero tradotti in inglese) e sulla fragilità che ha sempre avuto la figura del maître-à-penser. Anche su questo passaggio prevale il disincanto. Hobsbawm sostiene, e qui la sua posizione coincide quasi alla lettera con quanto ha sostenuto, alla metà degli anni Novanta, Edward Said in un ciclo di conferenze alla Reith Lectures e poi raccolto nel volume Dire la verità (Feltrinelli), che l'intellettuale deve esprimere il dissenso quando è necessario, esercitando così uno spirito critico, anche quando questo è in contraddizione con la sua posizione politica. La posta in gioco è dunque l'autonomia dell'intellettuale da potere, sia di quello politico che di quello esercitato dall'industria culturale e dal mercato. Tutto ciò non contrasta la tendenza della produzione dell'opinione pubblica da parte di altre figure, come attori, attrici, sportivi, giornalisti, presentatori, ma facilita la messa a fuoco politica della costruzione di punti di vista critici sulla realtà.

Sulla stessa posizione è Rino Genovese nel Destino dell'intellettuale, saggio dolceamaro sull'incapacità del Sessantotto di immaginare una figura intellettuale diversa da quella dell'intellettuale organico che si chiude con l'auspicio di una rinnovata presa di parola degli intellettuali nella difesa di valori universali - verità, giustizia, libertà e uguaglianza - nella prospettiva di un relativismo culturale «forte», cioè consapevole del fatto che l'intellettuale è sempre «situato» in un contesto geopolitico.

I lavoratori della conoscenza

Gli scritti di Hobsbawm e quelli di Rino Genovese si fermano sul ciglio di quel nuovo modo di produzione dell'opinione pubblica, che invece è varcato da Francesco Antonelli nel suo Da élite a sciame. Anche qui l'autore parte da molto lontano; assume come dirimenti sia la riflessione di Benda che quella di Antonio Gramsci, mettendo in evidenza l'entrata nell'agone politico dei «colti» e assegnando al partito di massa il ruolo di medium dell'intellettuale pubblico. Antonelli tuttavia è interessato a comprendere cosa viene dopo la morte dell'intellettuale pubblico, facendo sue alcune tesi sul capitalismo cognitivo, in particolare modo quelle che sottolineano non solo che il sapere e la conoscenza sono diventati mezzi produttivi, ma anche il fatto che la produzione di senso è ormai un settore produttivo come molti altri. Per questo preferisce parlare di intelligenza collettiva e di parallela obsolescenza sia degli intellettuali pubblici che di quelli specifici. Per l'autore, chi vive del lavoro intellettuale deve essere qualificato come un lavoratore della conoscenza. È questa la figura erede dell'intellettuale.

Rimangono tuttavia indefiniti alcuni aspetti legati alla figura dell'intellettuale. Il rapporto con il potere, in primo luogo. C'è poi la necessità di definire qual è il rapporto tra gli intellettuali-lavoratori della conoscenza e i i movimenti che tendono a trasformare la realtà. Infine: una volta che l'intellettuale è ormai un lavoratore della conoscenza, quale sono le modalità di organizzazione di questa componente del lavoro vivo? Lo sciame indicato nel libro di Antonelli più che una risposta a questa ultima domanda indica semmai i comportamenti dei lavoratori della conoscenza, ma fornisce anche alcune tendenze presenti nella produzione dell'opinione pubblica. Con l'eclissi dell'intellettuale e l'ascesa della Rete, infatti, la produzione dell'opinione pubblica richiede un «modello di business» per la produzione di senso. Già perché la supposta morte dell'intellettuale è contemporanea non solo alla pervasività dell'industria culturale, ma alla interdipendenza tra produzione e circolazione della conoscenza e formazione dell'opinione pubblica. Come infatti dimostrano alcune vicende della politica italiana, che corre il rischio di diventare un laboratorio sociale, il ruolo dei media è rappresentabile come una efficace fabbrica del consenso, ma allo stesso tempo indicano che la politica e la produzione dell'opinione pubblica possono diventare un fattore diretto nella sviluppo di imprese che operano nella Rete, come dimostra il rapporto tra crescita di influenza del Movimento cinque stelle, la redditività economica dei blog, dei siti e delle imprese legate a quel movimento. Lo stesso si può dire dei social network, dove l'opinione pubblica è «spacchettata» e ridotta a un ammasso di dati che viene venduto per pianificare campagne pubblicitarie e politiche mirate.

In una situazione di questo tipo, decretare la morte dell'intellettuale è cosa facile. Eppure, quello spazio lasciato dalla sua scomparsa non rimane certo vuoto. La presenza di una coscienza critica, che più che illuminare la caverna dove viviamo serve a destrutturare i rapporti di potere vigenti e dunque a fornire materiali per una politica di trasformazione della realtà, è una presenza sempre più necessaria, sapendo che ogni riproposizione dell'aura dell'intellettuale è solo un'operazione di testimonianza e di nostalgia per un passato che non c'è più.

Meno battuta è la strada indicata da chi vede nel «lavoratore della conoscenza» il suo erede. Da qui la necessità di definire la sua autonomia dall'industria culturale e dalle imprese che operano in Rete. Una strada impervia, sicuramente, ma quella da perseguire per conseguire la produzione e la circolazione di una coscienza critica sulla realtà. Benedetto Vecchi

La sua morte è stata annunciata più volte, per essere in seguito altrettanto repentinamente smentita. Il primo che ne ha stilato un obituary, attraverso un libro segnato da una malcelata nostalgia per il passato alle sue spalle, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla conoscenza delle tesi lì espresse, è Julien Benda, che ne Il tradimento dei chierici denunciava la scomparsa dell'intellettuale custode di valori universali a favore di un personaggio pubblico impegnato nell'agone politico. Il tradimento, stava nella rinuncia alla sua separatezza dalla mondanità: separatezza tanto importante quanto indispensabile per continuare a illuminare la caverna dove uomini e donne vivono, diradando così le ombre che impediscono la ricerca della verità. Tempo un decennio - il Tradimento dei chierici fu pubblicato nel 1927 - e gli intellettuali diventarono una presenza abituale nella sfera pubblica, grazie alle loro prese di posizione contro il fascismo e il nazismo, ma anche per l'impegno, al di là dell'Oceano, nel New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Sempre negli anni Trenta, dal carcere Antonio Gramsci scriveva le note sull'intellettuale organico come una conseguenza della modernità capitalistica. La partecipazione dell'intellettuale alla vita pubblica, più che decretarne la morte, segnalava il potere che esercitava nell'arena politica.

La gabbia della parcellizzazione

È stato dunque l'intellettuale organico la figura che, nel bene e nel male, si è imposta nel Novecento. Anche il maître-à-penser caro a Jean-Paul Sartre era un intellettuale che si incamminava sulla strada dell'impegno politico, rivendicando un'autonomia di giudizio dal partito che doveva rappresentare la classe, ma si considerava tuttavia organico a un progetto di trasformazione radicale della società. Doveva compiersi il giro di boa degli anni Settanta affinché fosse nuovamente annunciata la morte dell'intellettuale. Anche questa volta l'annuncio veniva dalla Francia e se ne fece portavoce, tra gli altri, Michel Foucault.

L'intellettuale organico e il maître à penser, veniva detto, erano figure divenute improponibili in una realtà che vedeva una parcellizzazione del sapere veicolata dall'industria culturale e dall'uso sempre più intensivo del sapere nella produzione di merci. Il problema, tuttavia, non era il ritorno alla condizione solitaria, separata dalla realtà sociale dell'intellettuale, bensì la politicizzazione dei saperi disciplinari.

L'intellettuale specifico, e la forma mondana che ha assunto, il tecnico, è una figura che non afferma né valori universali né l'adesione a una politica della trasformazione, ma che punta semmai a un uso politico delle proprie competenze. È questa la parabola che emerge da una serie di scritti dello storico Eric Hobsbawm pubblicati dopo la sua morte, avvenuta nell'ottobre del 2012, e tradotti in Italia da Rizzoli con il titolo La fine della cultura (pp. 310, euro 20), del breve scritto di Rino Genovese Il destino dell'intellettuale (manifestolibri, pp. 126, euro 15) e dall'ambizioso saggio del giovane ricercatore Francesco Antonelli Da élite a sciame (Le Lettere, pp. 362, euro 24).

Sono tre libri tra loro molto diversi, sia per stile enunciativo che per le «discipline» dei tre autori, storico il primo, filosofo il secondo, sociologo il terzo. In ogni caso, tutti e tre riflettono sulla morte dell'intellettuale. Per Hobsbawm si è consumata nel secolo breve, dovuta a quel punto di non ritorno che è stata la sconfitta dei progetti politici di trasformazione radicale della società. Questo non significa che la sua scomparsa abbia lasciato un vuoto. Più prosaicamente, se la modernità ha visto manifestarsi l'intellettuale organico o specifico, nel capitalismo postmoderno il protagonista nella socializzazione del sapere è l'opinion maker, cioè il produttore di opinione pubblica che non fa leva sull'adesione a valori universali, né su una competenza specifica, ma soltanto su una competenza nell'uso di un mezzo di produzione «specifico», come radio, televisione, carta stampata e, più recentemente, la Rete.

Un vitale disincanto

Il libro dello storico inglese è costruito partendo dalla cosiddetta «autoriflessività» della modernità borghese per poi spaziare sul ruolo della cultura nella formazione delle identità nazionali, tanto in Europa che nel resto del mondo e di come tale ruolo si presenti in una forma caricaturale nei tanti etnonazionalismi che si sono presentati sulla scena pubblica dopo il crollo del socialismo reale. Annota con disincanto la marginalità che hanno ormai alcuni «manufatti culturali», indipendentemente dal successo di pubblico che hanno alcuni festival culturali dedicati, ad esempio, all'opera classica, al jazz e al teatro. Tutto questo per giungere alla conclusione sulla fine della cultura. L'accesso al sapere è garantito, ovviamente. È un diritto acquisito. La differenza è se tale diritto debba essere garantito dal mercato, come avviene in gran parte dei paesi capitalistici, o da una qualche forma di intervento pubblico in favore dei produttori di cultura.

Per quanto riguarda la figura dell'intellettuale, Hobsbawm riflette sull'eclissi dell'intellettuale organico (lo storico inglese ha letto e studiato gli scritti di Antonio Gramsci dal carcere ben prima che venissero tradotti in inglese) e sulla fragilità che ha sempre avuto la figura del maître-à-penser. Anche su questo passaggio prevale il disincanto. Hobsbawm sostiene, e qui la sua posizione coincide quasi alla lettera con quanto ha sostenuto, alla metà degli anni Novanta, Edward Said in un ciclo di conferenze alla Reith Lectures e poi raccolto nel volume Dire la verità (Feltrinelli), che l'intellettuale deve esprimere il dissenso quando è necessario, esercitando così uno spirito critico, anche quando questo è in contraddizione con la sua posizione politica. La posta in gioco è dunque l'autonomia dell'intellettuale da potere, sia di quello politico che di quello esercitato dall'industria culturale e dal mercato. Tutto ciò non contrasta la tendenza della produzione dell'opinione pubblica da parte di altre figure, come attori, attrici, sportivi, giornalisti, presentatori, ma facilita la messa a fuoco politica della costruzione di punti di vista critici sulla realtà.

Sulla stessa posizione è Rino Genovese nel Destino dell'intellettuale, saggio dolceamaro sull'incapacità del Sessantotto di immaginare una figura intellettuale diversa da quella dell'intellettuale organico che si chiude con l'auspicio di una rinnovata presa di parola degli intellettuali nella difesa di valori universali - verità, giustizia, libertà e uguaglianza - nella prospettiva di un relativismo culturale «forte», cioè consapevole del fatto che l'intellettuale è sempre «situato» in un contesto geopolitico.

I lavoratori della conoscenza

Gli scritti di Hobsbawm e quelli di Rino Genovese si fermano sul ciglio di quel nuovo modo di produzione dell'opinione pubblica, che invece è varcato da Francesco Antonelli nel suo Da élite a sciame. Anche qui l'autore parte da molto lontano; assume come dirimenti sia la riflessione di Benda che quella di Antonio Gramsci, mettendo in evidenza l'entrata nell'agone politico dei «colti» e assegnando al partito di massa il ruolo di medium dell'intellettuale pubblico. Antonelli tuttavia è interessato a comprendere cosa viene dopo la morte dell'intellettuale pubblico, facendo sue alcune tesi sul capitalismo cognitivo, in particolare modo quelle che sottolineano non solo che il sapere e la conoscenza sono diventati mezzi produttivi, ma anche il fatto che la produzione di senso è ormai un settore produttivo come molti altri. Per questo preferisce parlare di intelligenza collettiva e di parallela obsolescenza sia degli intellettuali pubblici che di quelli specifici. Per l'autore, chi vive del lavoro intellettuale deve essere qualificato come un lavoratore della conoscenza. È questa la figura erede dell'intellettuale.

Rimangono tuttavia indefiniti alcuni aspetti legati alla figura dell'intellettuale. Il rapporto con il potere, in primo luogo. C'è poi la necessità di definire qual è il rapporto tra gli intellettuali-lavoratori della conoscenza e i i movimenti che tendono a trasformare la realtà. Infine: una volta che l'intellettuale è ormai un lavoratore della conoscenza, quale sono le modalità di organizzazione di questa componente del lavoro vivo? Lo sciame indicato nel libro di Antonelli più che una risposta a questa ultima domanda indica semmai i comportamenti dei lavoratori della conoscenza, ma fornisce anche alcune tendenze presenti nella produzione dell'opinione pubblica. Con l'eclissi dell'intellettuale e l'ascesa della Rete, infatti, la produzione dell'opinione pubblica richiede un «modello di business» per la produzione di senso. Già perché la supposta morte dell'intellettuale è contemporanea non solo alla pervasività dell'industria culturale, ma alla interdipendenza tra produzione e circolazione della conoscenza e formazione dell'opinione pubblica. Come infatti dimostrano alcune vicende della politica italiana, che corre il rischio di diventare un laboratorio sociale, il ruolo dei media è rappresentabile come una efficace fabbrica del consenso, ma allo stesso tempo indicano che la politica e la produzione dell'opinione pubblica possono diventare un fattore diretto nella sviluppo di imprese che operano nella Rete, come dimostra il rapporto tra crescita di influenza del Movimento cinque stelle, la redditività economica dei blog, dei siti e delle imprese legate a quel movimento. Lo stesso si può dire dei social network, dove l'opinione pubblica è «spacchettata» e ridotta a un ammasso di dati che viene venduto per pianificare campagne pubblicitarie e politiche mirate.

In una situazione di questo tipo, decretare la morte dell'intellettuale è cosa facile. Eppure, quello spazio lasciato dalla sua scomparsa non rimane certo vuoto. La presenza di una coscienza critica, che più che illuminare la caverna dove viviamo serve a destrutturare i rapporti di potere vigenti e dunque a fornire materiali per una politica di trasformazione della realtà, è una presenza sempre più necessaria, sapendo che ogni riproposizione dell'aura dell'intellettuale è solo un'operazione di testimonianza e di nostalgia per un passato che non c'è più.

Meno battuta è la strada indicata da chi vede nel «lavoratore della conoscenza» il suo erede. Da qui la necessità di definire la sua autonomia dall'industria culturale e dalle imprese che operano in Rete. Una strada impervia, sicuramente, ma quella da perseguire per conseguire la produzione e la circolazione di una coscienza critica sulla realtà.


 Il manifesto, 18 giugno 2013

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